Archivio di ottobre 1984

7 – Ottobre ‘84

lunedì, 1 ottobre 1984

Il film Claretta, di Pasquale Squitieri non è un film fascista: è un film qualunquista – che dietro il qualunquismo di sempre si annidi la possibilità del fascismo è un discorso che non si può affrontare qui.

Claretta Petacci è, per Squitieri e Arrigo Petacco (che firma la sceneggiatura insieme col regista) un’eroina. Si esprime con un linguaggio arcaico, tra il neoclassico e il romanzo d’appendice ottocentesco. I suoi sentimenti sono puri, tutti puri. Ama Benito Mussolini senza riserve, fino al sacrificio.
Il film racconta la storia di questo tragico amore con indubbia efficacia, che trae, soprattutto, da una serie furbissima, anche se non del tutto intelligente, di effettacci ed effettoni.

È inutile raccontare la trama. In questo film tutti sono cattivi: gli antifascisti e i fascisti, i ministri e i poliziotti. Adamantina risplende Claretta: angosciata per le sorti dell’amato, violentata in carcere sotto i bombardamenti, generosa coi più sfortunati di lei, fiera anche di fronte ai tedeschi, sprezzante infine di ogni possibilità di salvezza.

Il duce, che compare poche volte e mai come figura centrale, ha gesti pontificali alla Giovanni XXIII; gli altri sono tutti figuranti, appiattiti sia nella resa psicologica dei caratteri, sia in quella delle immagini.
Ciò che è però fondamentale dire, e balza evidente fin dai primi minuti, è l’assoluta incapacità interpretativa di Claudia Cardinale, che recita sempre come se si stesse confessando – divertente è osservare la scena in cui Claretta realmente si confessa con il cappellano del carcere di Novara: tenendo questa scena come chiave di lettura si vede come la Cardinale non esca mai da quest’unico modulo, a parte qualche strillo isterico imposto dalle circostanze più drammatiche -.
La pochezza di Squitieri è ben rappresentata, senza – ci pare – espressa volontà del regista o dell’interprete, dal personaggio di Laura Corti, reso da Catherine Spaak come peggio non si potrebbe. Del tutto mistificatorie le intrusioni degli spezzoni di autentici filmati a piazzale Loreto e Miriam di San Servolo, la sorella superstite della Petacci Claretta, chiamata impietosamente ad esibirsi in una commemorazione che avrebbe dovuto restare suo patrimonio personale. Tutto sommato, e non solo perché questa storia ancora ci scotta, il film riesce a tenere ben desta l’attenzione quasi fino alla fine.
È del tutto imbecille scandalizzarsi. Qualche parola la vogliamo spendere per quanto di bello e professionale abbiamo notato: il commento musicale di Gerard Schurmann.

Nei titoli di testa una dolente ed emozionante melodia del flauto descrive meglio di come non ci riesca tutto il film l’anima di una donna che crede si possa vivere solo per amore; poi l’orchestra, presente in vari punti, oscillando tra Mahler, Wagner e Dukas, costruisce immagini di sicura efficacia poetica. Certo, il tutto è un po’ convenzionale, ma le varie famiglie degli strumenti sono usate con notevole astuzia compositiva. I brani di repertorio sono usati con efficacia, anche se forse un po’ scoperta, come «l’addio al passato» dalla Traviata che commenta le prime ansie di Claretta.

Psicoanalisi contro n. 7 – Né di Venere né di Marte

lunedì, 1 ottobre 1984

«Né di Venere, né di Marte, né si sposa né si parte, né si dà inizio all’arte».

Questa poesiola la conosco da sempre. Quando comincio qualche cosa di martedì o di venerdì mi viene in mente; se quello che devo fare è per me particolarmente importante quella filastrocca comincia a ruotarmi in testa e mi mette a disagio; allora mi sento insicuro, oppure mi vergogno. Uno psicoanalista non può permettersi d’essere superstizioso

Ricordo mia nonna, che credeva molto all’influenza nefasta del martedì e del venerdì e che suffragava questa sua convinzione raccontandomi con la prosopopea dello scienziato di tutte le volte in cui lei aveva iniziato qualcosa di martedì o di venerdì e se ne era poi dovuta amaramente pentire. Come tutti gli scienziati, anche lei ragionava sull’esperienza. Ma allora non si tratta di superstizione, ma di scienza; oppure potremmo dire che scienza è il punto massimo della superstizione, però si potrebbe anche affermare che tutti i superstiziosi sono vittime di falsi esperimenti. Ma quando l’esperimento è vero? Mia nonna o era pazza o era bugiarda: seduta sul suo divano accanto alla finestra faceva con me le parole crociate e mi raccontava i suoi esperimenti. La sua esperienza aveva dimostrato che tutte le volte che aveva voluto sfidare il venerdì e il martedì, sempre succedevano cose terribili come quella volta… e quell’altra ancora. O era pazza o era bugiarda . Ma io allora non la credevo né pazza né bugiarda e neppure ora lo penso . Una volta rimase sconvolta perchè , un amico mio, per scaramanzia parlando con me, si toccò i testicoli. Quando il mio amico se ne fu andato mi disse- . «Quello non è un bravo ragazzo»-
Senza dubbio era invidiosa, perché lei i testicoli non se li poteva toccare. Parlai con quel mio amico dei suoi testicoli; egli mi disse che se non se li toccava in determinate situazioni, stava malissimo e realmente gli succedevano cose terribili, come quella volta… e quell’altra… Era pazzo e bugiardo anche lui? Uno psicoanalista non può essere superstizioso Perché conosce le cause della propria superstizione; ma quando queste cause risalgono ad una nonna ed ad un amico: scienziati seppure di scuole diverse, come può liberarsi dalla superstizione? Dovrebbe liberarsi anche della scienza, e allora non sarebbe più uno psicoanalista. Oppure dovrebbe pensare che la scienza non si fonda sugli esperimenti ; ma allora su cosa si fonda? Ovviamente, si fonda sulla superstizione; quindi tutti gli psicoanalisti debbono essere superstiziosi . Però non sono superstiziosi soltanto gli psicoanalisti. Io non ho mai incontrato una persona assolutamente capace di non avere pensieri di tipo superstizioso. Alcuni sono convinti che fare o non fare certe cose, compiere certi gesti, certi rituali, sia estremamente utile alla loro vita; altri ci ridono su ma si sente che una parte di loro non ride e ricrede. Altri neppure ci ridono, pensano di non essere superstiziosi, ma lo sono di fatto: io osservo e vedo i loro rituali, i loro gesti propiziatori, il loro disagio per un segnale ritenuti nefasto. Ogni superstizioso ride delle superstizioni altrui, in cui egli non crede come un fedele sorride sui rituali delle religioni che non sono la sua, perché li sente superstiziosi, crede invece che il suo rituale sia diverso, che lo metta direttamente in comunicazione con la divinità che, benigna, benedirà la sua vita e lo guiderà attraverso i pericoli del mondo.

