Psicoanalisi contro n. 11 – Il colore dei capelli

marzo , 1985

Vivere è mettere in scena uno spettacolo. Nessuno racconta soltanto con la voce: guardate qualcuno al telefono sbirciatelo di nascosto: è solo in una camera; l’altro interlocutore è a chilometri di distanza; eppure, quella persona, con i gesti, con l’espressione del volto, accompagnerà quello che dice, mettendo in scena una vera e propria recita; anche, con il corpo che nessuno vede. Neppure il gentiluomo più compassato parla movendo soltanto le labbra. Imitazione ed espressione si mescolano nella rappresentazione; esprimersi ed imitare è tutto ciò che può fare l’uomo vivendo. Gli eremiti, nel deserto e nelle caverne, recitavano per le stelle, per le rocce, per le formiche, per i fantasmi della loro infanzia. L’uomo viene al mondo e rappresenta se stesso, rappresenta un uomo che rappresenta un uomo che rappresenta; ma la rappresentazione, fingendo, rende vero ciò che è nella fantasia. Da sempre, vi è anche il piacere di rappresentare uno spettacolo consapevolmente: cioè, dire, a se stessi e agli altri: ecco adesso ci esibiamo, mettiamo in scena una storia, una fantasia; mostriamo e dimostriamo, narriamo ed imitiamo diciamo esplicitamente che noi siamo anche gli altri; o meglio, siamo soltanto altri. Chi assiste non ci crede, ma fa finta; finta di credere che qui noi siamo gli altri, col canto, col corpo, con la danza, parlando ad alta voce, i corpi nudi o vestiti in un cerchio magico e sacro. Questo era ed è il teatro: sacro; perché non c’è differenza tra il rito e la rappresentazione.

È superfluo avere due parole diverse per designare realtà che sono identiche. Nel cerchio della antica orchestra si realizzava la magia e la fascinazione; non suggestione ma scienza allo stato puro. Il fondamento della scienza sta nel teatro, entrambi sono descrizione ed esperienza, che modificano il mondo accompagnando e mutando il corso degli eventi.

