Archivio di luglio 1984

5 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Una sezione del Festival è dedicata al cinema col titolo di SPOLETOCINEMA ‘84, suddivisa in due cicli: uno intitolato: John Ford: Tamburi di guerra e l’altro dedicato ai rapporti tra musica e cinema, dal titolo: Musica, Maestro! I film sono proiettati nella sala del cinema Corso e l’ingresso è libero.

Fulvio Toffoli e Fabrizio Natale hanno curato tutta la programmazione con l’appoggio di Tullio Kezich, per i film di Ford e Guglielmo Biraghi per la musica nel cinema. Gli amanti di questa forma di spettacolo potranno trovare vere rarità da cineteca che è un’occasione preziosa poter rivedere. Noi qui vorremmo dedicare la nostra attenzione a Musica, Maestro!, che si riferisce a film la cui colonna sonora è stata composta da grandi musicisti del nostro secolo. Fin dai suoi esordi il cinema ha affascinato i musicisti, e molti di coloro che hanno fatto la storia della musica del Novecento si sono cimentati con lo schermo. Purtroppo, la musica al cinema non viene sufficientemente ascoltata ed è una grave colpa dei critici cinematografici di dare sulla colonna sonora informazioni, per lo più, del tutto ridicole e spesso da perfetti incompetenti: un critico cinematografico che non sia anche un buon conoscitore di musica non è un critico professionalmente abbastanza preparato. Il grosso pubblico ricorda in genere, dei film soltanto qualche squallida e melensa musichetta che diviene così un best-seller. Ma, ripetiamo, la musica è un elemento costitutivo della sostanza dell’evento cinematografico, insieme con l’immagine.

Vogliamo, per tutti accennare a un film musicato da Gian Francesco Malipiero, un grandissimo compositore italiano: Acciaio, del 1933, con la regia di Walther Ruttmann, con Isa Pola, Pietro Pastore e Vittorio Bellaccini, tratto da un soggetto di Luigi Pirandello, sceneggiato da E. Cecchi e M. Soldati. Non stiamo a ricordare la trama: amicizia, amore, tradimento e morte, sullo sfondo di un paese e di una acciaieria. Il film apre con una vera e propria ouverture, strutturata con grande sapienza compositiva. L’idea geniale del film sta nella quasi totale assenza di parlato e i rumori quotidiani della vita si insinuano nel tessuto orchestrale. Un piccolo esempio: i rumori ritmici dell’acciaieria che si fondono con ampi accordi orchestrali di sapore stravinskiano e proseguono il discorso costruendo una splendida pagina di musica. Analisi di questo tipo sarebbero doverose per tutti i film, anche se non musicati da Malipiero.

6 – Luglio & Agosto ‘84

domenica, 1 luglio 1984

John Ford
Tra i tanti film della serie «John Ford tamburi di guerra», abbiamo scelto di parlare di When Willie comes marchin home (Bill sei grande!), con Dan Daile e Corinne Calvet, un film del 1950 con musiche di Alfred Newman. Gradevolmente fluido, una farsa pungente e anche spiritosa. Si apre con una ouverture orchestrale in cui gli archi, prima da soli, poi impastati con i fiati (che diverranno sempre più importanti) accennano a variar il tema di una canzonetta popolare dell’epopea americana, la quale esplode poi in una marcia, un po’ pachidermica, militarmente ironizzata. Poi, direttamente in scena sono a confronto due complessi: il primo a fiati, la banda del paese; il secondo, un complessino jazz, correato di batteria, pianoforte e contrabbasso. Che suonano un po’ troppo bene per essere credibili.
Bill Kluggs è l’animatore dell’orchestrina e l’eroe della vicenda. Arruolatosi per primo alla chiamata dello zio Sam, allo scoppio americano della seconda guerra mondiale, non riesce mai a partire per la zona di guerra, nonostante lo desideri. Tanto ha da aspettare che il paese lo tratta ormai da imboscato. Un giorno la sperata chiamata al fronte arriva; ma in circostanze così particolari (che lo portano in tre giorni dall’America alla Francia e in Inghilterra e poi di nuovo in America) per una missione così segreta (si tratta dei missili tedeschi V2) che nessuno gli potrà credere. Fortunatamente gli alti comandi gli renderanno giustizia e a guerra vinta sarà decorato direttamente dal Presidente, in uno splendore di militaresca gloria, tra lo squillare della banda che si confonde con il «tutti» dell’orchestra, che riprende la melodia popolare dell’epopea.

John Ford dall’inizio alla fine del film ha usato tutta l’ironia delle immagini, per narrare una storia ironica e più dolce che dolce-amara, sull’eterno ragazzone americano simbolo dell’anti-eroe. Immagini che sono scopertamente beffarde quando descrivono lo svolgersi dell’avventura tra i partigiani francesi, in una Normandia spietatamente da vignetta umoristica, condita dal ritornante canone del Frère Jacques; immagini invece dolcemente umoristiche e quasi commosse nei particolari d’ambiente di lindi soggiorni e scintillanti cucine sempre adorni di fiori e tendine.

6 – Luglio & Agosto ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Maratona di Danza
A noi non piace quando la danza umilia la musica. Al Teatro Romano, ogni qual volta noi siamo entrati per un po’ a dare un’occhiata alla Maratona di Danza, che dura tre sere consecutive, abbiamo sempre visto ripetersi questo fatto sgradevole. Una musica registrata, troppo forte e troppo gracchiante, suonava senza interessare nessuno, neanche i danzatori, i quali piroettavano, con varia bravura e con fare assolutamente autistico. Ma non può essere diversamente: questi brani, avulsi da un con testo teatrale e da ogni discorso organico, risultano insipidi perché fini a se stessi. La danza, per fortuna, non è quello.

Così ancora una volta una buona intenzione come quella di portare al grande pubblico la danza si svuota e il pubblico reagisce comportandosi con lo stile di quello degli stadi calcistici. Più adeguata, quindi, alla platea l’esibizione di break and boogie, anche perché la musicalità evidente e la comunicativa di quei ragazzini era senza boria e la loro bravura era grande. Bella, come scena di genere, la vista delle stelle, che allo scoperto, in finta umiltà, si preparano ad entrare in scena con grandi riscaldamenti di muscoli, in composite toelette dove gli accappatoi e le coroncine di strass si mescolano ai tutù di tulle e alla lana grezza dei calzettoni scaldamuscoli.

5 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Eugenio Onieghin
La danza è un’espressione antica quanto l’uomo. Nel ventre materno, il bambino percepisce il pulsare del corpo della madre e l’ondeggiare dei suoi passi dei suoi movimenti. Questo è danza. Danzanti sono i gesti che i corpi compiono intrecciandosi nel rapporto sessuale: la danza ha bisogno di un corpo e di un ritmo, cioè dell’alternarsi periodico di suoni e silenzi che si confondono in un’unica realtà espressiva; ogni gesto umano tende a raccontare qualcosa, quindi anche il gesto del la danza.

La religione ha da sempre espresso i suo riti attraverso la danza, sia la religione pagana sia quella cristiana; poi la danza si è spostata sulle scene; ma è rimasta espressione di gesti significanti, una forma di espressione immediata e diretta, di tutti in tante occasioni.

Nella danza, dalla notte dei tempi, avviene che il corpo fonda il suo ritmo cor quello di un linguaggio musicale. Oggi diventato essenziale, sebbene in passato non fosse necessariamente così, perché la danza sia considerata tale, che sia assente l’abbinamento con la parola: per il bisogno di concentrare tutta l’attenzione su gesti e suoni che la civiltà della parola ha sempre un po’ negletto. In questo senso la danza è la migliore confutazione delle teorie di Jacques Lacan: il gesto del linguaggio parlato non è né più antico né più profondo di altri tipi di linguaggio. Non ci interessa qui disquisire su quale sia la migliore espressione danzante, se quella degli antichi, quella neoclassica di Isadora Duncan, o quella piroettante del corpo irrigidito nella contrazione del polpaccio e della caviglia, fondamentale resta l’assenza della parola. Questa castrazione, una volta tanto, é, per gli uomini di oggi, terapeutica! II corpo umano comunica unito al ritmico pulsare del linguaggio musicale; ciò che non deve mai accadere è che il corpo si muova e la musica lo accompagni: il gesto deve essere unitario, in una fusione di elementi che coinvolgano anche lo spettatore. Questa unione si è realizzata nell’Onieghin, messo in scena al Teatro Nuovo dallo Stuttgarter Ballet, balletto in tre atti e sei quadri di John Cranko, tratto da Aleksandr Puskin, e dalle musiche dell’omonima opera di Piotr Il’ic Ciaikovski arrangiate da Kurt Hein; Stolze.