Noi siamo molto teneri e indulgenti con le nostre superstizioni. Quando sono confermate dall’esperienza rimaniamo colpiti e soddisfatti. Un gatto nero che ci attraversato la strada, ecco un tuffo al cuore: o Dio che mi succederà! Entriamo in un negozio e ci sbagliamo al momento di pagare, ci rimettiamo un po’ di soldi. Il gatto nero! Quel maledetto gatto nero, diciamo. Soddisfatti di aver trovato un colpevole. Lo raccontiamo a tutti: i gatti neri sono veramente terribili e potentissimi. Accade che in un altro giorno, in una bella mattina, un altro gattino nero ci attraversi la strada: un tuffo al cuore, un po’ di ansia ; ma quella mattina non ci accade nulla. Ci dimentichiamo di quella mattina e di quel gattino. E che soddisfazione c’è a ricordarsi di un esperimento andato a male? Francesco Bacone, per non incappare in questi errori, si era munito di tre tavole in cui segnava tutto: in quali condizioni un fenomeno avveniva, poi quando, pur essendoci le condizioni, il fenomeno non si verificava, e ancora l’intensità del fenomeno nelle sue varie relazioni. Genialità barocca: questa forse è la scienza. Ma anche Francesco Bacone, ne sono sicuro, non iniziava una serie importante di osservazioni di martedì e di venerdì. La scienza è del tutto impotente di fronte al mistero della vita, né i parafulmini, né la medicina preventiva riescono a farci sentire sufficientemente stabili su questa terra che rotola nell’universo e l’esistenza umana si svolge all’insegna della precarietà , del dubbio, e dell’incertezza. Anche la strada più nota e consueta può riservare una sorpresa, gradevole o sgradevole.

Senza dubbio questo è il bello della vita, ma dove si può cercare protezione nei confronti dell’ignoto. Scienza, religione e superstizione; tre tipi diversi di rituali protettivi, ma nessuno è infallibile e onnipotente.
Ogni gesto è un’avventura, una piccola avventura di un istante, ogni gesto piacevole lo iniziamo con allegria, ma anche con un po’ di timore; timore più o meno consapevole, ma presente e vischioso.
Oggi ho cominciato a scrivere ed è lunedì, è mattina, una bella mattina di un tenero settembre.

2.
Tutti coloro che iniziano una psicoanalisi hanno alcune ragioni per impuntarsi e resistere. Prima di tutto, si ha timore di venire a sapere di se stessi cose che non vorremmo sapere, di cui abbiamo una consapevolezza indistinta ; si percepisce che l’analisi getterebbe un fascio di luce impietoso su alcune parti della nostra personalità che non vorremmo fossero così. Ma di questo ho già parlato. Un’altra ragione è data dalla paura di ciò che potremmo capire, l’angoscia di fronte al possibile non è stata scoperta da Severino Kierkegaard, egli l’ha descritta con efficacia dolente, ma da sempre gli esseri umani temono ciò che si può annidare nel futuro. L’uomo può immaginare quello che gli accadrà, può anche muoversi in modo da favorire il realizzarsi dei propri desideri, ma è certo che la sua previsione è stata veritiera soltanto quando non è più una previsione, ma è diventata ormai un fatto accaduto: il presente che sfuma nel passato.

La scienza indubbiamente tenta e deve prevedere, ma non può mai essere certa di ciò che prevede. Questa incertezza deriva dal fatto che non conosce tutte le condizioni che producono il fenomeno?
Chi lo sa! La scienza non può sapere neppure questo, perché non saprà mai quali sono tutte le condizioni. Le variabili sono infinite. La parola infinito, se presa da sola, non vuole dire niente, come non vuole dire niente tutto, come non vuole dire niente niente.
Il futuro vive la prima nella fantasia e poi nella realtà, ma la realtà, a sua volta è fantasia, fantasia che ci proietta nuovamente nel futuro e che può esploderci in mano, quando diventa presente, annullando tutte le nostre previsioni.

Non per nulla Apollo parlava in modo ambiguo: il futuro doveva rimanere futuro anche per i suoi devoti, cioè fantasticabile, ma imprevedibile. Apollo è un dio sapiente, la sua sapienza è previsione, previsione che si radica però nell’incertezza e nella continua possibilità di essere smentita.

«…e Febo Apollo suona la cetra
procedendo agilmente, a grandi passi:
intorno a lui è una luce fulgente
balenano lampi dai calzari, e dalla tunica
ben tessuta.
Si rallegrano nel nobile cuore
Leto dalle trecce d’oro, e il saggio Zeus,
vedendo il figlio danzare fra gli dei immortali….»
(Inni omerici. da Inno ad Apollo. Trad. Filippo Cassola).

Molti esseri umani, scienziati, filosofi e non, dividono tutto ciò che esiste in due grandi categorie; o regni: quello degli esseri inanimati e quello degli esseri animati. Il regno degli esseri animati a sua volta è diviso in regno vegetale e regno animale e umano. Gli oggetti inanimati sarebbero mossi da una forza incomprensibile, puramente meccanica. Un’altra forza guiderebbe le piante e gli animali, quasi meccanica anch’essa; chiamata forza vitale e istinto. E l’uomo ? Qui nuovamente, gli uomini, parlando dell’uomo si dividono: alcuni dicono che l’uomo è come una stella, o l’onda del mare, prigioniero di leggi meccaniche, istintuali. Altri dicono che esiste una strana proprietà chiamata “ libero arbitrio”inerente all’uomo per cui questi sfuggirebbe alla concatenazione causale: l’uomo se vuole può . Che cosa? Non si sa!
Può opporsi al determinismo, può scegliere perché vuole, ma cosa vuole?
Di nuovo, non si sa! E: io dico: sì, e: io dico: no; avrei potuto dire no quando ho detto sì. Io credo che sia impossibile da sapere se esista o no il libero arbitrio.

Chi potrà mai dire che avrei potuto anche non scrivere le frasi che ho appena scritto?
Nel momento in cui le scrivevo, avrei potuto scriverle diverse? Adesso posso cancellarle, o modificarle, ma adesso. E allora? Siamo prigionieri del tempo, il tempo è la nostra fantasia; noi quindi siamo prigionieri della fantasia. La fantasia non è la realtà, o meglio: è un modo della realtà di non essere quella realtà che noi pensiamo debba essere la realtà. La fantasia è il sogno del sogno; se il futuro coincide con la fantasia , il futuro è imprevedibile e allora avventurarsi nel futuro fa paura; e così comunque si viva, si faccia o non si faccia la psicoanalisi. Perché allora si ha più paura di avventurarsi nel cammino della psicoanalisi che non in quello del vivere quotidiano?