Il teatro interviene nella vita mutandola con accondiscendenza: di fronte ad uno spettacolo lo spettatore ritrova se stesso perché capisce, capisce il mondo e i propri sentimenti, e il divenire dei fenomeni. Il laboratorio di uno scienziato è l’ombra di una rappresentazione teatrale; così un trattato di scienza, di fisica, biologia, chimica, non sono altro che un copione più o meno ben scritto. Ogni cultura ha espresso formule teatrali tipiche. Il teatro occidentale comincia sui campi e sui declivi delle colline dell’antica Grecia, ma noi conosciamo quelle antiche forme teatrali quando già sono vecchie e ben strutturate in generi con formule e moduli che esprimono un linguaggio da tutti comprensibile e organico.
La storia del teatro non comincia, può soltanto continuare. Oggi il teatro si chiama anche cinematografo: forma di spettacolo un po’ più mummificata, talvolta, leggermente cadaverica. Nel buio, una ridda di immagini bianco﷓nere o variopinte: il cinema è più frigido, osceno e stantío, ma è teatro, una delle forme di teatro. Noi conosciamo gli splendidi testi dei tre tragici del V secolo a.C.; poi, di altri autori solo alcuni quasi inutili frammenti. Del teatro greco ci è rimasto pochissimo. Ne conosciamo abbastanza bene gli edifici e la loro evoluzione, conosciamo l’abito e le maschere degli attori conosciamo le teorie sulla tragedia e sulla commedia elaborate dagli antichi stessi.In realtà, però di quell’antico teatro non ci è rimasto quasi niente. Le parole sono troppo poco. Euripide era più grande come autore delle parole o come compositore della musica? Una tragedia greca senza danza è un’altra cosa, quindi, noi conosciamo un altro teatro greco. Eppure, quel poco che è rimasto è splendido. Per fortuna che la cultura greca è esplosa come il Partenone. Una esplosione salutare ha distrutto a sufficienza un’eredità troppo grande per poter essere tramandata. Archeologi, filologi, storici dell’arte e del teatro raccontano una Grecia molto inventata. Poi il teatro è continuato: a Roma nelle piazze e nei teatri. Nel Medioevo la comunità intera si raccoglieva nelle sacre rappresentazioni o attorno a giullari e saltimbanchi. Nelle sale dei palazzi dei principi rinascimentali, nuovamente commedie e tragedie scritte, con musica e costumi. Dilettanti gli attori, professionisti gli spettatori; e, nuovamente, si costruiscono e progettano teatri per il teatro: Palladio, nel cuore del seicento a Venezia il San Cassiano, Wagner, Gropius. E gli autori scrivono i copioni: prima l’elenco dei personaggi, la descrizione della scena, poi le battute. Un nome, due punti; un discorso diretto, un altro nome, due punti, e così via. Ogni tanto, tra parentesi, le didascalie. Si dice che quando il teatro ha un linguaggio in assoluta armonia con gli usi i costumi e la cultura della propria epoca, le didascalie siano ridotte al minimo perché si sa come si deve fare, l’autore scrive soprattutto i dialoghi. Questa è una semplificazione, sebbene non del tutto falsa. È vero che gli autori di teatro scrivono i testi e scrivono le didascalie. Ma quando la rappresentazione è ricca e l’intento dell’autore è quello di fare qualcosa di nuovo, di usare un linguaggio inconsueto, le didascalie prendono corpo, si gonfiano, perché la tradizione non viene in aiuto: l’attore, il regista o colui che mette in scena, il capocomico non saprebbero che fare, le parole delle battute sono insufficienti. Oggi è ritornata di moda la musica anche nel teatro che privilegia la parola parlata.

Il cinema ha insegnato al teatro parlato l’importanza del linguaggio musicale che si intreccia a quello della parola. L’autore di teatro scrive, soprattutto, il testo: quindi, la sua opera si inserisce nella storia della letteratura. La storia del teatro si realizza altrove si realizza nella messa in scena: costumi musica e scenografia. Il testo teatrale nasce ogni volta che viene rappresentato, sempre un po’ diverso. Soprattutto dall’ottocento in avanti la parola parlata ha spadroneggiato nelle rappresentazioni teatrali. Gli attori parlano, parlano, parlano; certo, si esprimono anche con il corpo, con i passi di danza, muovono oggetti; sono circondati da luci, colori, fondali, quinte… ma soprattutto, gli attori parlano. Ed ecco il teatro di parola, quello che realmente è soprattutto parola. Teatro borghese, si è detto, ma non soltanto. Lunghissime scene con persone che parlano intorno ad un tavolino e prendono il tè: i sentimenti, i tradimenti, i padri, le madri, i figli, le parole rotolano nella sala, gli spettatori si commuovono, potrebbero anche chiudere gli occhi, tutto si capisce. Il teatro di parola è un modo di fare il teatro, ma non è il teatro che a me piace. Eppure il teatro di parola, oggi, spadroneggia e spadroneggia proprio oggi che è considerato un po’ superato. Ne sono vittime gli uomini di teatro, i registi soprattutto. I registi sono una strana fauna: in genere sono autori frustrati che usano il loro potere per riscrivere un testo altrui. Un tempo lo facevano i mattatori, che aggiungevano, toglievano, variavano il testo. Oggi lo fanno i registi; lo fanno anche le compagnie, che senza regista, mettono in piedi, collettivamente, lo spettacolo. Tutti costoro sono vittime del teatro di parola, tutti credono che, nel teatro, l’elemento fondamentale, essenziale, indispensabile, sia la parola parlata. Alcune messe in scena invero, fino a qualche anno or sono, manipolavano anche le cosiddette battute che venivano tagliate, stravolte, cambiate, anteposte o posposte; pratica che è ora meno in auge: chi fa così ormai fa parte della retroguardia.
Quest’operazione è, però, forse meno scorretta di altre, anche se ugualmente irritante, perché il risultato, nella maggior parte dei casi, è soltanto peggiore di quello che si sarebbe ottenuto rispettando il ritmo interno voluto dall’autore del testo; ma questa è una considerazione ‘a posteriori’, in teoria avrebbe anche potuto migliorare il testo.