Cranko, danzatore e coreografo di origine sudafricana, morto nel 1973, lavorò prima a Città del Capo e poi in America e in Europa, soprattutto a Stoccarda, dove ebbe, nel 1965 l’idea di questo balletto. Estrapolare semplicemente le musiche dell’opera di Ciaikovski non sembrò sufficientemente agevole, furono quindi rielaborati ed orchestrati in funzione del balletto anche altri brani dello stesso compositore; questo lavoro di ricucitura e di collage fu affidato a Stolze che riuscì ad amalgamare il tutto con estrema sapienza: l’orchestrazione è accurata, gli strumenti spesso sono usati solisticamente e le piacevoli melodie di Ciaikovski risaltano magistralmente, quasi ipnotizzando con la loro semplice e sensuale bellezza. La storia di Eugenio Onieghin, che Puskin scrisse in un romanzo in versi del 1833 racconta le vicende di un arido giovane russo aristocratico incapace di apprezzare i valori dell’amicizia e di un amore semplice, il quale giunge per leggerezza a uccidere il suo migliore amico, dopo averne provocato la gelosia e a perdere l’amore tardivamente apprezzato. In una scenografia che, col variare dei quadri manteneva una semplice chiarezza naturalistica, realizzata da Júrgen Rose, i danzatori andavano svolgendo i temi coreografici di Cranko con grazia e scioltezza guidati dalle musiche eseguite dalla Spoleto Festival Orchestra diretta da Michael Collins, il quale ha diretto egregiamente, valorizzando tutto quello che c’era da valorizzare: misurato, ritmicamente preciso, mai rigido. II fluire della musica di Ciaikovski scivolava nel teatro e carezzava la pelle un po’ sudata degli spettatori. Un ottima resa quella dell’orchestra, quasi sempre, tranne in un punto: quando, chissà perché, la sezione degli archi ha avuto una imprecisione di intonazione (i professori certamente se ne sono accorti). Nei sei quadri in cui si articola il racconto, i corpi dei danzatori, si sono, appunto, fusi col discorso musicale. In un balletto non soltanto bisogna ascoltare l’orchestra e guardare i ballerini, ma bisogna ascoltare anche questi ultimi: come fanno vibrare e risuonare l’impiantito della scena; se il rumore viene fuori slabbrato e del tutto avulso dal discorso musicale, siate certi che c’è qualcosa che non funziona; così se i tonfi sono troppo pesanti e cadono in un punto non significante per l’orchestra i gesti e le piroette. O è tutto un solo congegno che si muove e suona o il tutto è gratuito e inefficace. Nella realizzazione cui abbiamo assistito i corpi cantavano con ritmo e buona intonazione, sia nelle parti di insieme, a due o solistiche. La coppia Onieghin-Tatiana (Vladimir Klos Birgit Keil) è stata di grande precisione di disegno e leggerezza di movimenti, con ottima sensibilità interpretativa in un crescendo sapiente dai primi volteggi leggeri del corteggiamento, in cui era ben evidenziata anche la frivolezza di Onieghin fino al drammatico finale, solo un po’ intralciato dalla ripetitività di alcune figure a due da un simbolismo un po’ingenuo. Un piccolo capolavoro la scena del sogno, dove anche lo scontato gioco dello specchio ha acquistato per merito dei due esecutori dignità coreografica e fascino suggestivo. L’effetto coreografico è forse stato danneggiato in alcune scene d’insieme da uno spazio scenico angusto. Nonostante il caldo, il pubblico, piuttosto indisciplinato, ha saputo poi applaudire con «calore».

6 – Luglio & Agosto ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Concerto aperitivo di lunedì 2 luglio
Il primo dei tre concerti-aperitivo a cura di Giancarlo Menotti comprendeva musiche di Chopin, Brahms, Fauré e Prokofiev. Gli interpreti erano tutti giovani, però già professionalmente preparati. Il pianista Alessandro De Luca ha eseguito la fantasia opera 49 di F. Chopin con appassionata energia: gli consiglieremmo però di usare con più parsimonia il pedale. In Sarcasm di Prokofiev, lo abbiamo sentito più rilassato e anche diverito: ci ha invitato a fare con lui graziose capriole, piombando spesso su gradevoli e piccanti armonie. Il concerto è proseguito con cinque meravigliosi lieder di Brahms, dalle melodie di intatta perfezione e cinque canti di Fauré, gradevolissimi, sebbene più superficiali. La bella e virile voce di Maarten Koningsberger ha eseguito i dieci brani con maestria e attenzione, talvolta ci è sembrato un po’ stupefatto. La sonata in re maggiore opera 94 di Prokofiev, per violino e pianoforte è stata suonata dalla violinista Sarah Johnson, impeccabile nel suo fraseggiare preciso e dalla buona intonazione, accompagnata dal pianista Cliff Jackson, corretto e leggermente sbarazzino, che già aveva accompagnato l’esecuzione dei precedenti lieder.

6 – luglio-agosto 84 – Spoleto
Concerto aperitivo di martedì 3 luglio

I1 concerto aperitivo ci ha fatto incontrare ancora una volta una nostra passione: la bellissima voce del mezzosoprano Katherine Ciesinski, che qui a Spoleto, oltre che nell’Arianna si è esibita in più di uno di questi concerti di mezzogiorno. Questa volta ha eseguito, dalla Esther di Händel, l’aria «Praise the Lord with cheerful noise»; come al solito, la sua interpretazione è stata, oltre che musicalmente valida, anche emotivamente intensa: si calava nelle note basse con grazia e disivoltura impareggiabili; impeccabile l’accompagnamento di Masuko Ushioda, al violino; Anner Bylsma, al violoncello, e John Gibbon al clavicembalo, strumenti qui non relegati in funzioni di puro sostegno armonico. In tutt’altro clima siamo entrati con il brilante e virtuosistico brano per chitarra sola di Julio Segrera, intitolato «Il colibrì», eseguito da Eliot Fisk. Il chitarrista si è poi cimentato con Paula Robison al flauto in una trascrizione per i due strumenti delle canzoni popolari spagnole di Manuel De Falla, in origine per canto e pianoforte. Le calde e malinconiche melodie spagnolesche si adattavano assai bene al flauto, che le ha esposte deliziosamente; la chitarra ha faticato di più a riprodurre le armonie pianistiche, ma, tutto sommato, se l’è cavata bene. Un vero incanto il quartetto per archi numero 1 di Bartok, del 1908. Un lungo, unico, discorso musicale, compatto, mai monotono o rigido. All’inizio un melodiare di intervalli discendenti e ascendenti che invitano alla meditazione. Si passa poi atraverso molte situazioni armoniche ed emotive: per tutta la composizione gli strumenti si coagulano in tensioni drammatiche che si sciolgono e si riformano. Si pot:rebbe parlarne a lungo, ma tagliamo corto e diciamo soltanto che l’esecuzione del Muir Quartet è stata perfetta.

6 – luglio-agosto 84 – Spoleto
Concerto aperitivo di venerdì 6 luglio

Vi è un modo ufficiale di interpretare Debussy, è quello di stemperare i suoi pensieri musicali in una nebbia impalpabile, dai contorni sempre indefiniti e indefinibili; anche i momenti di forza vengono conseguiti stingendo i colori armonici gli uni negli altri. Indubbiamente il linguaggio di Debussy non ha una logica immediatamente comprensibile: meravigliosi accordi si concatenano gli uni agli altri, come nelle libere associazioni mentali: sono retti da motivazioni difficilmente leggibili; un’analisi accurata, proprio come nella tecnica psicoanalitica, spesso riesce a mettere a nudo le motivazioni armoniche; ma non sempre è possibile fare ciò; rimane la bellezza di un discorso ambiguo. Allora è meglio evidenziare i riflessi di acque e di specchi. L’interpretazione che Bruno Canino – prima vogliamo parlare di lui – ha dato di Debussy, sia nella sonata per violoncello e pianoforte, sia da solo, nei meravigliosi quattro preludi dal secondo libro, ha scelto un’altra strada: la musica viene fuori sì fluida – le mani del pianista non conoscono intoppi – ma robusta, e le macchie di colore sono staccate, con le nervature e le suture ben visibili; niente nebbioline, tutto è chiaro. Va perduto qualcosa di Debussy? Noi pensiamo di no il grande compositore francese può essere letto anche in questo modo. Rocco Filippini, col suo violoncello si è ben adeguato a Canino. Il pianista solo ha impastato poi con vigoria non priva di aridità le note del tema con variazioni opera 73 di G. Fauré, dandone un’esecuzione corretta, ma un po’ vuota. Ha trovato invece segni di sensuale ancheggiamento nella spagnolesca danza di Ravel. Un giovane Chopin ha infine permesso al violoncello di Filippini di cantare le belle melodie di buona fattura dell’Introduzione e polacca brillante opera 3; il pianoforte, ovviamente importante, ha saputo adattarsi con un dolce virtuosismo, stemperando ogni asperità.

Westminster Choir
A Spoleto, ogni anno, arriva un gruppo di ragazzi e ragazze. Sono più o meno bellocci e tutti giovani, per le strade ridono forte, li abbiamo visti nelle osterie mangiare e bere cose incredibili; ma la musica la sanno eseguire a dovere: sono i ragazzi e le ragazze del coro e dell’orchestra dello statunitense Westminster College, diretti da Joseph Flummerfelt. Sotto il porticato del Duomo, alle sei del pomeriggio, in una serie di concerti, hanno eseguito i corali di Bach. La melodia del corale incede col suo passo misurato e sempre uguale, che la sublime e delicatissima struttura armonica incastona perfettamente; tra quelle antiche pietre, le giovani voci ne hanno offerto una esecuzione di una precisione ammirevole. Tutti insieme, con i solisti e l’orchestra, si sono esibiti, venerdì 6 luglio, alle 18, all’interno della cattedrale, in un bel concerto che comprendeva musiche di Händel, Randall Thompson e Mozart. Tutte le chiese hanno un’acustica bizzarra, il duomo di Spoleto detesta le voci e ama il suono degli strumenti. Nonostante eco e vibrazioni che zampillavano un po’ dappertutto, l’orchestra era chiaramente percepibile, le voci del coro risultavano confuse ma misticamente emozionanti; i solisti, invece, poveretti, se avessero potuto sentirsi si sarebbero vergognati: risultavano – senza loro colpa – emettere solo metalliche e frammentarie sonorità. Questo, purtroppo, è accaduto nella esecuzione della Messa della incoronazione K. 317, di W.A. Mozart. A questo punto i Farfalloni si lamentano pubblicamente: a Spoleto si esegue troppo poco Mozart; ciò non solo è grave: è gravissimo; anzi, non è gravissimo: è un delitto. Dello splendore mistico e profano di questa messa non abbiamo tempo e spazio per parlare qui. A parte gli ingiudicabili soli, l’orchestra si è rivelata compatta ed equi librata, e il coro, pur tra la nebbia, preci so. Piacevolissimi i brani da «Frostian» di R. Thompson, soprattutto il secondo nel dialogo tra il flauto solista e le voc femminili. Splendente nel suo solito contrappunto, che però valorizza sempre la melodia, la «Coronation Anthem» d Händel. Ma guarda un po’: abbiamo cominciate dalla fine!
Concerto Casagrande

