7 – Ottobre ‘84

ottobre , 1984

Uno dei mali del mondo sono le «signore» (a qualunque sesso appartengano): quelle che parlano con la boccuccia a cuoricino o con le labbra serrate ed amano tanto le cose fini. Il ristorante il Cardinale in via delle Carceri 6, all’angolo con via Giulia quasi, è un ristorante in cui l’etica e l’estetica delle «signore» trionfano. Ovviamente, dietro ci sta un enorme cattivo gusto unito ad un’avidità quasi rapace: i tavoli, le sedie, il vasellame sono banali e irritanti; tutt’intorno, in un’aria tranquilla, trabocchetti di ogni specie: le trappole delle «signore». Si incomincia con un gesto di rara volgarità: le cartelle del menù vengono offerte in due versioni, quelle per lui con i prezzi segnati e quelle per lei senza l’affronto della cifra accanto al suggerimento gastronomico; noi stavamo aspettando di veder entrare due lei: come avrebbero fatto? Ma due lei non sono entrate!
Su tutti i piatti era adagiato, non si sa il perché, almeno un fiore reciso, coloratissimo e un po’ ingombrante. Il cibo denunciava, evidenti fin da subito, due tratti fondamentali: prima di tutto la grande competenza di chi si occupa degli acquisti delle materie prime, tutte di ottima qualità e poi il trionfo dell’ideologia cara alle «signore», timorose dei sapori schietti, per cui ogni vivanda deve risultare di neutra e slavata uniformità.
Non sgradevole la mousse di burro e alici, offerta con un lezioso aperitivo detto vino di uva peschina, dall’eccessivo sapore di frutta poco propizio all’inizio di un pasto. Poi un timido e non sgradevole paté della casa; la zuppa di fagioli al farro sapeva essere scialba e diluita come un brodino.
Il baccalà alla pizzaiola (che il menù dichiarava essere «lento») era così lento che annegava in una pozza rosata di acqua e pomodoro; le animelle coi funghi formavano un’accoppiata perfetta di compatta e insapore plasticità. Il sorbetto alla macedonia in grossi grani ghiacciati non risvegliava particolari aggressività. Abbiamo detto prima che in questo locale sanno comperare: lo hanno rivelato, oltre alla già citata bontà degli ingredienti, due bottiglie di vino ottimo: un bianco dei Colli Lanuvini, della Selva 1983, piacevolmente fruttato e un Sassicaia di Bòlgheri del 1980 con stoffa e un ricordo di quel goudron che distingue i migliori vini francesi (la bontà del quale ci ha indotti al sacrilegio: dopo tanta insipienza il gusto schietto di questo vino ci ha fatto venir voglia a fine pasto di un po’ di prosciutto e formaggio che ci aiutassero in lietezza a finire la bottiglia. Fummo ricompensati perché gustammo la portata più saporita di tutta la cena). Il conto fu letteralmente esorbitante; ma si sa le «signore» si fanno pagare caro.

Lasciando i locali dell’Emingway di piazza delle Coppelle, un farfallone disse all’altro: «Il mio era cattivo, ma il tuo puzzava». Stavamo parlando dei coktail appena bevuti in quel grazioso bar, aperto fino alle ore piccole per una fauna variopinta e leggermente demodé, presumibilmente priva di quell’organo fondamentale che è il palato, che pullula a Roma e altrove. L’ambiente è decisamente gradevole: più stanze arredate con stile composito tra l’ottocento e l’arte déco in un insieme un po’ incoerente ma comodo e d’estate c’è posto anche all’aperto, sulla bella piazzetta. Il servizio è in mano ad attonite fanciulle che ritengono doveroso far mostra di percepire gli avventori solo dopo alcune ore, riservando loro pochi sprazzi di preziosissima attenzione diluiti nella lunghissima attesa, disturbata purtroppo da una musica incongrua e a volume un po’ troppo alto che impedisce di conversare con tranquillità. Soltanto cattivo era il Martini cocktail, gin di pessima qualità annacquato, ma il cocktail Mimosa era addirittura puzzolente per lo scadente spumantino e il vecchio succo d’arancia con cui era fatto; cattivi senza attenuanti anche il Manhattan troppo forte, il Sidecar: deprimente limonatina; e poi un succo di pomodoro ingiustamente spacciato per Bloody Mary. Per dovere siamo tornati da Hemingway più di una volta e abbiamo concluso che in noi il masochismo è ancora troppo accentuato.

Stessa gente, maggior follia nell’arredamento; ma una professionalità di tutto rispetto, in chi serve al banco, abbiamo trovato all’Aldebaran di via Galvani, da poco aperto. Sarebbe un peccato che il malvezzo di chi lo frequenta scoraggiasse la serietà di chi vi lavora.