11 – Marzo ‘85

marzo , 1985

Al Salone Renault di via Nazionale abbiamo visto la mostra di Pietre e marmi di Paul Popple, tutte opere di un periodo compreso tra il 1980 ed il 1984. Popple è uno scultore nato in Vietnam nel 1953, ma inequivocabilmente americano, benché ora viva ed operi, per lo più, in Italia. È stato veramente coraggioso ad esporre opere così insulse e dissennate proprio a diretto confronto con le automobili del Salone che, sepure di plastica, hanno un senso che è possibile cogliere anche con un rapido sguardo. Invece quei bellissimi materiali sono usati dallo scultore in modo da uscirne sviliti, umiliati e offesi, per l’assoluta ottusità estetica e poetica che esprimono. È persino triste toccarli – e così piacevole allo stesso tempo – marmo, pietra serena e travertino, breccia e lava del Vesuvio si articolano in frammenti, ora grezzi ora tirati a lucido, e la fantasia immagina quali belle forme potrebbero fiorirne, in luogo di quelle piatte geometrie o noiose spirali, di quelle forme accostate con la triste banalità dei soprammobili da grande magazzino. La mostra è stata un’operazione di mecenatismo: forse è un’attenuante, forse no. Danno allora risultati migliori le operazioni dei mercanti?

Eccoci ora in una galleria in cui non c’entra l’amico di Orazio: siamo al Primo Piano, in via Panisperna 203, dove espone Antonio Violetta, scultore italiano, nato a Crotone nel 1953, e la nostra desolazione aumenta. Non c’è neppure più la piacevolezza dei materiali: qui le poche cose sono soltanto brutte. Grigie piattaforme di metallo scuro, quadrate o rettangolari, la cui superficie increspata è talora solcata da tracce, come di ruote su di un terreno fangoso, qua e là qualche crepa. Opere per le quali una presentazione dell’autore rivendica un «risultato di effetti simulati molto complesso e raffinato, dietro l’apparente semplicità, anzi spontaneità». Si esce con un po’ di tristezza e si prendono appunti in gran fretta, per la paura di dimenticare troppo presto quel che si è visto.

Due piani sopra, nello stesso vecchio palazzo, alla Galleria Pieroni, espongono Gilbert & George e la mostra reca il titolo: Live’s. Questi due signori inglesi, definiti a suo tempo come concettuali, sono dei simpaticoni che, però, fanno male tutto quello che fanno. Forse avrebbero la vocazione dei corniciai, perché i ritagli fotografici in cui consistono le loro opere sono sempre messi sotto vetro e incorniciati con brutte, ma precisissime cornicette. Ci pare di ricordare che sono esigentissimi nel pretendere vetri dalle misure esatte e dagli angoli perfettamente a squadra, facendo penare non poco i vetrai cui perviene la commissione. Cerchiamo di descrivere l’opera tipo, che consiste sempre, in queste ultime mostre, di frammenti quadrati di fotografie, che vanno a formare un gigantesco pannello, quadrato o rettangolare, su cui sono operati interventi grafici e coloristici di varia natura. I differenti soggetti vorrebbero avere ispirazioni e motivazioni diverse, ma l’intenzione si ferma ai titoli: Cry, Seed, Three Ways, Fallers, Calls, NewLand, Dream, in realtà, l’aria che si respira è sempre la stessa, sia che una fila di scarpe gialle da jogging scandisca in due parti uguali la geometria dell’opera, sia che i tre ragazzi colorati e di colore stiano all’ombra di una margherita, sia che due banane restino sospese su di una mischia di figure umane e vegetali. Sempre lo spirito che ne emana è lo stesso che si riflette sui volti dei due artisti, riprodotti in varia guisa in quasi tutte le opere in mostra: una vuota ostinazione a giocare coi materiali più insignificanti, nella speranza che il gioco continui a pagare, come sta pagando da circa vent’anni. Un gioco che ha permesso a due onesti contabili della City di proporsi come soggetto artistico, sfruttando la malafede colpevole di chi, per paura di non aver capito, fa sempre mostra di capire tutto e tutti. Ma qui non c’è niente da capire e abbastanza poco da vedere.