Terni ha avuto tra i suoi cittadini un solido compositore: Alessandro Casagrande, scomparso nel 1964. Alla sua memoria è stato instituito un premio pianistico. L’anno scorso ha vinto il secondo premio – il premio non è stato assegnato – il pianista ventitreenne, di nazionalità ungherese, Balazs Szokolay, il quale ha vinto anche un ulteriore premio assegnato al migliore interprete delle composizioni di Casagrande. Sabato pomeriggio, arrivammo trafelati al Caio Melisso: temevamo di essere in ritardo, ma trovammo invece le porte del teatro ancora chiuse. Il pubblico, fuori, rumoreggiava, anche noi eravamo un po’ impazienti, perché vista l’ampiezza del programma, temevamo di non fare in tempo per la prima dell’Ultimo selvaggio. Il concerto iniziò, finalmente, con mezz’ora di ritardo, tra il nervosismo di tutti e crediamo anche del pianista. Dapprima furono eseguite due Sonate di Domenico Scarlatti. Nella famosissima sonata in mi maggiore L. 23, dal pianoforte uscì un bel suono, rotondo e chiaro; l’esecuzione fu stilisticamente corretta; anche le impennate ritmiche non diedero luogo a slabbrature; le mani erano tenute sotto controllo. Soltanto un’eccessiva variazione ritmica alterò, purtroppo, l’esecuzione delle ultime due frasi della breve sonata. Meno misurata fu l’interpretazione della sonata in mi minore L. 22; troppo accentuati i crescendo e diminuendo, che disturbano l’esecuzione pianistica di Scarlatti. Finalmente, il giovane pianista poté tuffarsi in una musica a lui più congeniale, un brano scritto proprio per pianoforte da un compositore romantico: la sonata in do maggiore di Beethoven, la Wallenstein. Veramente splendido l’inizio. Si percepiva sotto gli accordi robusti, un fuoco che stava per divampare; e così fu, per tutto il primo tempo. Forse proprio per questo risultò un po’ troppo accentuato l’aspetto virtuosistico; ma il suono rimaneva bello; e perfetto l’equilibrio delle due mani. La seconda parte, con quel suo inizio meditativo e trattenuto, fu esposta sapientemente; una vera abilità istrionica fu dimostrata nel preparare l’avvento squillante della melodia; e poi il fuoco poté divampare: sembrava che si dovesse scaricare una tensione troppo a lungo accumulata. Nonostante le intemperanze, tutta la sonata di Beethoven fu eseguita in modo veramente magistrale. Sugli applausi scroscianti noi dovemmo uscire, perché era troppo tardi, perciò non possiamo dire nulla su come fu eseguito il resto del programma. Consigliamo soltanto al bravissimo ungherese di non eseguire mai musiche di compositori che non abbiano conosciuto Bartolomeo Cristofori.

5 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Coerenti con la nostra convinzione che la cucina e la gastronomia sono segni di una civiltà non inferiori ai segni della cultura e dell’arte e inclini per natura ai piaceri della tavola, siamo andati con uguale impegno alla ricerca degli uni e degli altri: i ristoranti ci paiono santuari degni di visita tanto quanto le mostre e le chiese, i teatri e le sale da concerto. Ci piace quello che può offrire da mangiare e da bere l’Umbria; le materie prime sono saporite, alcuni piatti sono semplici e altri di semplice raffinatezza. Una premessa dobbiamo fare subito sull’elemento sovrano di tutta la cucina umbra: il tartufo nero. Noi riteniamo sciocca la lite che vede i sostenitori di questo tartufo impegnati nel confronto con il tartufo bianco. Riteniamo il paragone improprio e vano, che senso avrebbe paragonare i pomodori con le melanzane? E discutere se gli uni sono migliori delle altre? Non ci interessano le sue. caratteristiche botaniche, ci interessano invece quelle organolettiche: tartùfo bianco ha il sapore e il profumo delle profondità della terra e dell’umido sottobosco. Sono due elementi completamente diversi e vanno usati, in cucina e a tavola, in modo completamente diverso. Qui a Spoleto i tartufi neri sono non solo sovrani, ma anche. un po’ invadenti, talora.

Non solo il tartufo nero è trattato come si deve, ma anche tutti gli altri ingredienti sono rispettati ed esaltati nella cucina di Piero al Palazzaccio, a S. Giacomo, al chilometro 134 della via Flaminia. Non sappiamo dove sia il Palazzaccio che dà il nome a questo locale, che si trova poco distante da Spoleto, purtroppo vicinissimo al traffico della consolare, sul lato destro per chi viene da Roma. Un locale che ha i segni tipici dell’ex casale, con tanti tavoli fuori, altrettanto tipici; il servizio è svolto da persone sorridenti, anche se rallentato dalla grande affluenza di avventori nel periodo del festival. Vi diciamo subito che il vino della casa è ottimo, scelto da qualcuno che, realmente, si intende di vini. Noi, spesso, assaggiamo subito il vino sfuso che ci viene offerto e, quando è troppo cattivo, ci alziamo prima ancora di aver ordinato e ce ne andiamo via: se il ristoratore sceglie così male il «suo» vino, non vorrà di certo darsi da fare per offrire buoni cibi, perché troppo avaro o senza palato. Come abbiamo detto, non è così al Palazzaccio, buono specialmente il rosso che si sposa deliziosamente sia ai piatti col tartufo sia a quelli senza. Abbiamo assaggiato gli strangozzi? È ovvio: siamo a Spoleto, ma poi anche ravioli e tortelloni, preparati con pasta freschissima e morbidi; grigliate magistrali; l’ultima volta abbiamo assaporato una stupenda faraona alla leccarda. Una cosa stranissima: qui si fanno delle «pommes frites» veramente alla francese. Perché sono così banalotti i dessert? Il prezzo è più che ragionevole per tanta letizia.

Little Pub
Se, per caso, al Teatro Nuovo, avete troppo caldo o siete seduti scomodi, vi consigliamo, nell’intervallo, di andare in un luogo che vi metterà di buon umore. Proprio di fronte al teatro, scendendo alcuni scalini, si entra al Little Pub, che pare sia aperto soltanto nel periodo del festival. L’ambiente è l’interrato di un palazzo, dalla splendida e possente volta e dai muri antichi: proprio lì, un vetusto camino, carico di umbra austerità, è stato dipinto, all’esterno di lucida vernice rossa, l’interno della bocca è bianchissimo di calce, adornato di cuscini di raso con su dipinti eterei pierrots; sempre nel focolare, in una boccia di vetro tondeggiante, un fascio di fioriti pennacchietti rosa, che ci piace chiamare asfodeli, per associazione di idee.
Un bel ragazzo bruno, vestito come un benzinaio di Armani, riccetti e catena d’oro in evidenza sul petto serve danzante dietro il bancone, insieme con una fanciullina dolcesorridente. Cordialissimo, stupefatto ed entusiasta del mondo, offre cose incredibili a raffinati e languidi amanti dello spettacolo e a truculenti gorilla di scorta, che aspettano i pescicani della finanza e della politica momentaneamente assenti perché a teatro in dolce e vistosa compagnia. Cosa abbiamo bevuto? Un abbondantissimo e troppo` dolce Manhattan e un acquoso e tiepidiccio Old Fashion; questo tono generale vale per tutta la non molto varia lista di cibi e di bevande, che si apprezzano non perché siano buoni, ma perché sono offerti in una situazione che ispira un dolce buon umore.
Anche il prezzo mite aiuta a restare sereni.

Se, invece, avete visto un brutto spettacolo, non andate alla Trattoria della Lanterna in via della Trattoria 6; po:reste essere colti da una profondissima crisi depressiva. Tutto è molto triste, la vista del menù vi accascia, vorreste scappare, ma è tardi e allora ecco la bruschetta «al tartufo», – ci viene ora il sospetto che l’intruglio venga prodotto tutto in un’unica cucina e poi smistato nei vari ristoranti – i primi sono quello che sono e i secondi si immalinconiscono con voi contornati da una varietà uniforme di vegetali erbosi e sfatti. Il delirio tocca punte di grandezza alla proposta dei vini: dopo aver respinto il Sangiovese della casa, ci siamo visti proporre un, a noi ignoto, Caronte rosso delle Marche, vino da tavola del 1977, bevanda veramente infernale! Dopo aver dribblato un Nebbiolo del 1978 e un Barbaresco dalla bella e antica etichetta, ci siamo affogati in un Chianti poverello e francescanamente mite. Il conto eccessivo ha concluso l’esperienza.

Faceva molto caldo, l’ora era sufficientemente lontana dalla cena, ci venne in mente di bere un cocktail fresco: entrammo al Pub Time and Place sulla piazza del Mercato anch’esso. L’ambiente di legno chiaro e sgabelli di legno e paglia era a metà tra l’atmosfera del bar di paese e quella accaldata di un film come Casablanca. Dietro al bancone un delizioso ragazzetto dall’aria sperduta, alla nostra richiesta, ci spiega che i cocktail li fa «lui». Dal canto suo egli poteva offrirci soltanto un prosecco caldo o un analcolico freddo; dall’ombra suonò severa una voce di donna sferruzzante in un angolo, noi bevemmo lo spumante caldo e l’analcolico freddo e fuggimmo nel sole. Tornammo quando fummo sicuri di trovare «lui»: Said, gentile e sobrio iraniano; gli chiedemmo alcuni cocktail e lui ce li preparò con disinvoltura, dosando gli ingredienti ad occhio in maniera non proprio ortodossa ma con un risultato più che piacevole anche per l’uso di liquori di buona qualità. Se pure non sia il caso di fare confronti troppo serrati coi canoni classici, vale comunque la pena di tornare quando c’è «lui».

