8 – Novembre & Dicembre ‘84

ottobre , 1984

Giovan Battista Andreini è un buon autore di teatro del seicento veneziano, assai poco conosciuto. Il teatro barocco, in Italia e in Europa è sempre splendido, efficace, possente, in tutte le sue espressioni. Le due commedie in commedia è un’opera dai grossi pregi e con due difetti. I1 primo difetto è quello di essere irrimediabilmente troppo lunga: più di quattro ore di spettacolo sono faticose da sopportare e la noia, unita alla confusione mentale, non può non farsi sentire. Il secondo difetto è la assoluta inutilità di metà della commedia stessa. La trama, complicatissima per un verso, per un altro verso, è assai semplice: un tal Rovenio si è reso colpevole, in passato, di due brutte azioni; per una serie di complicati avvenimenti, coloro che hanno subito i torti si trovano in casa sua dove egli ha deciso di far rappresentare, per gli amici, due commedie, affidandole a due diverse compagnie. Durante la rappresentazione le vittime dei passati soprusi si inseriscono nello spettacolo e fanno sì che nelle commedie vengano riportati i misfatti del padrone di casa. Rovenio rimane così sconvolto, esterrefatto e beffato. Risultano quindi le due parti dello spettacolo assolutamente identiche e questa unica idea teatrale viene riproposta dopo mezz’ora di intervallo allo spettatore che non può non fare a meno di trovare la cosa noiosa; sebbene tutto il resto sia pieno di splendide trovate, giochi di parole, fantasie e graziosissime burlette e i personaggi siano tutti delineati con fine sapienza psicologica. La realizzazione allestita al teatro Argentina è stata ottima, a parte l’eccessiva macchinosità delle scenografie che, anziché sottolineare la bizzarria barocca, rendevano il tutto elefantiaco. Luca Ronconi ha preso in mano l’immenso materiale e ha saputo manipolarlo con astuzia: una grande quantità di idee registiche gli permettono di porgere scene e battute con gradevole scansione ritmica. Soltanto, qua e là, improvvisi rallentamenti, come se di colpo il regista si trovasse senza idee, sopraffatto dal testo; in tali momenti sberleffi e sgambettii reiterati danno al tutto un’impressione di non senso, che subito viene cancellata, quando lo spettacolo riprende le sue cadenze scorrevoli e fantasiose. Assolutamente ben calato nel personaggio di Rovenio è Pino Micol: la sua voce chioccia, le membra disarticolate, l’espressione stupefatta e volpina rendono bene un personaggio che, volutamente, non può avere molte sfumature psicologiche. Molto brava Valeria Moriconi, che speriamo abbia definitivamente smesso di voler fare la Mirandolina e abbia invece accettato la sua possibilità recitativa migliore, che è quella di presentare personaggi tesi e aggressivi e, come in questo caso, con un fondo di stralunata bizzarria, sempre molto innaturale, come un pupazzo meccanico che mostra gli ingranaggi. Bravissimi tutti gli altri, nessuno escluso. Le musiche, a cura di Paolo Terni, consistevano nei risultati di una ricerca su brani strumentali d’epoca, ed erano poche ed esili cose nel tessuto dello spettacolo, benché la «minima pregnanza spettacolare» fosse nei progetti. Nonostante la fatica, uno spettacolo che rimanda a casa soddisfatti.

Beckett dirige Beckett al teatro Ghione. Aspettando Godot è un testo meraviglioso, di intensa efficacia teatrale, dove la trama-non-trama costruisce una continua tensione: l’attesa e poi ancora l’attesa. È troppo facile dire che questa è la condizione umana: Godot non arriverà mai, tutti gli uomini lo sanno, lo sanno anche gli alberi che perdono e ritrovano le foglie e la luna che sorgerà infinite volte; ma Godot non arriverà mai. Lo sanno Vladimiro ed Estragone nei loro lunghi dialoghi densi di poesia, e il signor Pozzo ed il suo servo Lucky che si torturano a vicenda per far passare il tempo; lo sa il messo forse inviato da Godot, che, in due riprese, ripeterà ossessivamente i suoi «sì signore, no signore, non so signore». Beckett ha fatto del suo testo una versione in inglese e ha curato personalmente la regia di questo stupefacente spettacolo. Si rimane col fiato sospeso per tutta la durata della rappresentazione. L’idea – crediamo consapevole – ma non è così importante che lo sia – è quella di aver presentato Aspettando Godot come se fosse un’opera musicale: gli attori cantano e danzano sempre; ma, come nella tragedia greca, la musica non sopraffà mai le parole. Le battute, ritmate, diventano musica; talvolta è possibile perfino percepire i toni musicali: do maggiore, sol minore, etc. e poi le sillabe scivolano in una melodia vera e propria – il Big Ben, Lehar – mai però viene esplicitato un: adesso cantiamo. Dopo le melodie, riconoscibili ed appena accennate, le parole riaffondano ancora in una musicalità più indistinta. Anche i gesti, precisi, si contrappuntano alle battute con fluida precisione. Era piacevolissimo ascoltare il rumore dei passi sull’impiantito della scena: ritmicamente scanditi, con studiatissimi accelerando e rallentando.
Per realizzare tutto questo ci vogliono ottimi interpreti: Beckett li ha trovati in Lawrence Held, Bud Thorpe, J. Pat Miller, Rick Cluchey, che, in un inglese pronunciato con chiarezza, hanno reso comprensibile senza sforzo un testo che, comunque, è sempre facile e difficile allo stesso tempo.