Ciò che si deve giudicare è lo spettacolo, così come viene realizzato, come vive nel breve spazio magico della rappresentazione.
Io sottoscrivo in pieno l’affermazione che ho appena fatto: è una verità a cui credo fino in fondo.
Il teatro è lo spettacolo.
Si può giudicare il testo teatrale leggendolo anche come se fosse un romanzo o una novella, immaginandolo, magari, sulla scena: però, resta letteratura.

A me non piace la tirannia della parola, in teatro; eppure, tutti sono ritornati ad esserne vittime, e forse lo sono sempre stati, grazie anche, ai registri tracotanti, che non sanno leggere, per intero, i copioni.
Questi registi fanno recitare agli attori tutte le battute, ben imparate a memoria poi, se la didascalia dell’autore dice: c’è un divano rosso; loro mettono due poltrone verdi; se c’è scritto: il mendicante, con il cappello in mano, si sposta da destra verso sinistra; loro decidono che deve tendere la mano e rimanere assolutamente fermo, in mezzo alla scena.
Non parliamo, poi, di quell’assoluta idiozia teatrale per cui si ritiene cosa molto originale far recitare le Coefore di Eschilo o altra antica tragedia, in abiti moderni, ambientata magari in un paese a regime dittatoriale dell’America Latina.
Queste sono stupidaggini che dimostrano soltanto poca fantasia.
È veramente triste che le didascalie del copione, poche o tante che siano, non vengano, spesso, rispettate; come se un gesto fosse meno importante di una frase detta.
Perché, se la contessa dice: «Marchese Ademaro, voi mi avete tradito», e la didascalia richiede un abito bianco, il bianco dell’abito è meno importante del tradimento di cui la contessa è consapevole e accusa il marchese?
L’abito bianco è una battuta, perché, in teatro, tutto è teatro: il gesto, la musica il colore dei capelli.
Alcune didascalie, e questo è merito soprattutto dei grandi autori, non c’è neppure bisogno di scriverle, cioè di scriverle concretamente, tra parentesi, in quanto sono il dialogo e l’azione stessa che le suggeriscono.

I cattivi uomini di teatro non tengono conto delle didascalie implicite, che sono le più belle e quelle più difficili da leggere. Una battuta, talvolta, impone un gesto e soltanto quel gesto, per sempre: quel gesto non è meno importante della battuta. Eppure, l’inganno della parola fa sì che si rispettino le battute, ma non i gesti col loro significato. Ma, allora, che cosa rimane della creatività del regista, dell’attore, dello scenografo? Se sono intelligenti, se sono uomini di teatro, se non sono schiavi della parola, rimane moltissimo. È proprio quando essi sono corti di ingegno che hanno più bisogno, per affermare la loro autorità, di non lasciare il copione intatto, come è stato scritto; ma non è variando il testo dell’autore che si dimostra originalità di invenzione; ma è scrivendo, insieme con lui ciò che lui non ha scritto: perché non ha saputo, potuto o voluto. Perché autore del testo non è soltanto il signor Bertold Brecht, il signor Renato Simoni. Autori del testo sono anche il regista, l’attore, lo scenografo, il musicista, il costumista il tecnico delle luci.

Perché il teatro è tutto questo, e la storia del teatro è fatta di tante rappresentazioni, di cui bisogna rispettare anche la didascalia che dice: cala la tela.