Proprio a un passo dalle vecchie mura ai piedi del pendio che segna l’inizio della parte più antica di Spoleto, in posizione non felice sulla via di grande traffico si trova lo Sciattinau al numero 51 di via Martiri della Resistenza. Si entra in un grande ambiente abbastanza articolato che comunica da una parte con la veranda e dall’altra dà direttamente sulla ben visibile e ampia cucina. Il tutto è accogliente e familiare, sebbene l’arredamento non abbia pregi e i pochi bellissimi e vecchi tavoli da osteria ancora esistenti siano mimetizzati sotto le lunghe e anonime tovaglie. Chi vi serve è estremamente gentile e simpatico. In tavola arrivano uno dopo l’altro cibi saporiti e spesso prelibati: gli antipasti misti della casa sono fraganti e abbondanti, il crostino col tartufo è trattato come si deve, gli altri spalmati con un buon paté e hanno una spiritosa punta di aceto, le olive ascolane sono ottime, il prosciutto è dolce e profumato, la panzanella è piacevolissima, fresca e non fredda e introduce al sapore meraviglioso dell’olio umbro; le frittatine vi fanno arrivare alla fine degli antipasti e già vi sentite sazi. Ma lo stomaco e la bocca si riaprono con piacere: il minestrone di verdura ha tutti i suoi componenti dalla giusta consistenza, e non come succede troppo spesso, qualche verdura troppo dura e qualche altra sfatta; eccezionali gli spaghetti al tartufo; buoni per sé ma con un sugo troppo lento gli strangozzi alla spoletina. Non abbiamo provato quei piatti che nel menù risultavano alla panna, e qui vorremmo fare una parentesi. Noi consigliamo ai cuochi: se ritenete onestamente di saper cucinare, non distruggete le vostre salse con la panna, lasciatela per i dessert! Concluso il predicozzo torniamo a parlare della faraona in salmì, rustica e sapida bontà, cotta al punto giusto; buono anche se un po’ fuori stagione il cinghiale e morbidissima l’arista di maiale. I vini della casa non sono sgradevoli: il bianco con un sapore lieve di fumo, all’antica, e il rosso con un leggero gusto di castagna, magari un po’ pesante. I dolci, per dichiarazione esplicita, sono di pasticceria e concludono bene l’allegro pasto: tartufo di cioccolato, immerso in un mare di buon liquore o di caffè; oppure un millefoglie un po’ trionfalistico. Per tutte queste squisitezze si paga un prezzo più che onesto.

Nel cuore di Spoleto, in via Brignone 8, si trova la Trattoria del Festival: un paio di locali arredati con il solito spreco di quadri e manifesti del Festival alle pareti, con l’aggiunta di qualche foto di famiglia, le vetrine con la mostra dei piatti di portata e un’atmosfera generale
e un servizio tra l’anonimamente gentile e il fariseo. Come al solito anche qui l’infame questione ci viene posta non appena sistemati al tavolo: «Bevono rosso o bianco?». Nel novantanove per cento dei ristoranti e trattorie italiani l’avventore viene accolto così; noi questo lo riteniamo un insulto al buon gusto di tutti; pure se è vero che se i ristoratori sono spesso indegni di svolgere la loro professione, almeno il novanta per cento degli avventori è composto di bruti che ingoiano il cibo, misto al fumo delle sigarette, sigari e pipe, vociando senza respiro e quindi non paiono molto degni di rispetto.
Benché non fumassimo e bisbigliassimo appena noi in questo locale non ci siamo sentiti rispettati da un simile approccio. Dopo aver ordinato tutto il pranzo, chiedemmo che ci si portasse il rosso della casa; sulla bottiglia che ci arrivò in tavola spiccava l’etichetta: «Rosso dei colli perugini», d.o.c.; 1982. Il contenuto non faceva certo onore a quei colli: una spumettina increspava un liquido rosso appena frizzante e un po’ amaro, ripiegammo sull’immancabile rosso di Montefalco, bevibile ma niente più.
Gli antipasti reggevano a stento: crostini bruschette con salsette al tartufo e paté o pomodoro acquosi e zucchine fritte anonime; in calando i primi piatti: cattivo il ;ugo, rosso con tartufo, degli strangozzi ripassati in padella, proprio immangiabili e penne alla norcina stravolte da un inruglio di panna tiepidiccia; il disastro arrivò con i secondi piatti: roast beef acquoso e di pessima carne, un agnello scottadito che ci ha imposto la banale associazione con la suola delle scarpe, una bistecca alla pizzaziola più nervosa di noi a quel punto, le patate al forno del contorno parevano venire dallo scenario di cartapesta di uno dei teatri lì vicino. Una grottesca zuppa inglese dagli ingredienti indecifrabili e da un marcato sapore di anisetta sigillò un pasto da non ripetere. Il prezzo sui livelli correnti.
Spoleto è bellissima, ciascuno può trovare negli angoli, scorci e chiese l’aspetto che preferisce di una città ricca di arte e di storia, un angolo che diviene il luogo preferito; ma al di sopra dei gusti particolari, si impone all’ammirazione generale la bellezza assoluta della piazza del Duomo, divenuta, non a caso, cuore della città e del Festival.

Proprio appoggiato su un lato della piazza, sulla salita a gradoni della via dell’Arringo, tra Campello e palazzo Ràcani sta il Tric-Trac, locale vecchio quasi come il Festival, creato da Giustino che ancora oggi ne è il fortunato padrone. Ai tavoli, un po’ pericolanti, sui sassi del declivio si sono seduti, insieme con folle di anonimi turisti, personaggi e artisti famosi di tutto il mondo. Il Tric-Trac non appartiene a una categoria di locali facilmente definibile: in questo luogo privilegiato si può soddisfare dal semplice desiderio di un bicchiere d’acqua minerale a quello di un sofisticato pranzo o ricevimento di gala. La formula su cui si regge è geniale: messo in quella posizione potrebbe offrire ai suoi avventori qualunque cosa, infatti chi rinuncerebbe a sedersi lì, la sera, nel volo delle rondini a immalinconirsi dolcemente di struggimento e nostalgia, guardando le belle linee del portico rinascimentale del vecchio duomo? Invece, la professionalità e la correttezza hanno fatto sì che si possano apprezzare, in una sosta più o meno breve, cose di riguardo. Giuseppe e Guido orchestrano con sapiente disinvoltura il via vai degli ospiti e le evoluzioni tra i tavoli di uno staff variamente esperto. Nella cucina le materie prime sono di prima scelta e trattate con leggerezza: non vi sono i sapori più forti, tipici della cucina umbra, che qui si stempera per riuscire gradita ai palati meno preparati o schizzinosi. Veramente superbe le bevande: dai cocktail classici ai drink più estrosi. Noi adoriamo un cocktail di amari e il cocktail di champagne, quando non è aggredito dal cubetto di ghiaccio nella coppa. Anche la scelta dei vini è ampia e annovera un rosso di Montefalco di bontà insuperabile e di una certa nobilità di bouquet. Ancora una volta, dopo le gioiose fatiche dello spettacolo, nell’aria fresca che scende lungo la via dell’Arringo, è bello, seduti al tavolino, vedere Spoleto e il suo duomo girare vorticosamente intorno.

Psicoanalisi contro n. 5 – L’Araba Fenice

domenica, 1 luglio 1984

L’ essere umano fa e pensa, pensa e fa. Quanto sia consapevole di quello che fa non è molto chiaro. La consapevolezza è sempre intrisa di inconsapevolezza. Accorgersi di qualcosa è sempre anche un non accorgersi di qualcos’altro. Il chiedersi che cosa stia facendo può essere per l’uomo una domanda oziosa, anche se, talvolta, piena di stupore. Si è cercato di distinguere il fare dal pensare come se questo fosse possibile. Perciò un filosofo barocco ha detto «Penso; dunque esisto». Frase riccioluta come un capitello corinzio, profondissima ed inutile come tutti i pensieri profondo. L’acqua nel pozzo profondo è fresca, più il pozzo è profondo e più l’acqua è fresca, invece i pensieri più sono profondi e più sono frivoli. E io penso che ciò che ho detto sia molto profondo.

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L’uomo fa, l’uomo pensa sul suo pensiero, però l’uomo soprattutto inventa e costruisce se stesso, facendo, pensando e ripensando. Il mondo si specchia e si concretizza nell’interno della persona umana, la quale non è nel mondo. E’ il mondo. Il mondo è dentro e oltre, noi siamo vivi nel mondo e il mondo vive in noi. Separare l’uomo dal mondo è impossibile, almeno per l’uomo. La psicoanalisi, allora, di che cosa parla, della psiche umana? Ma la psiche non ha senso al di fuori della persona nella sua interezza e l’essere umano non ha senso isolato dal mondo. Allora la psicoanalisi parla del mondo? Ma se parla del mondo non è psicoanalisi è cosmologia. Ma la cosmologia che cos’è al di fuori dell’uomo che pensa il cosmo? E l’uomo che cos’è al di fuori di un uomo che pensa all’uomo? La psicoanalisi se esiste deve parlare di tutto. Pur non essendo il tutto e neppure una scienza universale. La psicoanalisi parla dell’uomo e dell’uomo che pensa al mondo. Coglie l’uomo attraverso il mondo e il mondo attraverso l’uomo. A però l’unica scienza che gioca con il mistero disinvoltamente. Le altre scienze affondano nell’ignoto, la psicoanalisi nell’inconscio. L’inconscio non è soltanto ciò che nell’uomo non è consapevole, l’inconscio è’una rappresentazione, rappresenta il mistero ed il mistero del mistero. La scienza ha paura della psicoanalisi perché al momento le propone un modello non imitabile. Sebbene basterebbe poco per imitarlo. Basterebbe non voler essere onnipotenti, ma per non voler essere onnipotenti bisogna essere uomini. E Diogene cerca ancora.

