7 – Ottobre ‘84

ottobre , 1984

II Teatro di Roma ha deciso quest’anno di far precedere l’apertura della stagione vera e propria da una rassegna sul teatro di ricerca italiano. «Attori, drammaturgia, tecnologia» si intitola la panoramica che ha visto per tutto settembre esibirsi a Roma, in quella che a molti è parsa un prolungamento di estate romana, le più e le meno note imprese di teatro sperimentale, o come ora si preferisce dire «di ricerca». I luoghi della manifestazione sono stati il teatro Argentina, il teatro Flaiano e la Galleria d’arte moderna (chissà perché inagibile per le sue funzioni specifiche e agibile per usi alternativi). Detto subito che il difetto di rassegne come questa sta soprattutto nel fatto che si tratta, per una moltitudine di ragioni complesse e non semplificabili qui, di teatro fatto o fruito soprattutto da chi già è interno al teatro e poco permettono ai non iniziati di fare le doverose nuove conoscenze, bisogna dire anche che il panorama offerto è stato ben esauriente di quella teatralità. Costretti dalla nostra sporadica presenza in città a vedere pochi degli spettacoli presentati, abbiamo scelto di parlare, a caso, ma veramente a caso, di uno solo.
Il Calapranzi di Harold Pinter è un Pinter già molto addomesticato: la struttura del dramma è esile, ma di una certa efficacia. Due killer di professione si trovano in una stanza misteriosa in attesa che dal padrone venga loro indicato l’ennesimo omicidio da compiere. In una situazione da Aspettando Godot cabarettistico, alla fine sarà uno dei due a dover uccidere l’altro. Il testo, già di per sé sufficientemente gratuito, è stato inscialbito da movimenti, dizione e variazioni da farsetta napoletana.

Gli attori Alfonso Santagata e Claudio Morganti, esilmente professionali nel loro umorismo televisivo, hanno fatto rimbalzare le battute un po’ monotonamente. La regia di Carlo Cecchi non ha avuto molto da fare in una scenografia essenziale, in cui compariva l’aggeggio che dà il titolo alla commedia e attraverso il quale vengono calati dall’alto i pranzi. Assolutamente pleonastica, dopo la rappresentazione, la voce di un altoparlante che emetteva in modo discontinuo e sgradevole le parole di uno scritto di Carlo Infante: una chiacchierata tronfietta e del tutto inutile sul teatro e sullo spettacolo; mentre lo stesso Infante, in un angolo, smarrito, si guardava intorno. Raccontato così sembra anche divertente, ma nella realtà fu una cosa squallida.