11 – Marzo ‘85

marzo , 1985

Non eravamo seduti molto comodamente al Teatro Tenda di piazza Mancini e faceva troppo caldo, noi eravamo però curiosissimi di assistere alla rappresentazione di un testo che non conoscevamo ancora, interpretato da due attori che ci sembra di conoscere da sempre: Quasi per caso una donna: Elisabetta di Dario Fo.
Dopo una breve e spiritosa introduzione storica all’argomento di cui tratta la commedia, fatta dallo stesso Fo, incomincia lo spettacolo vero e proprio. Elisabetta è nel suo appartamento, attrezzato con pochi e vistosi elementi di arredamento, tra i quali si notano, oltre al letto a baldacchino, un enorme cavallo bianco di legno e un manichino vestito di un abito scuro; in questa unica stanza si svolgerà tutta l’azione nei suoi due tempi. Gli interpreti sono: Dario Fo e Franca Rame con Anna Maria Lisi, Giorgio Biavati, Ubaldo Lo Presti, Giuliano Bison, Raffaele Arena, Mario Pirovano. Gli elementi della storia che si intrecciano intorno alla figura della Regina Elisabetta sono: l’ombra di Maria Stuarda, l’incombente colpo di Stato e l’amore per il Conte di Essex, per il quale Elisabetta vuole diventare bellissima con l’aiuto di una vecchia praticona: la donnazza.

Dappertutto si infiltra William Shakespeare, con il suo Amleto. Il testo è costruito con una sbalorditiva sapienza teatrale: l’umorismo più esplosivo copre per quasi tutto lo spettacolo una tensione drammatica acutissima: la morta Maria Stuarda, cugina di Elisabetta, incombe come una presenza metafisica.
Tutti dialogano con Amleto e le battute shakespeariane, talvolta accennate, si intrecciano continuamente con l’azione che si va svolgendo. Elisabetta ha paura di Shakespeare, come tutti i potenti hanno paura dei poeti. Gli intrighi politici richiamano, ovviamente qualche volta, la situazione dei nostri giorni; ma il teatro di Fo non è politico per questo. Non è la battuta trasparente sui Servizi Segreti ad avere carica eversiva, quanto piuttosto la bellezza del testo, che ha gli accenti della commedia antica ed è provocatorio, perché turba tutti gli imbecilli e i vili: alle nostre spalle, un gruppo di costoro, indignati, uscirono durante il lungo monologo finale della Regina, facendo volutamente rumore e mormorando che Fo era diventato un intimista reazionario.
I veri artisti sono sempre scomodi; quando credi di aver loro imposto di ripetersi, e sei tranquillo anche delle loro provocazioni, ecco che paiono improvvisamente cambiarti le carte in tavola e ti sbattono ancora addosso una realtà nuova, di fronte alla quale tu, perbenista di sinistra, rimani sconvolto. Indubbiamente, il monologo conclusivo di Elisabetta è una pagina di poesia drammatica, alta e sottile, senza plateali demagogismi: è una donna che ha paura, è una regina che teme il proprio e l’altrui potere, e poi, ancora, è una donna innamorata e prova rimorsi e viene assalita dagli squilibri della follia: entra ed esce dai panni di Amleto, in cui vuole e teme di riconoscersi. Dove è il potere di Elisabetta? Dalle sue parole salta fuori l’inconscio e l’intimo tormento della sua psiche: essere o non essere qualcos’altro? Quasi, per caso, una donna. L’interpretazione di Franca Rame è magistrale: sapida, gustosa, grottesca quando deve far ridere; delirante e terribile quando si propone di annichilire il pubblico. Splendida la presenza scenica di Dario Fo: attore elisabettiano, con tutte le astuzie barocche, che si concretano in un virtuosismo che diventa poesia. La sua donnazza riusciva talvolta ad ipnotizzare, recitando con il volto, con una mano o con un piede.
Non riusciamo a capire perché il personaggio di Marta, dama della Regina, fosse reso da Anna Maria Lisi in modo sempre così furibondo. Tutti gli altri sono stati corretti. Gli elementi scenici e musicali sono risultati efficaci e gradevoli. Lo spettacolo, nell’insieme, ci ha dato un senso di appagamento e di pienezza; ma anche di turbamento.

Verdinvidia, di e con Grazia Scuccimarra, al Teatro in Trastevere di Vicolo Moroni, è uno spettacolino divertente. Con un piglio un po’ da professoressa in cattedra, la Scuccimarra parte proponendosi di canzonare i maschi, mettendo in ridicolo la loro viltà, volgarità, debolezza e stupidità.
Inoltre, sfidando il Padreterno, vuole, dosando ingredienti nelle provette, creare un maschio migliore di quello attualmente in circolazione. Il risultato che l’autrice riesce a raggiungere, l’effetto più pungente della sua satira, non è tanto distruttivo nei confronti dei maschi, quanto pesantemente ironico verso la coppia eterosessuale; infatti la donna-tipo del maschio in questione risulta essere non meno vile, volgare, debole e stupida, ma con un difetto in più: appiccico
sa. Tanto che bisognerebbe rifare anche lei.
Il testo, purtroppo, gioca quasi tutte le sue carte fin dall’inizio, perciò risulta, in seguito, ripetitivo e alcune gags paiono quasi fuori argomento, un pretesto per colmare un vuoto. La Scuccimarra, coadiuvata da una muta collaboratrice, Giovanna Brava, si prodiga sputando anche l’anima, con mimica e gesti che ravvivano la scena assai povera di elementi, giocando con telefono e microfoni, facendo balzi e appiattendosi contro i fondali, con rabbia e civetteria. Ne viene fuori uno spettacolino di cabaret, un po’ datato e senza troppe pretese; ma non sgradevole. Il professionismo dell’autrice-attrice fa comunque aggio sull’ideologia trita con cui ammicca ad un pubblico non dei più acuti. Le musiche sono di Pino Ciancalosi.