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La psicoanalisi è, da sempre, affascinata dall’arte. Gli studiosi della psiche anche prima della psicoanalisi hanno cercato di spiegare questa bizzarra espressione umana. Inoltre, da quando è possibile reperire tracce scritte del pensiero degli antichi ci si avvede che il problema del significato dell’arte e di che cosa essa sia occupa da sempre una parte importante delle riflessioni umane. 1 filosofi, gli storici, i sapienti in genere, hanno cercato di collocare l’arte entro un sistema di riferimenti. Non tutti, però, hanno cercato di definirla, molti si sono limitati a collocarla ed a cercare d’individuarne l’origine. Anzitutto i pensatori si sono chiesti se l’arte coincida o no con il bello. Coloro che hanno dato una risposta affermativa si sono quindi avventurati a definire la bellezza. Coloro i quali hanno distinto i due concetti o hanno cercato di spiegare la genesi dell’arte o il suo dover essere oppure ancora le sue caratteristiche intrinseche. E hanno detto molte cose: che l’arte sorge da una realtà socioeconomica, che l’arte è, e basta, ma deve migliorare gli uomini, che l’arte è rappresentazione del vero, manifestazione del trascendente, descrizione verosimile della realtà e poi ancora altro.

Dire come una cosa nasca presuppone che si conoscano le caratteristiche di quella cosa. Bisogna accettarne quindi una definizione, ma allora ci si riferisce acriticamente ad una delle definizioni che altri hanno dato. Coloro però che hanno cercato di definire l’arte in se stessa, si sono scontrati con due ordini di problemi. li primo che nessun concetto di cui l’uomo si serve è dei tutto isolabile: una definizione ne richiama un’altra, un’altra ancora, e quest’altra rimanda alla prima. La giostra quando gira va avanti o sta ferma? Questo problema, però non riguarda soltanto la definizione dell’arte, riguarda tutto ciò che è dell’uomo: anche la giostra. li secondo ordine di problemi invece affonda direttamente nel concetto di arte. L’arte descrive il mondo, un mondo verosimile; ma allora è filosofia. Oppure è scienza. L’arte è espressione, ma espressione di che? del mondo e delle sue emozioni. Ma esprimere il mondo e le sue emozioni vuol dire anche descrivere. Per descrivere bisogna definire, quindi, l’arte è ricompresa nel concetto di filosofia o di scienza. Potrebbe essere espressione allo stato puro; ma l’espressione allo stato puro non vuol dire niente. Le emozioni sono frutto di una esperienza e di una situazione che è compresa in un sistema di significati che si esprimono attraverso le emozioni. Anche qui si ripresenta la giostra. Per di più, giunti a questo punto, il secondo ordine di problemi stranamente diviene sempre più simile al primo. L’arte, quindi, non si sa bene cosa sia, è come la fede degli amanti e l’araba fenice che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

L’arte esiste e basta. Alcuni prodotti dell’ingegno umano vengono chiamati arte, altri no. Senza dubbio a muovere il tutto c’è, anche, una ragione economica, ma il denaro non definisce: compera e dà un valore.
Un biondo esanime artista potrebbe turbarsi nel sentire che l’arte acquista valore attraverso il suo prezzo in denaro; eppure è anche così. Questo «anche» indica che non è soltanto così. Il prezzo non sorge dal nulla. E’ l’espressione di qualcosa che è prima del prezzo e del denaro. 0 meglio fonda l’esigenza del prezzo e del denaro. Proprio per questo il valore dell’arte è indefinibile: se tutto ha un prezzo ed il prezzo indica il valore di ogni cosa, ogni cosa però ha valore anche indipendente- mente dal prezzo, o meglio, nonostante il prezzo. li desiderio è a fondamento di tutto, anche del prezzo. Ma il desiderio di chi. di tutti o di qualcuno? Di tutti e di qualcuno allo stesso tempo. 1 potenti condizionano le masse, le masse condiziona- no i potenti. 1 bisogni di tutti, potenti e non, si intrecciano come i serpenti intorno a Laocoonte e i suoi figli, che non si capisce mai se godono o soffrono in quell’amplesso eroticamente incestuoso.

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L’arte a che cosa serve? Alcuni hanno detto che non deve servire a niente perché altrimenti non sarebbe arte. L’arte dovrebbe essere un gesto bello ed essenziale. Bellezza ed essenzialità che non si richiama- no ad altro: ma allora la bellezza si smarrisce e l’essenza diviene inessenziale. Altri dicono che deve essere didattica, pedagogica e psicagogica, ma lo è in quanto arte o in quanto qualcos’altro? Educa e guida gli uomini in quanto non è arte, in quanto è filosofia o politica. Tant’è vero che brutte opere hanno influenzato le mas- se, indirizzandole forse verso il bene. L’arte sarebbe arte per qualcos’altro.
Si potrebbe ancora dire che l’arte è arte in quanto diverte e educa allo stesso tempo. Non bisogna scindere i due aspetti, proprio se si lasciano uniti l’arte vive: altrimenti si dissolve.

Ma anche una ricetta di cucina eseguita alla perfezione e un buon bicchiere di vino, non distrutto da un invecchiamento dissennato, divertono ed educano. Divertono perché hanno il potere dì far passare istanti meravigliosi, educano perché contribuiscono ad affinare il gusto e il buon gusto.
Allora, la vera arte deve far soffrire? Attraverso la drammaticità e la sofferenza, le passioni si purificano e l’uomo scopre la propria grandezza. Se così fosse, l’Edipo re ed il Lamento di Arianna sarebbero troppo simili a un piatto di spaghetti scotto e insipido o ad un bicchiere di vino che sa di tappo. Perché, sia il dolore di Edipo, sia gli spaghetti mal cucinati, fanno entrambi soffrire, eccome!

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Forse si potrebbe affrontare il problema aggredendolo da un altro punto di vista: cercando di dire che cosa l’arte non è. Ma questo ingenuo sotterfugio, vecchio di secoli, non regge. Tutto ciò che non è arte, nel momento stesso in cui viene definito, se ne appropria in parte e, piano piano, occupa tutto lo spazio che le era stato riservato. L’arte sì dissolve in tutto ciò che arte non viene chiamato. Non le rimane neppure la peculiarità dei dominio sulla bellezza: la bellezza è propria di Apollo; l’arte, anche quella antica, sfugge continuamente al controllo del bellissimo dio. L’arte allora coincide con la parola arte. A questo punto, Lacan e Jung si troverebbero d’accordo: il primo perché vedrebbe nella parola arte il fondamento, il secondo perché vedrebbe nella stessa parola l’espressione di un concetto trascendente ed immutabile. Giunti però alla parola la storia distrugge questo effimero punto fermo. Le parole non camminano immutate ed immutabili; nei secoli acquistano significati diversi, talvolta così diversi che divengono persino inconciliabili. Lungo la storia, il significato della parola muta persino più in fretta del modo di pronunciarla. Ancora l’apparato vocale mette gli stessi suoni di un tempo, ma già il significato è un altro. La storia stessa si smarrisce entro la propria parola: la storia della parola storia trascende la storia, dietro c’è qualcosa, ma non è la parola storia.
Le parole sono più caduche delle rose, che continuano a sbocciare oltre la parola rosa, presenza costante all’inizio delle grammatiche latine, al capitolo prima declinazione. La storia della rosa è incominciata con la rosa, con il suo profumo, i suoi colori, le sue spine in una primavera di molti anni fa. Le parole sono piccoli punti inessenziali per definire un’essenza che in qualche modo deve esistere; altrimenti non esisterebbero neppure i sogni. Non esisterebbe proprio nulla; un nulla senza nome, immobile in una immobilità impronunciabile. Anche il nulla è; altrimenti non sarebbe nulla: un altro antichissimo gioco di parole, gioco che è meglio interrompere qui.

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Non si può dire né che cosa l’arte sia, né che cosa non sia. L’arte non coincide neppure con la parola arte. L’arte, e so di dire una banalità, è ciò che l’essere umano vuole che l’arte sia. Io penso però che oltre non si possa, e forse non si debba andare. Se l’arte è ciò che l’uomo vuole che essa sia, l’arte è figlia della lotta. Il volere si radica sui desideri e non su di un unico desiderio. 1 desideri possono essere in contrasto fra loro e perciò guidano la lotta tra il volere e il non volere. Ritorna l’immagine di Apollo: bello, le membra splendenti ed armoniche; ma questa sua armonia nasconde la guerra e la disarmonia. Soffermiamoci un istante sulla storia della musica, che racconta la storia della lotta tra le armonie. Gli antichi e i moderni teorici costruiscono e analizzano armonie diverse, profondamente disarmoniche tra loro. Che cosa è una quinta giusta? Consonanza e dissonanza si rincorrono e di sovrappongono. La disarmonia delle varie armonie si fonda su un unico concetto di armonia. In realtà esiste la lotta per raggiungere l’irraggiungibile: presente e nascosto.