3.
L’ignoto che si cela dietro alla psicoanalisi è abbastanza particolare, il suo nome è inconscio. L’inconscio è presente, ognuno di noi lo sente, dentro e attorno, l’inconscio è ciò che non sappiamo ancora e ciò che non ricordiamo più. Chissà se è anche ciò che non abbiamo mai saputo? Io credo di sì: l’inconscio è ricco anche delle esperienze della nostra specie, forse dell’esperienza di tutto l’universo. Nessun essere umano è prigioniero nel breve orizzonte della propria vita; l’uomo viene di lontano e andrà lontano. Noi conosciamo il nostro oggi che è composto di esperienze innumerevoli, di desideri che vanno oltre noi stessi. Noi siamo il frutto dell’incontro di due gameti che venivano di lontano e l’inconscio è ricco di fantasmi che un tempo sono stati una presenza: per noi e forse per altri. Anche gli esseri umani che ci circondano, che amiamo e tocchiamo sono un po’ fantasmi, come anche i fantasmi dell’inconscio sono un po’ reali perché sono stati reali, concreti, amati, odiati; e poi il nostro inconscio è fatto dei fantasmi degli altri, dei desideri che gli altri proiettano su di noi, delle fantasie che gli altri ci buttano addosso, dei ruoli che gli altri tentano di imporci o di invitarci a recitare. L’inconscio di un solo essere umano abbraccia, probabilmente, tutto l’universo e si perde lontano. Sigmund Freud aveva ragione quando parlava dei sogni e diceva che in ogni sogno c’è un ombelico che è il suo significato profondo, ma oltre a questo significato c’è ancora qualcos’altro. Freud ha avuto paura di indagare, fantasticando, su questo qualcos’altro. Ma al di là dell’ombelico del sogno c’è un mistero immenso in cui è possibile perdersi. Ecco perché, giustamente, a iniziare l’avventura della psicoanalisi ogni essere umano prova paura, paura di questo ignoto che sente dentro e attorno a sè, e che potrebbe, improvvisamente uscire, avvolgerlo, risucchiarlo, rapirlo. Echi che vengono dalla notte dei tempi! Immediatamente l’inconscio è immaginato da ognuno di noi come una realtà buia, una grande notte. Forse questo è sbagliato, perché l’inconscio è anche una grande luce, piena di colori, di immagini,di odori, di sensazioni. Ma buio o splendente che sia l’inconscio porta con sè la notte dei tempi. L’uomo fatica a tenersi saldo su questa zattera che è il suo presente, il suo oggi, il suo vivere quotidiano, la sua casa,il suo lavoro, la moglie, il marito,i figli, la parrocchia, la sede del partito, o il lungofiume, dove la notte battono i maschi e le femmine. Tutto questo è il suo essere qui, ora e la notte dei tempi spaventa perché non si sa dove finisca. Almeno si sapesse che non finisce ma non si sa. ….e poi ancora: dall’inconscio, dall’inconscio possono balzare fantasmi più concreti, che sono il frutto dell’esperienza del singolo. Figure terrifiche o amorevoli, inquietanti sempre perché inaspettate. Chi poteva pensare che nostra madre e nostro padre fossero presenti nei loro gesti passati, che la nostra rabbia, il nostro rancore, il nostro amore, il nostro desiderio potessero attualizzarsi, improvvisamente, sulla figura dell’analista in modo così vivace e sconvolgente? Poi, ancora, ecco intorno a noi figure sconosciute, desideri innominabili perché innominati, innominati da sempre. La psicoanalisi tira fuori questi fantasmi e questi desideri. Desiderio di un pene, di una vagina, desideri di morte, desiderio di una morte.

E questi fantasmi e questi desideri ad un certo punto pretendono di diventare concreti, più concreti dei desideri e delle persone presenti.
Ecco perché l’analisi fa paura. Ed ecco perché l’analista deve essere cauto e deve esser abituato a non avere paura della notte dei tempi, dei fantasmi e dei desideri, suoi e dell’altro.

4.
Quando si intraprende un viaggio per le vacanze, o magari solo perché si prova l’impulso di andare, si sentono spesso due discorsi: «questo viaggio mi servirà per conoscere paesi nuovi, nuovi luoghi, nuove persone, nuove situazioni, avere nuove esperienze», come se cambiasse qualcosa soltanto attorno a noi che restiamo quasi immobili spettatori. Oppure, ancora si sente dire – e questo è detto soprattutto a coloro che sentono il bisogno di andare per un’insoddisfazione interna, per un’ansia – «tanto tutto rimarrà uguale: anche se sarai a seimila chilometri di distanza dal tuo paese e dalla tua casa, le paure, i timore, le frustrazioni che ti porti dentro ti accompagneranno ». Questo è pur vero: molte situazioni psichiche sono come un fuoco che si è appiccato al mantello: è inutile correre , il fuoco resterà acceso e ci inseguirà; bisogna liberarsi del mantello. Le frasi che ho detto sopra sono vere e false allo stesso tempo; noi siamo costituiti da ciò che ci è attorno ci costituiamo sulle abitudini, sui gesti, sui colori, sulla lingua e su tante altre cose. Se il mondo attorno a noi cambia, siamo costretti a cambiare un po’ anche noi, pur resistendo. Nuovi gesti nuovi riti entrano dentro fin a strutturare diversamente i nostri sentimenti, emozioni, desideri. Un tempo si consigliava alle persone “deboli di nervi” di fare un viaggio, era un rimedio comune e consueto. E’ vero: fuggire non basta. Spesso cambiamo soltanto gli aspetti esteriori del disagio che all’esterno mantiene la sua forza prorompente. Però nessun viaggio lascia l’essere umano intatto: qualcosa è cambiato, fuori e dentro, e dentro sarà cambiato per sempre. Ciò è particolarmente vero per il viaggio della psicoanalisi : all’esterno cambia poco: si è costretti a recarsi con regolarità agli appuntamenti in casa di una persona; quella camera diventerà famigliare, diventeranno consueti quei mobili, quei libri e anche quei rumori che vengono dall’esterno: mentre la vita viene scandita da quegli incontri regolari. Spesso lo psicoanalista ci è presente, gli parliamo anche quando stiamo per addormentarci, quando siamo in bagno e lo specchio riflette la nostra immagine nudi: chissà se mi vedesse ora così. E chissà come è lui quando è nudo? Qualcosa è cambiato all’esterno e all’interno o questa persona entrata in noi è soltanto una marionetta in più nel nostro teatrino? Sappiamo che è ben di più! E’ colui che ci guida in un viaggio da cui potremmo uscire rinnovati.

5
Una delle frasi che mi hanno sempre messo a disagio è la seguente:” faccio questo per far passare il tempo”. Molte volte ci si concentra in un’azione per far trascorrere in fretta le ore che ci separano da un evento desiderato . Altre volte è una frase detta così, fine a se stessa. Far passare il tempo. Che vuol dire “ far passare il tempo” quando non si è in attesa di qualcosa di specifico?….E poi, quando il tempo è passato?….Di nuovo altri gesti per far passare altro tempo. Il tempo passa e noi rimaniamo gli stessi. Questo sarebbe terribile. Per fortuna non è possibile, anche se qualcuno si illude di non cambiare . Ma questo sperare di non cambiare impoverisce il cambiamento, è un cambiamento che non ha novità, è un cambiare che è come rimanere uguali.

Allora si vive per la noia e nella noia, nella consuetudine e per non cambiare; in effetti cambiare fa paura, proprio perché non si sa come si diventerà. Cambiarsi d’abito o cambiare abitudini alimentari è un cambiare solo dall’esterno? E cambiare dall’esterno può influire anche sui nostri desideri più profondi? Forse sì. Noi siamo il nostro maglione e i nostri baci. Noi siamo il nostro scrittoio e i nostri sogni. Noi siamo noi stessi e i nostri amici. Però se cambiamo troppo i baci, i sogni, gli amici, noi che cosa diventiamo? Se cambiano i nostri desideri , che resta di noi? Proprio per questo qualunque forma terapeutica che prenda in considerazione soltanto un aspetto della persona umana non sarà mai una vera cura . La pura e semplice inibizione dei sintomi con i farmaci, con il condizionamento dall’esterno, con le razionalizzazioni e i precetti comprime l’essere umano riducendogli lo spazio vitale, rendendolo continuamente insicuro.
Ciò agisce soltanto dall’esterno espropria e passivizza. L’inibizione di un sintomo, può essere momentaneamente utile e io non la rifiuto aprioristicamente. L’essere umano però non è soltanto i suoi sintomi; dobbiamo essere consapevoli che i sintomi non sono qualche cosa di esterno e appiccicato , fanno parte delle persone come tutto il resto che loro inerisce.

