7 – Ottobre ‘84

ottobre , 1984

Abbiamo ascoltato il 14 settembre, nella chiesa di S. Maria in Montesanto, a piazza del Popolo il gruppo vocale-strumentule Kaproen in un programma di musiche del quattrocento, con cui si è inaugurato il XVII festival internazionale dell’organo, organizzato dall’Associazione Musicale Romana alla cui guida artistica sono Annamaria Romagnoli e Miles Morgan.

Il programma parlava di musiche del quattrocento, ma la serata comprendeva anche autori come G. de Machault, vissuti e operanti interamente nel trecento e altri decisamente del sedicesimo secolo. Purtroppo nella musica del tardo medioevo e rinascimento si fa di ogni erba un fascio, soprattutto dal punto di vista stilistico e interpretativo: si legge il trecento come il quattrocento e quest’ultimo come il cinquecento. La cosa è assurda, ci sono differenze sostanziali nei tre secoli in musica come nell’arte figurativa o letteraria: pensiamo che nessuno applicherebbe gli stessi moduli interpretativi a Botticelli e a Simone Martini. Invece, proprio perché la musica, morta sulla pagina, è difficile da far rinascere quale realmente era, è importante che si denunci l’abitudine di interpretarla ed eseguirla come se i tre secoli non rappresentassero particolarità e differenze, sempre in un solo modo. Qual è questo modo? La rigidità e la paura del sentimento. Purtroppo questo capita persino con la musica barocca. Gli interpreti, spesso, credono che aver sentimento voglia dire: tempi rubati, fortissimi e pianissimi improvvisi, o cantabilità esasperate. Noi pensiamo invece che una profonda analisi filologica della struttura (somatica) degli strumenti dell’epoca e delle espressioni artistiche e culturali parallele servirebbe, una volta per tutte, a sciogliere un po’ la sclérosi degli strumentisti esecutori della musica così detta antica. Non è il caso di temere che la bellezza e il calore di Guillaume di Machault non si possano esprimere che attraverso modi romantici alla Robert Schumann. Il concerto del gruppo Kaproen è stato splendido e lo diciamo subito; ma, anche subito, vogliamo dire che gli accompagnamenti strumentali di Leo Meilink, Marion Verbruggen, Anneke Pols, Titia de Zwart e Jacques Boogaart erano un po’ rigidi nell’interpretazione di brani di diversi secoli di cui non facevano intendere nessun tipo di evoluzione. Encomiabile lo sforzo del tenore Harry Geraerts che, pur nella leggera uniformità filologica, è riuscito ad essere appassionato, caldo e sensuale senza, secondo noi, commettere errori di interpretazione storica.
Simpatica la voce del mezzo-soprano Rita Daws, che sostituiva Lucia Meeuwsen, anche se meno precisa e sembrava essere in lite con gli strumentisti. Assolutamente perfetto Aurelio Jacolenna, all’organo: brillante, preciso, intenso e corretto sotto tutti i punti di vista.
Tra i brani eseguiti, tutti belli, vogliamo segnalare un gioiello: la messa del manoscritto di Cipro, di una sensualità sottile e penetrante, che la struttura modale, anziché allontanare, avvicinava alla sensibilità odierna.

Mercoledì 26 settembre è inizia la V rassegna di musica contemporanea con un concerto spettacolo di Karl Heinz Stockhausen, con l’intervento dell’autore.
E’ ormai un secolo che tutti dicono che la musica occidentale è alla ricerca di un nuovo linguaggio. Se non lo ha ancora trovato, vuol dire che i compositori occidentali sono tutti stupidi. L’arte cerca continuamente nuovi linguaggi che si evolvono, sono autocentrici ed eccentrici. Quale sia il linguaggio del nostro secolo non sono in grado di dirlo né i compositori né i critici.
Purtroppo l’altra sera al Ghione, c’è stata la dimostrazione dell’assoluta impreparazione musicale del pubblico (almeno di quello italiano).
Di fronte ad un’operina banale, vuota, frivola e mortalmente noiosa, gli spettatori che durante l’esecuzione hanno dimostrato un passivo disinteresse hanno, alla fine, applaudito, senza entusiasmo, ma compunti e corretti.
Non una discussione si è accesa dopo, la maggior parte dei presenti temeva di sentirsi «out» dicendo qualunque cosa. Al concerto si vede quanto il compositore di oggi sia solo, non voglia farsi capire: perché non ha niente da dire. Gli altri lo subiscono, riservando però il loro entusiasmo soltanto per Haydn e Beethoven. Perché tutto questo?

Assolutamente meritoria è l’operazione dell’Accademia Italiana di Musica Contemporanea; la musica di oggi deve essere divulgata, gli ascoltatori debbono sentirla vicina, e non rimanere così attoniti ed intimiditi.
Bisognerebbe avere il coraggio di fischiare, discutere, di entusiasmarsi o scandalizzarsi. Questo può accadere soltanto se i compositori e la gente si ascoltano a vicenda.

Ci siamo accorti che non abbiamo voglia di parlare di quella «cosa» che abbiamo sentito mercoledì. Diciamo subito che noi detestiamo Stockhausen.
La sua musica, per noi, è ridicola e dilettantesca, priva di seri fondamenti culturali, frutto di un narcisistico pressapochismo. Lo spettacolino si componeva di tre quadri: Mondeva, Examen e Vision. In una scena banale gli intepreti Frieder Lang, tenore, Markus Stockhausen, tromba, Majella Stockhausen, pianoforte, Michèle Noiret, danzatrice, Suzanne Setphens, corno di bassetto e organo elettrico, si muovevano (cantavano, danzavano e suonavano) raccontando storie piene di ridicoli simbolismi. La musica era molto facile all’esecuzione. Nelle prime due scene (Mondeva e Examen) trovatine banali, brandelli di melodiuzze, scalette e accordacci al pianoforte (usato anche come arpa) strombazzamenti d’effetto, ma tecnicamente facili della tromba, all’inizio divertivano un po’, ma poi, troppo ripetuti, diventavano stucchevoli. L’ultima scena (Vision) era la peggiore. Su di un pedale, o meglio: una sirena di pompieri, una musica dapprima abbondante di giochi imitativi, sfociava poi in immobili accordi vuoti di trombette da fiera. Nonostante il nostro giudizio negativo sulla musica del tedesco, vogliamo ribadire l’assoluta validità dell’iniziativa che ci vedrà attenti e vivaci spettatori.