6 – Luglio & Agosto ‘84

luglio , 1984

Concerto aperitivo di lunedì 2 luglio
Il primo dei tre concerti-aperitivo a cura di Giancarlo Menotti comprendeva musiche di Chopin, Brahms, Fauré e Prokofiev. Gli interpreti erano tutti giovani, però già professionalmente preparati. Il pianista Alessandro De Luca ha eseguito la fantasia opera 49 di F. Chopin con appassionata energia: gli consiglieremmo però di usare con più parsimonia il pedale. In Sarcasm di Prokofiev, lo abbiamo sentito più rilassato e anche diverito: ci ha invitato a fare con lui graziose capriole, piombando spesso su gradevoli e piccanti armonie. Il concerto è proseguito con cinque meravigliosi lieder di Brahms, dalle melodie di intatta perfezione e cinque canti di Fauré, gradevolissimi, sebbene più superficiali. La bella e virile voce di Maarten Koningsberger ha eseguito i dieci brani con maestria e attenzione, talvolta ci è sembrato un po’ stupefatto. La sonata in re maggiore opera 94 di Prokofiev, per violino e pianoforte è stata suonata dalla violinista Sarah Johnson, impeccabile nel suo fraseggiare preciso e dalla buona intonazione, accompagnata dal pianista Cliff Jackson, corretto e leggermente sbarazzino, che già aveva accompagnato l’esecuzione dei precedenti lieder.

6 – luglio-agosto 84 – Spoleto
Concerto aperitivo di martedì 3 luglio

I1 concerto aperitivo ci ha fatto incontrare ancora una volta una nostra passione: la bellissima voce del mezzosoprano Katherine Ciesinski, che qui a Spoleto, oltre che nell’Arianna si è esibita in più di uno di questi concerti di mezzogiorno. Questa volta ha eseguito, dalla Esther di Händel, l’aria «Praise the Lord with cheerful noise»; come al solito, la sua interpretazione è stata, oltre che musicalmente valida, anche emotivamente intensa: si calava nelle note basse con grazia e disivoltura impareggiabili; impeccabile l’accompagnamento di Masuko Ushioda, al violino; Anner Bylsma, al violoncello, e John Gibbon al clavicembalo, strumenti qui non relegati in funzioni di puro sostegno armonico. In tutt’altro clima siamo entrati con il brilante e virtuosistico brano per chitarra sola di Julio Segrera, intitolato «Il colibrì», eseguito da Eliot Fisk. Il chitarrista si è poi cimentato con Paula Robison al flauto in una trascrizione per i due strumenti delle canzoni popolari spagnole di Manuel De Falla, in origine per canto e pianoforte. Le calde e malinconiche melodie spagnolesche si adattavano assai bene al flauto, che le ha esposte deliziosamente; la chitarra ha faticato di più a riprodurre le armonie pianistiche, ma, tutto sommato, se l’è cavata bene. Un vero incanto il quartetto per archi numero 1 di Bartok, del 1908. Un lungo, unico, discorso musicale, compatto, mai monotono o rigido. All’inizio un melodiare di intervalli discendenti e ascendenti che invitano alla meditazione. Si passa poi atraverso molte situazioni armoniche ed emotive: per tutta la composizione gli strumenti si coagulano in tensioni drammatiche che si sciolgono e si riformano. Si pot:rebbe parlarne a lungo, ma tagliamo corto e diciamo soltanto che l’esecuzione del Muir Quartet è stata perfetta.

6 – luglio-agosto 84 – Spoleto
Concerto aperitivo di venerdì 6 luglio

Vi è un modo ufficiale di interpretare Debussy, è quello di stemperare i suoi pensieri musicali in una nebbia impalpabile, dai contorni sempre indefiniti e indefinibili; anche i momenti di forza vengono conseguiti stingendo i colori armonici gli uni negli altri. Indubbiamente il linguaggio di Debussy non ha una logica immediatamente comprensibile: meravigliosi accordi si concatenano gli uni agli altri, come nelle libere associazioni mentali: sono retti da motivazioni difficilmente leggibili; un’analisi accurata, proprio come nella tecnica psicoanalitica, spesso riesce a mettere a nudo le motivazioni armoniche; ma non sempre è possibile fare ciò; rimane la bellezza di un discorso ambiguo. Allora è meglio evidenziare i riflessi di acque e di specchi. L’interpretazione che Bruno Canino – prima vogliamo parlare di lui – ha dato di Debussy, sia nella sonata per violoncello e pianoforte, sia da solo, nei meravigliosi quattro preludi dal secondo libro, ha scelto un’altra strada: la musica viene fuori sì fluida – le mani del pianista non conoscono intoppi – ma robusta, e le macchie di colore sono staccate, con le nervature e le suture ben visibili; niente nebbioline, tutto è chiaro. Va perduto qualcosa di Debussy? Noi pensiamo di no il grande compositore francese può essere letto anche in questo modo. Rocco Filippini, col suo violoncello si è ben adeguato a Canino. Il pianista solo ha impastato poi con vigoria non priva di aridità le note del tema con variazioni opera 73 di G. Fauré, dandone un’esecuzione corretta, ma un po’ vuota. Ha trovato invece segni di sensuale ancheggiamento nella spagnolesca danza di Ravel. Un giovane Chopin ha infine permesso al violoncello di Filippini di cantare le belle melodie di buona fattura dell’Introduzione e polacca brillante opera 3; il pianoforte, ovviamente importante, ha saputo adattarsi con un dolce virtuosismo, stemperando ogni asperità.