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La storia si smarrisce anche dietro il proprio nome. Ma ogni essere umano è una storia, ed è una storia proprio perché la racconta: la racconta perché la rappresenta.
L’essere umano racconta a se stesso e agli altri la propria storia. L’uomo non c’è se non come punto in cui si intreccia con l’essere di altri esseri. L’arte non è isolabile dalle altre attività umane, ma neanche l’uomo è isolabile dagli altri uomini e il mondo dagli uomini.
L’uomo racconta quindi una storia che è sempre anche la storia di altri e di altro. La racconta con i gesti, le parole, i colori, i suoni… ogni storia racconta una storia interna a quei gesti, parole, colori, suoni, ma anche esterna. Anche la musica che, apparentemente, è l’arte astratta per eccellenza non riesce ad esserlo completamente, proprio perché nulla di ciò che inerisce all’uomo può essere del tutto astratto. Non sto qui parlando del divertimento rococò di imitare il vento con gli archi e gli usignoli con i flauti; la musica non racconta in quel senso; la musica concatena, strutturandole, serie di suoni che si sovrappongono, la cui logica interna diventa una storia, che non è mai la storia di quei suoni e neppure semplice ricordo di emozioni passate: è il racconto di tante cose. L’arte astratta è un’invenzione del nostro secolo, nulla però può essere astratto per l’essere umano; ce lo dimostrano i sogni, che sono sempre storie, se pure misteriose, figurativamente realistiche anche nella loro bizzarria. Nei sogni, per fortuna, le elucubrazioni dei teorici dell’arte hanno poca efficacia. Tutto ciò che viene a contatto con l’esperienza umana è frutto di questa esperienza e cerca un significato. Nessuno può guardare una serie di macchie senza che, almeno inconsciamente, quelle macchie siano,contemporaneamente, il racconto di una cascata cromatica che diviene una cascata d’acqua, che diviene il volto di un amore perduto.

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L’arte astratta è impossibile perché tutta l’arte è astratta; cioè, racconta anche sempre di altro. Guai però a quell’artista che si rifiuta di cercare un linguaggio comune e preesistente. L’esibizione di chi usa colori, suoni, corpo e parole è cadaverica e mortale se è pura e semplice esibizione. Non è solo mimesi della morte: è morte; cioè definitiva impossibilità di comunicare. Però è anche colpa perché nasconde la voglia di non comunicare. In questa voglia, se pure malata, si annida, per fortuna, la vita. Un brandello di storia viene sempre, nonostante tutto, raccontato, anche nelle composizioni artistiche più astratte, atonali, informali, spontanee, casuali. lo desidero che gli altri mi raccontino loro stessi per entrare nella loro storia, che è, in genere, una storia sempre diversa che lascia però sempre intravedere, chissà dove, dietro la nebbia, la figura di Eros.
Io non so che cosa sia l’arte, ma so ciò che chiedo all’arte: chiedo che mi racconti e che, raccontando, mi educhi.
Anche la psicoanalisi è fatta di racconti; dapprima rigidi e razionali, poi man mano più profondi, contraddittori ed inquietanti. Questi racconti diventano anche mimesi, cioè recitazione di un passato più o meno lontano. Io in questi racconti ritrovo me stesso e guarisco. Da che? Dalla costrizione a vivere soltanto racconti infelici. Questa è la vera educazione. Non si educa imponendo dall’alto, con prediche, ma chiarendo ed insegnando a recitare insieme.
Ma, allora: arte e psicoanalisi coincidono? Io credo di no; anche se mi è rimasta una leggera confusione.

5 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Ariadne auf Naxos
Il XXVII Festival dei Due Mondi, a Spoleto, si è aperto con la Ariadne auf Naxos, opera in un atto con prologo di Hugo von Hoffmansthal, musicata da Richard Strauss. L’opera andò in scena per la prima volta a Stoccarda nel 1912 e ripresentata in una seconda e definitiva versione a Vienna nel 1916. Questa esecuzione spoletina è diretta da Christian Badea, con la regia di Giulio Chazalettes e si avvale di scene e costumi di Ulisse Santicchi, l’orchestra è quella della Spoleto Festival Orchestra. I ruoli principali sono interpretati dal soprano Katherine Ciesinski (il compositore), dall’altro soprano Cecily Nall (Zerbinetta), dal terzo soprano Esther Hinds (Arianna) e tenore Aaron Bergell (Bacco). H. von Hoffmansthal collaborò con R. Strauss fornendo i libretti per diverse opere e non fu mai servitore banale del musicista, ma collaboratore capace di suscitare anche pensieri musicali fecondi. La sua arte poetica è ricca di echi: Nietzsche e la psicoanalisi – più quella di Jung che quella freudiana – che ama scavare non solo l’inconscio individuale, ma anche le fantasie dell’inconscio collettivo, tanto che, forse non stranamente, alcuni aspetti della verbosità e fumosità dello scienziato di Zurigo sono presenti, non certo consapevolmente, nei versi del poeta austriaco, affollati di miti, ombre, gesti simbolici, quasi sempre un po’ ridicoli e noiosi e parole, parole, parole… che spesso schiacciano la vitalità della scena teatrale. Adriadne auf Naxos (rappresentata nell’originale, in lingua tedesca) teatralmente regge poco: un prologo in cui un padrone di casa tiranneggia un compositore imponendogli la rappresentazione di un’opera buffa contemporaneamente all’esecuzione dell’opera seria prevista per allietare una serata che dovrà comunque avere il suo culmine con l’accensione dei fuochi d’artificio alle nove in punto. Il contenuto di tutto questo prologo è così pleonastico che nessuno si accorgerebbe se i cantanti, anziché pronunciare le parole di un testo emettessero suoni soltanto. Siamo di fronte a un piccolo poema sinfonico che non intende raccontare alcunché e la musica non ha infatti nessun rapporto con le banalità insipienti del testo. La piccola orchestra, insaporita dal timbro del pianoforte, compie capriole, armonicamente prevedibili ma deliziose, e gli strumenti, spesso trattati solisticamente, intessono brandelli di melodie, interrotti e ripresi continuamente, in ritmica danza con le voci dei cantanti, che hanno le stesse avventure musicali, con brani gradevoli, ironici o melodiosamente struggenti, anche se sempre un po’ in bilico tra la Butterfly e La vedova allegra. Ripetiamo: un piccolo gioiello. La rappresentazione vera e propria si apre con alcune pagine strumentali in cui Strauss rivela la sua genialità di compositore di prim’ordine: dapprima prevalenza degli archi e poi, lentamente, vi si impastano i fiati. Il discorso armonico apparentemente ricercato, è, in realtà, semplice e consequenziale; segue poi un melodiare lungo e disteso, che non teme le cadenze conclusive tradizionali. Si ascolta della buona musica, forse è un po’ troppa, soprattutto nel finale, lungo, prolisso e antiteatrale (è Strauss che si è fatto castrare da Hoffmansthal?); un duetto immobile che fa capire agli spettatori perché Teseo ha piantato Arianna iN asso: eroe scattante e sbrigativo, non ce l’avrebbe mai fatta ad usare così tante parole per dire niente; l’ha quindi lasciata a dialogare con Bacco, che è un dio e ha l’eternità davanti a sé. Eppure anche qui la musica è splendida: tenera, distesa, accorata; certo, qualche volta, il compositore non sa più che pesci pigliare e si ripete; ma Strauss riesce comunque sempre a nascondere di essere poco capace a variare davvero: un impasto sonoro nuovo, una modulazione apparentemente imprevedibile riacchiappano l’orecchio che torna ad immergersi nel piacevole avventura dei suoni che gli raccontano di quest’Arianna sola sull’isola Nasso a piangere, consolata dalle ninfe e incurante delle intrusioni dei personaggi dell’opera buffa, protesa verso il finale incontro con Bacco e la soluzione del dramma dopo il simbolico equivoco che riaccosta ancora una volta i concetti di amore e di morte.
Ottima veramente la Zerbinetta di Cecily Nall; parte non facile, vocalmente e teatralmente, assolta con una bravura ad alto livello: anche i vocalizzi ad effetto erano eseguiti senza dimenticare mai la correttezza musicale e senza alcuna facile gigioneria. Ottima Esther Hinds nel ruolo di Arianna: ha trovato espressioni sempre nuove, buone coloriture e una respirazione ineccepibile. Le passioni e gli struggimenti del Compositore sono state esposte con maestria da Katherine Ciesinski, che ha superato bene anche le difficoltà di un personaggio mal servito dalle parole di un testo gratuito e senza rapporto con la musica. Possente e sensuale il Bacco di Aaron Bergell, musicale e sonoro. Eccezionali le maschere di Arlecchino (Ben Holt), Scaramuccio (Robert Tate), Truffaldino (Kurt Link), Brighella (Steven Cole). Comunque corretti tutti gli altri interpreti, impegnati in ruoli davvero poco gratificanti. La direzione di Christian Badea, se pure a buon livello, è stata, nel prologo, un po’ meccanica, perdendo e sciupando molte delle sonorità geniali che gli strumenti appena accennavano, un guasto questo da collegarsi con una certa macchinosità della regia, forse. Molto più sciolto il direttore è apparso nella seconda parte, dove la precisione non soffocava (anzi spesso esaltava, senza sbrodolarle) le possibilità timbriche dell’orchestra. Lo scenografo e il regista hanno avuto di fronte il compito arduo di trovare soluzioni teatralmente accettabili per situazioni caratterizzate nel prologo da una certa gratuità e macchinosità e dal contrasto, in tutta la seconda parte, tra la staticità dell’opera seria settecentesca e la vivacità un po’ slegata della pantomima. Ci sono riusciti più o meno bene, cercando a tastoni l’equilibrio tra vivacità e invadenza, solennità e immobilismo. Più discreto Giulio Chazalettes, più propenso a effetti sfacciati Ulisse Santicchi che, soprattutto nella seconda parte, non ha risparmiato colori e materiali per evidenziare il contrasto tra una certa gelidità siderale, ricca di specchi e di biancori dell’opera seria e la variopinta carnalità di un quotidiano cialtrone e fiabesco dell’opera buffa. Uno spettacolo, a conti fatti, di buon livello artistico cui vale la pena di assistere.