Non si può bloccare un sintomo e sperare che tutto sia risolto. Se non si sanno affrontare anche le motivazioni e le dinamiche inconsce, la scomparsa di un sintomo, può molto spesso, non essere altro che una perdita. La consapevolezza, ovviamente, non potrà mai essere totale, ma deve essere cercata continuamente. L’essere umano è composto del conscio e dell’inconscio, dei sintomi dolorosi e dei gesti che lo rendono soddisfatto. L’essere umano è il punto in cui si incontra l’universo. Questo mio umanesimo spera di non stimolare il desiderio di onnipotenza, ma vuole richiamare gli esseri umani a non separare brutalmente la loro esistenza da quella del” tutto” . Io non credo che l’uomo sia la copula del mondo, come diceva Ficino. L’uomo non tiene unito il mondo e non è tramite tra esseri superiori e inferiori. Ma l’uomo non deve sentirsi una manciata di cellule che si dimena senza senso su “questo atomo opaco del male”.
La psicoanalisi può far cambiare i nostri desideri ma questo cambiamento non è gestito del tutto da noi e allora ci sentiamo espropriati o peggio ancora temiamo di diventare estranei a noi stessi. In realtà il viaggio psicoanalitico permette, forse il cambiamento migliore. Cambiare con la consapevolezza del cambiamento, confrontando il nostro mutamento con l’altro, che muta con noi ma anche che resta un punto di riferimento. Cambiare senza saperlo è come non cambiare.

6.
Cambiare per cambiare è come fare le parole crociate per far passare il tempo. Bisogna cambiare avendo un progetto; bisogna abbandonare alcuni desideri perché altri ci sembrano, politicamente, esistenzialmente, moralmente più utili. Cambiare deve voler dire lottare con noi stessi e anche con gli altri affinchè qualcosa divenga migliore. Perciò cambiare non può essere soltanto non essere più come si era prima. Cambiare deve voler dire migliorare, avere qualcosa di meglio. Di meglio secondo quali parametri? Quelli che ci ha detto lo psicoanalista ? Certo anche attraverso un viaggio dentro ai nostri desideri, sopiti e allontanati, fantasmi sconosciuti che divengono noti. La scelta è sempre figlia di un condizionamento, ma è triste essere prigionieri di una scelta meschina e rattrappita; molto meglio essere figli di un’avventura che cerca di raggiungere il meglio e non soltanto il diverso. E’ strano sentire esaltare la positività del “diverso”. Il diverso aggettivo diviene il diverso sostantivo, un essere umano come gli altri. Ma chi sono gli altri? Sono i più: il diverso, colui che non è come la maggioranza. È necessariamente migliore? Ma la maggioranza, però, non è composta di bruti che violentano bambini nei cespugli della periferia. Eppure anche quelli sono diversi. Diversi da che? Da quegli altri diversi; che invece sono i diversi buoni. E chi sono i diversi buoni? Ognuno di noi ha un concetto diverso del diverso e del diverso buono. Certo, mi fanno orrore la stupidità e la viltà dilaganti, la monotonia di milioni di vite consuete e rancide, tutte uguali, o forse, quasi tutte uguali.

“Almeno non è come tutti”si dice di qualcuno. . “per fare qualcosa di diverso “ si dice spesso il sabato sera, mentre ci si accinge a fare ciò che tutti fanno.

7.
L’analista, quindi deve essere quanto mai cauto nel far venire fuori l’inconscio. Due atteggiamenti scorretti favoriscono la fuoriuscita prorompente di ciò che da troppo tempo era nascosto: sia il silenzio eccessivo sia le interpretazioni sconsiderate. L’analista che crede di essere prudente e sta all’inizio dell’analisi , troppo zitto, ottusamente zitto , favorisce l’esplosione dell’inconscio che comincia a dilagare, e più l’analista tace e più l’altro si avvolge nelle sue fantasie, nei suoi fantasmi, nei suoi ricordi e poi dietro ai ricordi , altri ricordi e altri ancora. Le immagini perdono di realtà, la riacquistano, riempiono il silenzio che sembra invitare a produrre di più, a scavare, a addentrarsi per strade che possono essere ancora pericolose.
Oppure, inorgoglito di aver capito qualcosa, di avere sulle labbra una bella interpretazione, spesso l’analista scaraventa una sentenza e poi tronfio, osserva. Ma cosa osserva? Un altro che appare un po’ disorientato, poi aggrappandosi, ingenuamente a quella frase come ad una scialuppa di salvataggio, ha il coraggio di buttar fuori quello che non aveva osato ancora dire: ma l’analista non è pronto a sorreggerlo, e, allora il mare dell’inconscio diviene sempre più tempestoso. Ma, allora, quando è bene tacere? E quando è bene parlare? Ecco, perché non si diventa psicoanalisti sui libri, e neppure con la buona volontà. Si diventa buoni psicoanalisti soltanto se si ha lavorato a lungo con un maestro, che ci abbia insegnato ad avere orecchio: che ci abbia insegnato una serie di trucchi che lui ha imparato, di piccole tecniche, che sono tantissime e che è importante conoscere. L’analista deve affinare l’orecchio per sapere stare zitto e parlare al momento opportuno. Una precettistica troppo articolata e rigida è quanto mai pericolosa, perché costringe l’analista a seguire soltanto aride regolette e gli impedisce di abbandonarsi all’unica guida Eros, incarnato nel suo maestro. Se lo psicoanalista sa tacere e parlare al momento opportuno, vedrà l’inconscio dell’altro, lentamente affiorare, manifestarsi, inondare la stanza. Ma egli saprà sempre controllare la situazione, anche quando vi sarà lo smarrimento dell’altro e la sua perdita di contatto con la realtà. Lo psicoanalista deve saper amare per poter essere amato e deve saper infondere fiducia. Se rimane un simulacro impassibile, pupazzo per le proiezioni trasferenziali, è un terapeuta pericoloso, che non insegna il rapporto, ma la solitudine.

8.
Ho detto che bisogna stare zitti, ma non troppo: e saper parlare, ma non troppo presto. Voglio ora soffermarmi un momento sul silenzio dello psicoanalista. Il silenzio è molto difficile da gestire: i disastri più grandi però avvengono quando la scelta del silenzio di deve al fatto che lo psicoanalista non sa veramente che pesci pigliare. Sia nella vita quotidiana sia nell’analisi i messaggi indiretti e inconsci sono continui. Quando l’analista non capisce, non sa come muoversi e sceglie di tacere, il messaggio che passa all’altro è disastroso. Talora lo psicoanalista si dice: io sto zitto così non faccio disastri, non provoco guai. Invece proprio in quel momento estremamente dannoso. Il silenzio ottuso di chi non ha capito è destrutturante e pericoloso: l’analizzato si sente disperatamente solo e l’analista assume allora un atteggiamento rigido e pettoruto, corruga la fronte e poggia con aria pensosa il mento sulla mano. Ma che non abbia capito niente lo si percepisce benissimo; lo percepisce l’altro e lo percepiscono persino gli oggetti della stanza che lì, su quella poltrona, sta seduto uno che non capisce e che dovrebbe capire. Allora che si fa? Bisogna capire, non ci sono altre possibilità: bisogna capire oppure cambiare mestiere. Ci possono essere dubbi, incertezze, perplessità e queste sono vitali e, spesso, utili; ma guai a quell’analista che non capisce troppo a lungo! Che si sente annegare nel mare immenso delle parole e delle associazioni dell’analizzato senza capire. E’ meglio capire o capire sbagliato? E’ meglio capire sbagliato: non capire è veramente distruttivo. Si potrebbe obiettare che anche chi ha capito sbagliato, non ha capito; ma non è proprio così. Comunque, ripeto: bisogna capire, e possibilmente capire giusto. Qui si annida il pericolo costituito da quelli che hanno raffazzonato la loro preparazione e non hanno avuto un didatta – che io preferisco chiamare maestro.