Westminster Choir
A Spoleto, ogni anno, arriva un gruppo di ragazzi e ragazze. Sono più o meno bellocci e tutti giovani, per le strade ridono forte, li abbiamo visti nelle osterie mangiare e bere cose incredibili; ma la musica la sanno eseguire a dovere: sono i ragazzi e le ragazze del coro e dell’orchestra dello statunitense Westminster College, diretti da Joseph Flummerfelt. Sotto il porticato del Duomo, alle sei del pomeriggio, in una serie di concerti, hanno eseguito i corali di Bach. La melodia del corale incede col suo passo misurato e sempre uguale, che la sublime e delicatissima struttura armonica incastona perfettamente; tra quelle antiche pietre, le giovani voci ne hanno offerto una esecuzione di una precisione ammirevole. Tutti insieme, con i solisti e l’orchestra, si sono esibiti, venerdì 6 luglio, alle 18, all’interno della cattedrale, in un bel concerto che comprendeva musiche di Händel, Randall Thompson e Mozart. Tutte le chiese hanno un’acustica bizzarra, il duomo di Spoleto detesta le voci e ama il suono degli strumenti. Nonostante eco e vibrazioni che zampillavano un po’ dappertutto, l’orchestra era chiaramente percepibile, le voci del coro risultavano confuse ma misticamente emozionanti; i solisti, invece, poveretti, se avessero potuto sentirsi si sarebbero vergognati: risultavano – senza loro colpa – emettere solo metalliche e frammentarie sonorità. Questo, purtroppo, è accaduto nella esecuzione della Messa della incoronazione K. 317, di W.A. Mozart. A questo punto i Farfalloni si lamentano pubblicamente: a Spoleto si esegue troppo poco Mozart; ciò non solo è grave: è gravissimo; anzi, non è gravissimo: è un delitto. Dello splendore mistico e profano di questa messa non abbiamo tempo e spazio per parlare qui. A parte gli ingiudicabili soli, l’orchestra si è rivelata compatta ed equi librata, e il coro, pur tra la nebbia, preci so. Piacevolissimi i brani da «Frostian» di R. Thompson, soprattutto il secondo nel dialogo tra il flauto solista e le voc femminili. Splendente nel suo solito contrappunto, che però valorizza sempre la melodia, la «Coronation Anthem» d Händel. Ma guarda un po’: abbiamo cominciate dalla fine!
Concerto Casagrande

Terni ha avuto tra i suoi cittadini un solido compositore: Alessandro Casagrande, scomparso nel 1964. Alla sua memoria è stato instituito un premio pianistico. L’anno scorso ha vinto il secondo premio – il premio non è stato assegnato – il pianista ventitreenne, di nazionalità ungherese, Balazs Szokolay, il quale ha vinto anche un ulteriore premio assegnato al migliore interprete delle composizioni di Casagrande. Sabato pomeriggio, arrivammo trafelati al Caio Melisso: temevamo di essere in ritardo, ma trovammo invece le porte del teatro ancora chiuse. Il pubblico, fuori, rumoreggiava, anche noi eravamo un po’ impazienti, perché vista l’ampiezza del programma, temevamo di non fare in tempo per la prima dell’Ultimo selvaggio. Il concerto iniziò, finalmente, con mezz’ora di ritardo, tra il nervosismo di tutti e crediamo anche del pianista. Dapprima furono eseguite due Sonate di Domenico Scarlatti. Nella famosissima sonata in mi maggiore L. 23, dal pianoforte uscì un bel suono, rotondo e chiaro; l’esecuzione fu stilisticamente corretta; anche le impennate ritmiche non diedero luogo a slabbrature; le mani erano tenute sotto controllo. Soltanto un’eccessiva variazione ritmica alterò, purtroppo, l’esecuzione delle ultime due frasi della breve sonata. Meno misurata fu l’interpretazione della sonata in mi minore L. 22; troppo accentuati i crescendo e diminuendo, che disturbano l’esecuzione pianistica di Scarlatti. Finalmente, il giovane pianista poté tuffarsi in una musica a lui più congeniale, un brano scritto proprio per pianoforte da un compositore romantico: la sonata in do maggiore di Beethoven, la Wallenstein. Veramente splendido l’inizio. Si percepiva sotto gli accordi robusti, un fuoco che stava per divampare; e così fu, per tutto il primo tempo. Forse proprio per questo risultò un po’ troppo accentuato l’aspetto virtuosistico; ma il suono rimaneva bello; e perfetto l’equilibrio delle due mani. La seconda parte, con quel suo inizio meditativo e trattenuto, fu esposta sapientemente; una vera abilità istrionica fu dimostrata nel preparare l’avvento squillante della melodia; e poi il fuoco poté divampare: sembrava che si dovesse scaricare una tensione troppo a lungo accumulata. Nonostante le intemperanze, tutta la sonata di Beethoven fu eseguita in modo veramente magistrale. Sugli applausi scroscianti noi dovemmo uscire, perché era troppo tardi, perciò non possiamo dire nulla su come fu eseguito il resto del programma. Consigliamo soltanto al bravissimo ungherese di non eseguire mai musiche di compositori che non abbiano conosciuto Bartolomeo Cristofori.