I1 barocco è splendido. in tutti i suoi aspetti; dove cominci e dove finisca difficile dirlo, come difficile è stabilire i limiti cronologici. I frigidi e gli imbecilli guardano con diffidenza allo splendore di quest’arte; ma lasciamoli masturbarsi in compagnia della loro miseria di spirito. Il teatro barocco – musicale e non – è così splendido che è inutile sprecare alti aggettivi. In quel tempo si sapeva fare di teatro e si aveva il gusto per il teatro: la Camerata dei Bardi esplose non solo tra le mani del divino Claudio Monteverdi, ma vivificò centinaia di compositori, soprattutto in Italia.

La musica, sulla scena, contribuisce a creare spettacoli assolutamente belli, belli pei ché coerenti, belli perché spudorati, perché divertenti, perché artigianalmente sapienti. Pietro Francesco Caletti Bruni (Crema 1602 – Venezia 1676), passato alla storia col cognome del podestà di Crema suo benefattore, Federico Cavalli, è uni dei più fecondi e interessanti musicisti del suo secolo. Il suo teatro in musica è saldamente inserito in un mondo e in uno stile: l’opera veneziana; ma non è mai un mera ripetizione di moduli, è sempre o quasi, espressione di una vivace inventiva, perfetta per il teatro.
È stata una gioia assistere al suo Ormindo, composto nel 1644 su libretto di Giovanni Faustini, come già un piacere era stato assistere alcuni anni fa, proprio qui Spoleto, a una bella edizione della sua Erismena.
Anche questa volta abbiamo avuto la piacevole sensazione di stare a teatro per essere contenti, di ascoltare della buona musica e di partecipare ad un avvenimento pienamente teatrale.
Una dolce favola quella di Ormindo, dolce e priva di moralismi; i sentimenti ci sono, ma sono in bilico tra il bene e il male, tra il ridicolo e la sincerità. Ormindo e Amida, valorosi guerrieri, amano Erisbe, che li ama entrambi e non vuole scegliere tra i due. Ma Erisbe è sposata al re Ariadeno, un vecchissimo sposo, e Amida ha abbandonato la bella Sicle, innamorata di lui. Sicle, sotto mentite spoglie, convince Erisbe a scegliere Ormindo e a fuggire con lui; ma una tempesta getta gli adulteri in mano al re, che ordina che gli adulteri vengano avvelenati. Con la complicità dell’ancella Mirinda, il carceriere Osmano dà agli amanti solo un sonnifero. Quando il re vede i due corpi creduti morti, si pente del suo gesto ed è lieto di apprendere l’inganno. Lascerà il trono alla giovane coppia e benedirà le unioni di Amida e Sicle, Osmano e Mirinda, in un finale di pacificazione e letizia in nome dell’Amore. La musica fluisce ininterrottamente – altro che il superamento dell’aria chiusa e il melodiare cointinuo rovello dei compositori del melodramma dell’ottocento -. Qui, e non solo qui naturalmente, poiché è una caratteristica dello stile, fioriscono recitativi, bizzarri e capricciosi, pieni di sberleffi teatrali, che si dissolvono nell’aria, vi si incuneano; poi l’aria riprende rimanendo però intatta nella sua fisionomia. Un esempio splendido di ciò è l’aria «Piante fiorite», dove la frase melodica in tre tempi è seguita da un breve frammento recitativo, cui segue la ripresa della prima frase. Ma la struttura non è soltanto questa, ve ne sono altre, più articolate: sempre la musica del recitativo accompagna l’azione teatrale, sospingendo gli attori-cantanti (perché guai se non si è buoni attori: non bastano trilli e do di petto) nei gesti e nel fraseggiare; e le melodie delle arie, di una bellezza sempre nuova e intatta, non spezzano mai, l’azione che fluisce, continua. Gli interpreti di questa edizione, guidati magistralmente dal regista Thaddeus Motyka, hanno ben capito che cosa vuol dire cantare e recitare. Ormindo (Ronald Naldi) splendente nella sua voce di tenore, di cui talvolta si compiace, non si è mai però chiuso in esibizionismi gratuiti; un vocalizzo, il suo, preciso e sensuale – la figura più erotica di tutto lo spettacolo – talvolta protervo e maschio, talaltra delicato; superbo nella difficilissima scena dell’esecuzione che, stranamente, aveva un sapore di dramma ottocentesco. Erisbe (Phyllis Hunter) quando entra in scena enuncia il suo carattere con un frase musicalmente precisa e gradevolmente frivola e poi, lungo lo svolgersi di tutta la vicenda troverà molte sfumature alla chiara sua voce, mai sdolcinata, particolarmente bella e ironica nella scena delle rose. Amida (Bill Macfarland) è un baritono dalla voce precisa, piena di ironiche sfumature. Sicle (Sally Mitchell Motyka) si presenta subito con una voce da mezzo soprano lustra e duttile, con efficaci accenti drammatici. Intelligente anche l’interpretazione di Mirinda (Sharon Munden), spiritoso e più corretto il tenore Thomas Poole nel ruolo della vecchia viziosa; buone le prestazioni di tutti gli altri, ma su di esse spicca lo stupendo re Ariadeno (Stephen Markuson), basso che ricorda i mozartiani Sarastro e il Commendatore che sotto la parrucca del personaggio sapeva accennare lievi sberleffi, buona l’azzeccatissima e apocalittica voce di Osmano (il basso Kenneth Bell), Melide (Diana Davidson) dalla forte vocalità e Nerillo un po’ rigido nella sua ingenua ambiguità (Gwendolyn Jones). Perplessi ci ha lasciati l’insieme orchestrale, composto da strumentisti della Festival Orchestra e della Chamber Opera Theatre of New York; abbiamo fatto un vero balzo sulla sedia al primo accordo iniziale, articolato con una specie di arpeggio disposto in modo tale da ricordare Debussy: eravamo terrorizzati da un tale inizio, ci hanno poi lasciati perplessi anche alcune schitarrate dei liuti; la strumentazione ha presentato qualche squilibrio e alcune sonorità dei contrabbassi ricordavano troppo gli strumenti elettrici di musica leggera. Comunque, sia l’orchestra, sia il direttore Hugh Keelan avevano la consapevolezza di essere in teatro e quindi il risultato complessivo è stato efficace. Non soltanto gradevoli, ma anche pieni di fantasia e azzeccati ai personaggi e alle situazioni i costumi e le scene di Beni Montresor, che ha saputo usare con intelligenza e ironia anche tutti quei materiali luccicanti e marchingegni semoventi che troppo spesso sulle scene di teatro sono profusi con dissennatezza e presunzione, alla ricerca di effetti metafisici da palazzo degli specchi. Qui il gioco era lieve e divertito con qualche complicità con lo spettatore chiamato a partecipare a un gioco comune.

6 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

L’ultimo selvaggio
Anche un quartetto d’archi è un’opera di teatro; il musicista che non abbia il senso della scena è meglio che cambi mestiere. Una musica, profonda, ma che trovi il suo significato solo letta in partitura, è acqua fresca. La musica vive nell’esecuzione: una storia di suoni che si raccontano e che raccontano coinvolgendo. Quando però un compositore affronta quello che viene chiamato teatro in musica deve sapere che si accinge a un compito ancora diverso. Abbiamo l’esempio di grandi compositori che quando si sono cimentati con il teatro, in senso stretto, hanno prodotto opere noiose, antiteatrali. Non basta, in questi casi, la sapienza compositiva, avere profonde idee musicali e una grande capacità di orchestrazione. Giancarlo Menotti è un artista che ha un innato senso del teatro. Prima di parlare del suo «L’ultimo selvaggio» e dell’esecuzione che ne è stata data nella prima del sette luglio al Teatro Nuovo di Spoleto, vogliamo dire che in tutti i suoi lavori di teatro musicale, per i quali scrive spesso anche il libretto, la sua capacità di coinvolgere scena e golfo mistico in un unico discorso e di catturare il pubblico, portandolo fin dentro alla storia, è eccezionale.
Il teatro deve vivere nel momento magico della rappresentazione: guai a quegli autori che si capiscono solo dopo. Dopo si potrà approfondire e si potranno cogliere gli ulteriori e lontani significati, ma il gioco si deve giocare lì, sulla scena, quella sera, tutti insieme.
«L’ultimo selvaggio», libretto e musica di Giancarlo Menotti, fu commissionato, circa trent’anni fa, dall’Opéra di Parigi e andò in scena per la prima volta, in francese, all’Opéra Comique nell’ottobre del 1963; nel gennaio dell’anno successivo fu rappresentato, in inglese, al Metropolitan di New York; e finalmente in italiano, la lingua cioè in cui era stato scritto il libretto originale, alla Fenice di Venezia nel maggio del ‘64.
E’ un’opera buffa, con tutte le caratteristiche di umoristico dinamismo tipiche di questo genere teatrale, sebbene non siano assenti pagine di poetica tenerezza. La trama a noi sembra molto semplice e le situazioni sceniche richiamano, volutamente, moduli teatrali tipici dal settecento ad oggi. L’ironia è talvolta sottile, talaltra l’umorismo è irresistibile: un miliardario americano e un maragià indiano vorrebbero, per motivi di interesse, combinare un matrimonio tra i rispettivi figli; ma la ragazza americana è un’antropologa che non vuole sposarsi se prima non ha trovato l’ultimo selvaggio, essere primitivo sulla cui esistenza lei gioca le sue carte accademiche. Per accorciare i tempi, si decide, per consiglio della maharani, madre del ragazzo, di fabbricare su misura un finto selvaggio, trovato nella persona di Abdul, un rozzo stalliere innamorato di Sardula, ancella di corte, di cui è però innamorato il figlio del maragià. Abdula viene convinto a prestarsi al gioco per denaro e per amore di Sardula. L’americana, vuole anche, prima di sposarsi, educare il selvaggio e presentarlo al mondo scientifico e alla società salottiera occidentale. Il finto selvaggio, che lentamente si sta innamorando della giovane scienziata, si ribella però alla mentalità frivola e crudele della civiltà moderna e fugge nella giungla. La ragazza, ostinata, lo insegue, e non vuole credere al padre che le confessa l’imbroglio. Il caso vuole che, durante le ricerche, il padre dell’antropologa e la maharani scoprano di essersi amati, giovanissimi, in Egitto, e che il figlio, creduto del maragià è, in realtà, figlio dell’americano, e quindi fratellastro della ragazza, per cui un loro matrimonio sarebbe incestuoso! A questo punto, i sentimenti possono esprimersi e l’azione volgere al fine: l’ancella Sardula sposerà il figlio del maragià e la ragazza americana vivrà con il suo selvaggio, nella foresta, in una grotta che l’astuzia femminile ha provveduto a dotare di tutti i comforts della civiltà: frigorifero e televisione, aspirapolvere e vasca da bagno rosa.
L’ouverture inizia con un piglio sapido, come è di prammatica nell’opera buffa: belle melodie che si rincorrono, graziose e burlesche, e confluiscono poi in un finale con timpani, orientaleggiante. In tutta l’opera è presente un modulo compositivo che noi abbiamo trovato di irresistibile efficacia, anche se non sappiamo bene il perché: ogni melodia cantata, dopo pochissime battute si ripete, in genere tale quale, più raramente capovolgendo o variando alcune note dell’iterazione; poi la melodia prende l’abbrivio e si dipana, ritmica, burlesca, tenera, distesa, eccetera, a seconda delle situazioni emotive che deve rappresentare. La grande sapienza teatrale è evidente anche nei lunghi brani in cui le voci cantano, e talvolta declamano, senza il benché minimo sostegno orchestrale, e gli strumenti, al gran completo e a gruppetti, rispondono, si insinuano nei silenzi, fanno capriole o ammiccano; poi si uniscono alla melodia cantata, in impasti gradevolissimi.
Lo zampillare melodico è continuo: l’abilità inventiva è straordinaria e l’orecchio ha sempre qualcosa di interessante da seguire. Abbiamo già detto che, secondo noi, Menotti è spudorato; quest’opera conferma la nostra asserzione: non si nasconde mai dietro ai fumi di astrusità erudite; è tutto lì, sulla scena, che agisce a carte scoperte. Le melodie solistiche, i duetti, i trii, i concertati, si susseguono gli uni agli altri; ma la bellezza e l’inventiva non sono mai fini a se stesse. Ogni personaggio ha musicalmente una fisionomia ben precisa ed uno sviluppo psicologico.