Perché costoro , in genere, o non capiscono o capiscono sbagliato , e allora sono guai seri. Riuscire a comunicare stando zitti è difficilissimo: anzitutto bisogna aver capito, o almeno aver capito abbastanza, allora si può anche decidere di non parlare; ma questo non è più il caso di un poveretto disorientato e annaspante , l’altro percepisce la presenza di un analista che sta seguendo una linea di pensieri ed è in qualche modo in comunicazione anche con lui, in che modo? Attraverso le domande: è più difficile fare domande azzeccate, o sottolineare una frase dell’analizzato di quanto non lo sia scaraventargli addosso una interpretazione più o meno brillante.

A me piace molto comunicare con la mia presenza, con il mio corpo, che è lì che attento e consapevole, E poi con le domande, talvolta astute, talvolta un po’ cattive, sempre con un sottofondo di tenerezza. Io sto conducendo un’analisi, da più di due anni, praticamente soltanto attraverso le mie domande. Certo, la persona che lavora con me è particolarmente recettiva, intelligente, sensibile: una mia breve domanda , secca e precisa vale per lui quanto una lunga interpretazione, articolata e prolissa. Domande e risposte, il dipanarsi lento di una storia, di una avventura, di un rapporto che è caldo e coinvolgente. Io sono lì, presente con tutto me stesso, e qualche domanda. Parlo con i miei silenzi e le mie domande, ma parlo perché so di aver capito.

7 – Ottobre ‘84

lunedì, 1 ottobre 1984

Abbiamo ascoltato il 14 settembre, nella chiesa di S. Maria in Montesanto, a piazza del Popolo il gruppo vocale-strumentule Kaproen in un programma di musiche del quattrocento, con cui si è inaugurato il XVII festival internazionale dell’organo, organizzato dall’Associazione Musicale Romana alla cui guida artistica sono Annamaria Romagnoli e Miles Morgan.

Il programma parlava di musiche del quattrocento, ma la serata comprendeva anche autori come G. de Machault, vissuti e operanti interamente nel trecento e altri decisamente del sedicesimo secolo. Purtroppo nella musica del tardo medioevo e rinascimento si fa di ogni erba un fascio, soprattutto dal punto di vista stilistico e interpretativo: si legge il trecento come il quattrocento e quest’ultimo come il cinquecento. La cosa è assurda, ci sono differenze sostanziali nei tre secoli in musica come nell’arte figurativa o letteraria: pensiamo che nessuno applicherebbe gli stessi moduli interpretativi a Botticelli e a Simone Martini. Invece, proprio perché la musica, morta sulla pagina, è difficile da far rinascere quale realmente era, è importante che si denunci l’abitudine di interpretarla ed eseguirla come se i tre secoli non rappresentassero particolarità e differenze, sempre in un solo modo. Qual è questo modo? La rigidità e la paura del sentimento. Purtroppo questo capita persino con la musica barocca. Gli interpreti, spesso, credono che aver sentimento voglia dire: tempi rubati, fortissimi e pianissimi improvvisi, o cantabilità esasperate. Noi pensiamo invece che una profonda analisi filologica della struttura (somatica) degli strumenti dell’epoca e delle espressioni artistiche e culturali parallele servirebbe, una volta per tutte, a sciogliere un po’ la sclérosi degli strumentisti esecutori della musica così detta antica. Non è il caso di temere che la bellezza e il calore di Guillaume di Machault non si possano esprimere che attraverso modi romantici alla Robert Schumann. Il concerto del gruppo Kaproen è stato splendido e lo diciamo subito; ma, anche subito, vogliamo dire che gli accompagnamenti strumentali di Leo Meilink, Marion Verbruggen, Anneke Pols, Titia de Zwart e Jacques Boogaart erano un po’ rigidi nell’interpretazione di brani di diversi secoli di cui non facevano intendere nessun tipo di evoluzione. Encomiabile lo sforzo del tenore Harry Geraerts che, pur nella leggera uniformità filologica, è riuscito ad essere appassionato, caldo e sensuale senza, secondo noi, commettere errori di interpretazione storica.
Simpatica la voce del mezzo-soprano Rita Daws, che sostituiva Lucia Meeuwsen, anche se meno precisa e sembrava essere in lite con gli strumentisti. Assolutamente perfetto Aurelio Jacolenna, all’organo: brillante, preciso, intenso e corretto sotto tutti i punti di vista.
Tra i brani eseguiti, tutti belli, vogliamo segnalare un gioiello: la messa del manoscritto di Cipro, di una sensualità sottile e penetrante, che la struttura modale, anziché allontanare, avvicinava alla sensibilità odierna.

Mercoledì 26 settembre è inizia la V rassegna di musica contemporanea con un concerto spettacolo di Karl Heinz Stockhausen, con l’intervento dell’autore.
E’ ormai un secolo che tutti dicono che la musica occidentale è alla ricerca di un nuovo linguaggio. Se non lo ha ancora trovato, vuol dire che i compositori occidentali sono tutti stupidi. L’arte cerca continuamente nuovi linguaggi che si evolvono, sono autocentrici ed eccentrici. Quale sia il linguaggio del nostro secolo non sono in grado di dirlo né i compositori né i critici.
Purtroppo l’altra sera al Ghione, c’è stata la dimostrazione dell’assoluta impreparazione musicale del pubblico (almeno di quello italiano).
Di fronte ad un’operina banale, vuota, frivola e mortalmente noiosa, gli spettatori che durante l’esecuzione hanno dimostrato un passivo disinteresse hanno, alla fine, applaudito, senza entusiasmo, ma compunti e corretti.
Non una discussione si è accesa dopo, la maggior parte dei presenti temeva di sentirsi «out» dicendo qualunque cosa. Al concerto si vede quanto il compositore di oggi sia solo, non voglia farsi capire: perché non ha niente da dire. Gli altri lo subiscono, riservando però il loro entusiasmo soltanto per Haydn e Beethoven. Perché tutto questo?

Assolutamente meritoria è l’operazione dell’Accademia Italiana di Musica Contemporanea; la musica di oggi deve essere divulgata, gli ascoltatori debbono sentirla vicina, e non rimanere così attoniti ed intimiditi.
Bisognerebbe avere il coraggio di fischiare, discutere, di entusiasmarsi o scandalizzarsi. Questo può accadere soltanto se i compositori e la gente si ascoltano a vicenda.