La maharani (il mezzo soprano Ambra Vespasiani) si presenta, dapprima, grassa e un po’ immota, quasi una santona. Le prime frasi le dice con un melodiare compassato; poi, lentamente, scoprirà la sua vena di affarista astuta e avida, come nella bellissima scena delle quotazioni di borsa, con il coro di vestali sullo sfondo; finché la musica a lei assegnata diviene un po’ laida e sensuale, quando ricorda le sue avventure in Egitto. Kitty (il soprano Marina Bolgan) è disegnata da una musica un po’ fredda, da saputella.
Tenera e virile la musica del selvaggio (il baritono Louis Otey). Prima un po’ impacciata, poi robusta quella del principe (il tenero William Livingston), che riesce a rivelare tutta la sua personalità nell’aria, bella, ampia e di solida fattura «Chiamatemi vile, chiamatemi folle». Giustamente simili, con accenni di sonorità orchestrali che li differenziano, i due padri (i bassi-baritoni Françoise Loup, il maragià e Gianni Vanzelli, l’americano). Le melodie dell’ancella (il soprano Cristina Rubin) sono di una piacevolezza impareggiabile: è una seduttrice e una furba e canta arie astute e seduttorie. Non possiamo, a questo punto, non ricordare la splendida scena della presentazione in società del selvaggio; veramente spiritosa la presa in giro di molte espressioni della nostra cultura: i religiosi che avanzano su di un accennato e umoristico contrappunto; gli artisti, gli scienziati, i politici, i filosofi, tronfi e vacui; il poeta e il pittore. Eccezionale è la presentazione del compositore di musica; qui Menotti ha scritto un brano, brevissimo ma cattivissimo; nella sua perfidia, in non molte battute, dimostra di essere in grado di comporre benissimo secondo lo «stile» contemporaneo; poi con uno sberleffo dice: ma chi se ne frega! I parrucconi non potranno mai perdonarglielo. Presi complessivamente, gli interpreti sono stati tutti all’altezza dei loro compiti. Potremmo trovare, qua e là, qualche slabbratura o qualche incertezza in alcuni passaggi virtuosistici; ma tutti, anche il coro, diretto da Glenn Parker, cantavano e recitavano dando al pubblico la sensazione di divertirsi.
L’orchestra, come abbiamo già fatto notare, usata magistralmente, è stata guidata con scattante precisione da Baldo Podic. Le scene e i costumi, di Beni Montresor, gradevoli e astutamente accattivanti, con un uso sapiente dei colori vivaci: azzurri e rosa, gialli e verdi di un’India e un’America ironicamente da fumetto. Alla fine: applausi e applausi. Come di consueto, dopo tutti gli interpreti, se si trova dietro le quinte, viene in scena anche il compositore: quando comparve Menotti, un giovane orchestrale salì sul podio e l’orchestra iniziò: Tanti auguri a te… Si unirono i cantanti, il coro, il pubblico e anche noi, naturalmente: era la sera del suo compleanno.

5 – Luglio ‘84

domenica, 1 luglio 1984

Indubbiamente, Mamma, buona notte! Night, mother! di Marsha Norman, premio Pulitzer 1983, possiede una sua forza drammatica, ma con due caratteristiche: la prima è una evidente mancanza di professionalità teatrale dell’autrice, la seconda è la trivialità. La mancanza di mestiere è evidente nella struttura stessa del copione, costruito nella più assoluta staticità e, ancor peggio, sulla ripetitività monotona e scialba delle battute. Dopo un brevissimo dialogo tra una vecchia madre e la figlia, su argomenti di vita quotidiana, ecco la rivelazione-chiave su cui si regge il tutto: la figlia, trovata la pistola del padre defunto, dichiara la sua intenzione di uccidersi quella sera stessa. Per tutto lo spettacolo, che non ha neppure l’intervallo – e questo è giusto – questa perfidissima figlia, epilettica e depressa, ripeterà monotonamente alla madre, e agli spettatori, che tanto lei di lì a poco si ucciderà, inframezzando questa minaccia con un serie di piccole raccomandazioni sull’andamento delle faccende quotidiane. La madre, ovviamente, si dispera, però viene fuori che è una cattivona anche lei.

In un dialogo infarcito di squallido umorismo, che ricorda molto i moduli del chiacchiericcio di maniera teatrale dell checche, vengono più volte ripetute tutte le ovvietà, persino quelle di alcuni banali schemi psicoanalitici.
Certamente, sentirsi ripetere per un’ora e mezzo: – Marameo, tanto adesso io mi uccido – turba, annoia, irrita, angoscia e quindi coinvolge. Su questo fastidio l’autrice ha puntato tutte le sue carte: infatti, nessuno potrebbe resistere indifferente per tanto tempo chiuso in una stanza in cui c’è anche un cadavere in putrefazione, ma questo non è detto che sia, di per sé, una buona idea teatrale. Questo testo è in realtà un ingombrante cadavere. La trivialità è il di più aggiunto sottilmente che va da battute goliardiche, come quella sulla carta igienica, ad altre di volgare sentimentalismo da rotocalco. Riportiamo a memoria: Figlia: – Dai a Ricky (il figlio della figlia, drogato) il mio orologio. – Madre: – Lo venderà per comprarsi la droga. – Figlia: – Speriamo che almeno sia di quella buona. –
Due donne cattive che si sbranano.
Su tutto questo grandeggia la straordinaria abilità di attrice di Lina Volonghi; siamo rimasti affascinati ed entusiasti: quelle povere insulse battute acquistavano potenza drammatica per suo merito. Secondo noi, è lei la vera autrice del testo che va rappresentando, con la sua voce, i suoi gesti. La potenzialità drammatica dell’idea iniziale vive e si costruisce nella sua splendida recitazione e in null’altro.

Giulia Lazzarini, nella parte della figlia, ha la gran fortuna di avere in realtà due sole battute da dire e di doverle dire sempre uguali: ci riesce benissimo. La regia di Carlo Battistoni non poteva che limitarsi ad assegnare certi spazi di azione nella scenografia, doverosamente simbolica e realista ad un tempo, di Mario Garbuglia. Lo stesso testo è stato offerto in lingua originale nella interpretazione delle attrici statunitensi Kathy Bates, la figlia, e Anna Pitoniak, la madre, con la regia di Tom Moore, nella scenografia ancora curata da Mario Garbuglia. L’idea registica ci è parsa questa: un inizio con poca tensione e poi, lentamente, la rapidità dell’azione si allentava, si allungavano le pause, per arrrivare al finale urlato. Però la madre risultava non essere altro che una Mary Poppins dalla recitazione televisiva e dalla mimica convezionale. La figlia, per quasi tutta la vita, ha detto le battute con assoluta piatta monotonia, come se leggesse; solo ogni tanto, quasi a casaccio, una battuta stentorea, nell’intenzione forse di accentuare la drammaticità; e poi gli strilli finali. Non possiamo neppure paragonare la Pitoniak alla Volonghi e, al confronto con la Bates, la Lazzarini era una girandola di sottili e sempre nuove idee teatrali.