Ci siamo accorti che non abbiamo voglia di parlare di quella «cosa» che abbiamo sentito mercoledì. Diciamo subito che noi detestiamo Stockhausen.
La sua musica, per noi, è ridicola e dilettantesca, priva di seri fondamenti culturali, frutto di un narcisistico pressapochismo. Lo spettacolino si componeva di tre quadri: Mondeva, Examen e Vision. In una scena banale gli intepreti Frieder Lang, tenore, Markus Stockhausen, tromba, Majella Stockhausen, pianoforte, Michèle Noiret, danzatrice, Suzanne Setphens, corno di bassetto e organo elettrico, si muovevano (cantavano, danzavano e suonavano) raccontando storie piene di ridicoli simbolismi. La musica era molto facile all’esecuzione. Nelle prime due scene (Mondeva e Examen) trovatine banali, brandelli di melodiuzze, scalette e accordacci al pianoforte (usato anche come arpa) strombazzamenti d’effetto, ma tecnicamente facili della tromba, all’inizio divertivano un po’, ma poi, troppo ripetuti, diventavano stucchevoli. L’ultima scena (Vision) era la peggiore. Su di un pedale, o meglio: una sirena di pompieri, una musica dapprima abbondante di giochi imitativi, sfociava poi in immobili accordi vuoti di trombette da fiera. Nonostante il nostro giudizio negativo sulla musica del tedesco, vogliamo ribadire l’assoluta validità dell’iniziativa che ci vedrà attenti e vivaci spettatori.

7 – Ottobre ‘84

lunedì, 1 ottobre 1984

Uno dei mali del mondo sono le «signore» (a qualunque sesso appartengano): quelle che parlano con la boccuccia a cuoricino o con le labbra serrate ed amano tanto le cose fini. Il ristorante il Cardinale in via delle Carceri 6, all’angolo con via Giulia quasi, è un ristorante in cui l’etica e l’estetica delle «signore» trionfano. Ovviamente, dietro ci sta un enorme cattivo gusto unito ad un’avidità quasi rapace: i tavoli, le sedie, il vasellame sono banali e irritanti; tutt’intorno, in un’aria tranquilla, trabocchetti di ogni specie: le trappole delle «signore». Si incomincia con un gesto di rara volgarità: le cartelle del menù vengono offerte in due versioni, quelle per lui con i prezzi segnati e quelle per lei senza l’affronto della cifra accanto al suggerimento gastronomico; noi stavamo aspettando di veder entrare due lei: come avrebbero fatto? Ma due lei non sono entrate!
Su tutti i piatti era adagiato, non si sa il perché, almeno un fiore reciso, coloratissimo e un po’ ingombrante. Il cibo denunciava, evidenti fin da subito, due tratti fondamentali: prima di tutto la grande competenza di chi si occupa degli acquisti delle materie prime, tutte di ottima qualità e poi il trionfo dell’ideologia cara alle «signore», timorose dei sapori schietti, per cui ogni vivanda deve risultare di neutra e slavata uniformità.
Non sgradevole la mousse di burro e alici, offerta con un lezioso aperitivo detto vino di uva peschina, dall’eccessivo sapore di frutta poco propizio all’inizio di un pasto. Poi un timido e non sgradevole paté della casa; la zuppa di fagioli al farro sapeva essere scialba e diluita come un brodino.
Il baccalà alla pizzaiola (che il menù dichiarava essere «lento») era così lento che annegava in una pozza rosata di acqua e pomodoro; le animelle coi funghi formavano un’accoppiata perfetta di compatta e insapore plasticità. Il sorbetto alla macedonia in grossi grani ghiacciati non risvegliava particolari aggressività. Abbiamo detto prima che in questo locale sanno comperare: lo hanno rivelato, oltre alla già citata bontà degli ingredienti, due bottiglie di vino ottimo: un bianco dei Colli Lanuvini, della Selva 1983, piacevolmente fruttato e un Sassicaia di Bòlgheri del 1980 con stoffa e un ricordo di quel goudron che distingue i migliori vini francesi (la bontà del quale ci ha indotti al sacrilegio: dopo tanta insipienza il gusto schietto di questo vino ci ha fatto venir voglia a fine pasto di un po’ di prosciutto e formaggio che ci aiutassero in lietezza a finire la bottiglia. Fummo ricompensati perché gustammo la portata più saporita di tutta la cena). Il conto fu letteralmente esorbitante; ma si sa le «signore» si fanno pagare caro.

Lasciando i locali dell’Emingway di piazza delle Coppelle, un farfallone disse all’altro: «Il mio era cattivo, ma il tuo puzzava». Stavamo parlando dei coktail appena bevuti in quel grazioso bar, aperto fino alle ore piccole per una fauna variopinta e leggermente demodé, presumibilmente priva di quell’organo fondamentale che è il palato, che pullula a Roma e altrove. L’ambiente è decisamente gradevole: più stanze arredate con stile composito tra l’ottocento e l’arte déco in un insieme un po’ incoerente ma comodo e d’estate c’è posto anche all’aperto, sulla bella piazzetta. Il servizio è in mano ad attonite fanciulle che ritengono doveroso far mostra di percepire gli avventori solo dopo alcune ore, riservando loro pochi sprazzi di preziosissima attenzione diluiti nella lunghissima attesa, disturbata purtroppo da una musica incongrua e a volume un po’ troppo alto che impedisce di conversare con tranquillità. Soltanto cattivo era il Martini cocktail, gin di pessima qualità annacquato, ma il cocktail Mimosa era addirittura puzzolente per lo scadente spumantino e il vecchio succo d’arancia con cui era fatto; cattivi senza attenuanti anche il Manhattan troppo forte, il Sidecar: deprimente limonatina; e poi un succo di pomodoro ingiustamente spacciato per Bloody Mary. Per dovere siamo tornati da Hemingway più di una volta e abbiamo concluso che in noi il masochismo è ancora troppo accentuato.

Stessa gente, maggior follia nell’arredamento; ma una professionalità di tutto rispetto, in chi serve al banco, abbiamo trovato all’Aldebaran di via Galvani, da poco aperto. Sarebbe un peccato che il malvezzo di chi lo frequenta scoraggiasse la serietà di chi vi lavora.

7 – Ottobre ‘84

lunedì, 1 ottobre 1984

In Italia, fin dalle elementari, i ragazzini si sentono raccontare questa storiella: «In un mattino, non ben precisato, di alcuni secoli fa, Galileo Galilei, si recava a messa nel Battistero di Pisa. Devotamente inginocchiato, ad un certo punto, con slancio mistico, alzò gli occhi verso l’altare: un sacrestano aveva appena acceso, con uno di quei lunghi attizzatoi con in cima una fiammella, una lampada appesa a una lunga catena.
La lampada, urtata dal bastone, oscillava, oscillava… Il pio Galileo, insieme con i padrenostri, sentì un pensiero ronzargli nella testa: corse a casa, prese dei fogli, appese oggetti a dei fili, facendoli oscillare, tracciò linee; e alla fine scoprì che le piccole oscillazioni di un pendolo sono isocrone».

Noi farfalloni invece abbiamo scoperto, in un archivio che non possiamo rivelare, una lettera autografa di Galileo Galilei al sacrestano del Battistero di Pisa, nella quale il Grande Italiano si rivela perdutamente innamorato del giovane chierico: parole d’amore e anche qualche accenno alla sua bravura nell’accendere i lampadari.

Quindi i farfalloni hanno dedotto che: 1) Galileo Galilei andava a messa nel Battistero di Pisa non per devozione, ma per vedere il sacrestano; 2) quel giorno alzò gli occhi all’altare non trasportato da slancio mistico, ma per guardare il giovane; 3) e questa è la meravigliosa rivelazione dei farfalloni: quindi le piccole oscillazioni del pendolo non sono isocrone. Un tale, di questi tempi, ha fatto la stessa meravigliosa operazione culturale e scientifica: scartabellando negli archivi freudiani ha creduto di scoprire che Freud ha rinunciato alla sua prima teoria sull’etiologia delle nevrosi – per cui queste deriverebbero da una violenza sessuale realmente subita in età infantile – per timore dei ben pensanti e per paura di restare isolato nel mondo scientifico dell’epoca e per queste ragioni avrebbe preferito formulare in seguito la teoria, meno sconvolgente, in base alla quale il ricordo della seduzione che emerge durante l’analisi non sarebbe altro che un falso ricordo, frutto delle morbose fantasie sessuali del bambino, che vengono ricordate però come fatti realmente accaduti.
Secondo questo tale, scoperto questo tutta la teoria freudiana e le sue pretese terapeutiche crollerebbero come castelli di carte.

Per Jeffrey Masson, autore del pamphlet Assalto alla verità, (Mondadori, 1984, pagg. 301, Lit. 18.500), vale la teoria che le motivazioni che inducono uno scienziato a dire una cosa infirmano o convalidano assolutamente, per se stesse, la validità delle affermazioni medesime. Non hanno, per Masson, nessun valore la serietà e la profondità delle indagini e delle osservazioni, il riscontro quotidiano da un punto di vista esperienziale e clinico, nella cui critica neppure prova ad addentrarsi; tantomeno gli sembra rilevante il fatto che per decenni moltitudini di lettori delle opere di Freud in esse si sono ritrovati, o da queste hanno ricevuto spunti per capire di più se stessi e il mondo. Noi siamo i primi a sostenere che la scienza sorge sempre da un desiderio e mai soltanto da osservazioni obiettive, però diciamo anche che scopo della scienza è tendere alla verità e che questa verità deve essere riscontrabile dall’esperienza e nell’esperimento, cioè nella vita. Aver abbandonato la teoria meccanica e riduttiva di una seduzione reale, è stato estremamente utile per far sì che gli psicoanalisti abbandonassero l’atteggiamento poliziesco, tutto teso a scoprire il misfatto e i colpevoli.

I colpevoli certo ci sono: le violenze sui bambini si compiono. I bambini molto spesso sono vittime della brutalità degli adulti; ma i bambini sono anche seduttori reali, spesso sono loro che frugano con piacere e allegria sotto le gonne e tra i calzoni degli adulti.
Altre volte tutto questo è solo fantasticato: questa è la storia di ognuno e di tutti. Il frivolo libro di Masson può interessare soltanto qualche pederasta inconfessato che gode nell’immaginare stuoli di bambini violentati.

7 – Ottobre ‘84

lunedì, 1 ottobre 1984

II Teatro di Roma ha deciso quest’anno di far precedere l’apertura della stagione vera e propria da una rassegna sul teatro di ricerca italiano. «Attori, drammaturgia, tecnologia» si intitola la panoramica che ha visto per tutto settembre esibirsi a Roma, in quella che a molti è parsa un prolungamento di estate romana, le più e le meno note imprese di teatro sperimentale, o come ora si preferisce dire «di ricerca». I luoghi della manifestazione sono stati il teatro Argentina, il teatro Flaiano e la Galleria d’arte moderna (chissà perché inagibile per le sue funzioni specifiche e agibile per usi alternativi). Detto subito che il difetto di rassegne come questa sta soprattutto nel fatto che si tratta, per una moltitudine di ragioni complesse e non semplificabili qui, di teatro fatto o fruito soprattutto da chi già è interno al teatro e poco permettono ai non iniziati di fare le doverose nuove conoscenze, bisogna dire anche che il panorama offerto è stato ben esauriente di quella teatralità. Costretti dalla nostra sporadica presenza in città a vedere pochi degli spettacoli presentati, abbiamo scelto di parlare, a caso, ma veramente a caso, di uno solo.
Il Calapranzi di Harold Pinter è un Pinter già molto addomesticato: la struttura del dramma è esile, ma di una certa efficacia. Due killer di professione si trovano in una stanza misteriosa in attesa che dal padrone venga loro indicato l’ennesimo omicidio da compiere. In una situazione da Aspettando Godot cabarettistico, alla fine sarà uno dei due a dover uccidere l’altro. Il testo, già di per sé sufficientemente gratuito, è stato inscialbito da movimenti, dizione e variazioni da farsetta napoletana.

Gli attori Alfonso Santagata e Claudio Morganti, esilmente professionali nel loro umorismo televisivo, hanno fatto rimbalzare le battute un po’ monotonamente. La regia di Carlo Cecchi non ha avuto molto da fare in una scenografia essenziale, in cui compariva l’aggeggio che dà il titolo alla commedia e attraverso il quale vengono calati dall’alto i pranzi. Assolutamente pleonastica, dopo la rappresentazione, la voce di un altoparlante che emetteva in modo discontinuo e sgradevole le parole di uno scritto di Carlo Infante: una chiacchierata tronfietta e del tutto inutile sul teatro e sullo spettacolo; mentre lo stesso Infante, in un angolo, smarrito, si guardava intorno. Raccontato così sembra anche divertente, ma nella realtà fu una cosa squallida.

8 – Novembre & Dicembre ‘84

lunedì, 1 ottobre 1984

Giovan Battista Andreini è un buon autore di teatro del seicento veneziano, assai poco conosciuto. Il teatro barocco, in Italia e in Europa è sempre splendido, efficace, possente, in tutte le sue espressioni. Le due commedie in commedia è un’opera dai grossi pregi e con due difetti. I1 primo difetto è quello di essere irrimediabilmente troppo lunga: più di quattro ore di spettacolo sono faticose da sopportare e la noia, unita alla confusione mentale, non può non farsi sentire. Il secondo difetto è la assoluta inutilità di metà della commedia stessa. La trama, complicatissima per un verso, per un altro verso, è assai semplice: un tal Rovenio si è reso colpevole, in passato, di due brutte azioni; per una serie di complicati avvenimenti, coloro che hanno subito i torti si trovano in casa sua dove egli ha deciso di far rappresentare, per gli amici, due commedie, affidandole a due diverse compagnie. Durante la rappresentazione le vittime dei passati soprusi si inseriscono nello spettacolo e fanno sì che nelle commedie vengano riportati i misfatti del padrone di casa. Rovenio rimane così sconvolto, esterrefatto e beffato. Risultano quindi le due parti dello spettacolo assolutamente identiche e questa unica idea teatrale viene riproposta dopo mezz’ora di intervallo allo spettatore che non può non fare a meno di trovare la cosa noiosa; sebbene tutto il resto sia pieno di splendide trovate, giochi di parole, fantasie e graziosissime burlette e i personaggi siano tutti delineati con fine sapienza psicologica. La realizzazione allestita al teatro Argentina è stata ottima, a parte l’eccessiva macchinosità delle scenografie che, anziché sottolineare la bizzarria barocca, rendevano il tutto elefantiaco. Luca Ronconi ha preso in mano l’immenso materiale e ha saputo manipolarlo con astuzia: una grande quantità di idee registiche gli permettono di porgere scene e battute con gradevole scansione ritmica. Soltanto, qua e là, improvvisi rallentamenti, come se di colpo il regista si trovasse senza idee, sopraffatto dal testo; in tali momenti sberleffi e sgambettii reiterati danno al tutto un’impressione di non senso, che subito viene cancellata, quando lo spettacolo riprende le sue cadenze scorrevoli e fantasiose. Assolutamente ben calato nel personaggio di Rovenio è Pino Micol: la sua voce chioccia, le membra disarticolate, l’espressione stupefatta e volpina rendono bene un personaggio che, volutamente, non può avere molte sfumature psicologiche. Molto brava Valeria Moriconi, che speriamo abbia definitivamente smesso di voler fare la Mirandolina e abbia invece accettato la sua possibilità recitativa migliore, che è quella di presentare personaggi tesi e aggressivi e, come in questo caso, con un fondo di stralunata bizzarria, sempre molto innaturale, come un pupazzo meccanico che mostra gli ingranaggi. Bravissimi tutti gli altri, nessuno escluso. Le musiche, a cura di Paolo Terni, consistevano nei risultati di una ricerca su brani strumentali d’epoca, ed erano poche ed esili cose nel tessuto dello spettacolo, benché la «minima pregnanza spettacolare» fosse nei progetti. Nonostante la fatica, uno spettacolo che rimanda a casa soddisfatti.

Beckett dirige Beckett al teatro Ghione. Aspettando Godot è un testo meraviglioso, di intensa efficacia teatrale, dove la trama-non-trama costruisce una continua tensione: l’attesa e poi ancora l’attesa. È troppo facile dire che questa è la condizione umana: Godot non arriverà mai, tutti gli uomini lo sanno, lo sanno anche gli alberi che perdono e ritrovano le foglie e la luna che sorgerà infinite volte; ma Godot non arriverà mai. Lo sanno Vladimiro ed Estragone nei loro lunghi dialoghi densi di poesia, e il signor Pozzo ed il suo servo Lucky che si torturano a vicenda per far passare il tempo; lo sa il messo forse inviato da Godot, che, in due riprese, ripeterà ossessivamente i suoi «sì signore, no signore, non so signore». Beckett ha fatto del suo testo una versione in inglese e ha curato personalmente la regia di questo stupefacente spettacolo. Si rimane col fiato sospeso per tutta la durata della rappresentazione. L’idea – crediamo consapevole – ma non è così importante che lo sia – è quella di aver presentato Aspettando Godot come se fosse un’opera musicale: gli attori cantano e danzano sempre; ma, come nella tragedia greca, la musica non sopraffà mai le parole. Le battute, ritmate, diventano musica; talvolta è possibile perfino percepire i toni musicali: do maggiore, sol minore, etc. e poi le sillabe scivolano in una melodia vera e propria – il Big Ben, Lehar – mai però viene esplicitato un: adesso cantiamo. Dopo le melodie, riconoscibili ed appena accennate, le parole riaffondano ancora in una musicalità più indistinta. Anche i gesti, precisi, si contrappuntano alle battute con fluida precisione. Era piacevolissimo ascoltare il rumore dei passi sull’impiantito della scena: ritmicamente scanditi, con studiatissimi accelerando e rallentando.
Per realizzare tutto questo ci vogliono ottimi interpreti: Beckett li ha trovati in Lawrence Held, Bud Thorpe, J. Pat Miller, Rick Cluchey, che, in un inglese pronunciato con chiarezza, hanno reso comprensibile senza sforzo un testo che, comunque, è sempre facile e difficile allo stesso tempo.

07 – Ottobre ‘84

lunedì, 1 ottobre 1984

L’estate della ragione

Ancora una volta il rituale dell’estate si è ripetuto, e si è ripetuta la funzione rassicurante di una letteratura d’evasione, che pretendendo di analizzare i tratti del costume, ha cercato di fissare un’immagine di società assestata nel godimento di quel poco o tanto benessere concesso e, talora, conquistato.
Dell’estate ha anche approfittato l’ideologia della riconciliazione. L’emergenza pare essere rimasta relegata al ruolo di uno strumento del potere, che di questo concetto si avvale a perpetuare un’oppressione che non avrebbe altra giustificazione per continuare ad esistere.
Al contrario, oggi, come mai forse prima d’ora, viviamo una situazione di grave emergenza. Emergenza economica, senz’altro, perché l’incoraggiamento al consumismo non basta certo a coprire la sostanziale mancanza di risorse sociali e le politiche dell’effimero estivo sottolineano soltanto l’inesistenza di durevoli strutture. Emergenza spirituale, perché premi, feste e festival fanno del dibattito e dello scandalo la loro ragion d’essere. Così che ci si trova frastornati dal bombardamento di informazioni e di rivelazioni intorno a cose di cui si ignora addirittura l’essenza.
Chi sapeva di Modigliani scultore e si poneva i problemi sulla legittimità di alcuni modi di fare la critica dell’arte, prima che uscissero dal fango di Livorno? Chi fa ancora ore di attesa per vedere i bronzi di Riace? Evtuscenko e Grass sono forse nati sotto un cavolo al Lido di Venezia? Montecaprino è un lager per omosessuali? I bambini muoiono solo per overdose e sono sfruttati soltanto dai racket della prostituzione? La piovra è un mostro marino relegato tra Scilla e Cariddi? La signora Buonoconto è una supporter di Giuliano Naria? Il pangermanesimo significa altro che una gaffe del ministro degli esteri?
Anno dopo anno si vedono immagini, schemi, frasi fatte, sintetizzare e vanificare il significato di intere generazioni di lavoro e di lotte. La corporazione degli “Informatori totali” annulla le prospettive: si porta tutto a conoscenza di tutti, purché nessuno si domandi più nulla. Le risposte precedono ogni possibilità di interrogare e di interrogarsi.
Restano pochi mesi di tempo, ogni anno, per combattere contro il tentativo di ridurre la realtà alla notizia, la cultura al voyeurismo, la lotta al dibattito. Perché dietro l’angolo è in agguato l’estate della ragione.

7 – Ottobre ‘84

lunedì, 1 ottobre 1984

Villa Medici ha aperto la stagione delle mostre con una personale di Veronique Robin, trentunenne pittrice francese, pensonnaire dell’Accademia di Francia a Roma, dopo aver vissuto in Africa e a Nizza ed essersi formata artisticamente alle Belle Arti di Parigi.

La mostra comprende cinquanta opere, tutte del 1984.
I farfalloni sono persone che hanno ancora voglia di stupirsi e anche di indignarsi. L’altra mattina, soli nelle belle sale di Annibale Lippi, erano sinceramente stupefatti che qualcuno avesse avuto la tracotanza di allestirvi una mostra del genere, e indignati che lo si facesse sotto gli auspici dell’Accademia di Francia. Attorno a noi una cinquantina di lenzuola, tovaglioli, tovaglie e asciugamani appesi alle pareti come in un’esposizione di biancheria decorata secondo i più vieti stilemi di un cardinismo o di un kenscottismo anni sessanta. I colori usati erano proprio quelli per tessuti – e fin qui niente di male – solo che questi colori si spandevano con sciocca banalità su quadrati e rettangoli di stoffa appesi, in una ripetuta assenza di temi e di proposte. Schizzi, macchie sprezzanti della forma, alludenti qua e là a floreali arborescenze, ora ridicolmente sparsi in grazioso disordine, ora in sudate simmetrie, davano solo il senso di una mancanza di pensiero, un’avarizia psichica e una desolante incapacità tecnica. Eravamo soli, e sconsolati cercavamo nella presentazione di Cesare Nissirio qualche giustificazione estetica o poetica a tanta sciocchezza; ma vi abbiamo trovato solo frasi come: «… l’impatto dell’artista con una realtà quotidiana filtrata in atti inconsci…» oppure «… negandosi come puro oggetto, la tela diviene spazio vitale in cui si intrecciano i tragitti della psiche…» o anche riferimenti a quei valori del sogno che i critici non mancano di esaltare, quando l’aggettivo onirico pare sufficiente a giustificare la mancanza di connessioni e di buon gusto di chi si vuole, ad ogni costo, artista.