6 – Luglio ‘84

luglio , 1984

L’ultimo selvaggio
Anche un quartetto d’archi è un’opera di teatro; il musicista che non abbia il senso della scena è meglio che cambi mestiere. Una musica, profonda, ma che trovi il suo significato solo letta in partitura, è acqua fresca. La musica vive nell’esecuzione: una storia di suoni che si raccontano e che raccontano coinvolgendo. Quando però un compositore affronta quello che viene chiamato teatro in musica deve sapere che si accinge a un compito ancora diverso. Abbiamo l’esempio di grandi compositori che quando si sono cimentati con il teatro, in senso stretto, hanno prodotto opere noiose, antiteatrali. Non basta, in questi casi, la sapienza compositiva, avere profonde idee musicali e una grande capacità di orchestrazione. Giancarlo Menotti è un artista che ha un innato senso del teatro. Prima di parlare del suo «L’ultimo selvaggio» e dell’esecuzione che ne è stata data nella prima del sette luglio al Teatro Nuovo di Spoleto, vogliamo dire che in tutti i suoi lavori di teatro musicale, per i quali scrive spesso anche il libretto, la sua capacità di coinvolgere scena e golfo mistico in un unico discorso e di catturare il pubblico, portandolo fin dentro alla storia, è eccezionale.
Il teatro deve vivere nel momento magico della rappresentazione: guai a quegli autori che si capiscono solo dopo. Dopo si potrà approfondire e si potranno cogliere gli ulteriori e lontani significati, ma il gioco si deve giocare lì, sulla scena, quella sera, tutti insieme.
«L’ultimo selvaggio», libretto e musica di Giancarlo Menotti, fu commissionato, circa trent’anni fa, dall’Opéra di Parigi e andò in scena per la prima volta, in francese, all’Opéra Comique nell’ottobre del 1963; nel gennaio dell’anno successivo fu rappresentato, in inglese, al Metropolitan di New York; e finalmente in italiano, la lingua cioè in cui era stato scritto il libretto originale, alla Fenice di Venezia nel maggio del ‘64.
E’ un’opera buffa, con tutte le caratteristiche di umoristico dinamismo tipiche di questo genere teatrale, sebbene non siano assenti pagine di poetica tenerezza. La trama a noi sembra molto semplice e le situazioni sceniche richiamano, volutamente, moduli teatrali tipici dal settecento ad oggi. L’ironia è talvolta sottile, talaltra l’umorismo è irresistibile: un miliardario americano e un maragià indiano vorrebbero, per motivi di interesse, combinare un matrimonio tra i rispettivi figli; ma la ragazza americana è un’antropologa che non vuole sposarsi se prima non ha trovato l’ultimo selvaggio, essere primitivo sulla cui esistenza lei gioca le sue carte accademiche. Per accorciare i tempi, si decide, per consiglio della maharani, madre del ragazzo, di fabbricare su misura un finto selvaggio, trovato nella persona di Abdul, un rozzo stalliere innamorato di Sardula, ancella di corte, di cui è però innamorato il figlio del maragià. Abdula viene convinto a prestarsi al gioco per denaro e per amore di Sardula. L’americana, vuole anche, prima di sposarsi, educare il selvaggio e presentarlo al mondo scientifico e alla società salottiera occidentale. Il finto selvaggio, che lentamente si sta innamorando della giovane scienziata, si ribella però alla mentalità frivola e crudele della civiltà moderna e fugge nella giungla. La ragazza, ostinata, lo insegue, e non vuole credere al padre che le confessa l’imbroglio. Il caso vuole che, durante le ricerche, il padre dell’antropologa e la maharani scoprano di essersi amati, giovanissimi, in Egitto, e che il figlio, creduto del maragià è, in realtà, figlio dell’americano, e quindi fratellastro della ragazza, per cui un loro matrimonio sarebbe incestuoso! A questo punto, i sentimenti possono esprimersi e l’azione volgere al fine: l’ancella Sardula sposerà il figlio del maragià e la ragazza americana vivrà con il suo selvaggio, nella foresta, in una grotta che l’astuzia femminile ha provveduto a dotare di tutti i comforts della civiltà: frigorifero e televisione, aspirapolvere e vasca da bagno rosa.
L’ouverture inizia con un piglio sapido, come è di prammatica nell’opera buffa: belle melodie che si rincorrono, graziose e burlesche, e confluiscono poi in un finale con timpani, orientaleggiante. In tutta l’opera è presente un modulo compositivo che noi abbiamo trovato di irresistibile efficacia, anche se non sappiamo bene il perché: ogni melodia cantata, dopo pochissime battute si ripete, in genere tale quale, più raramente capovolgendo o variando alcune note dell’iterazione; poi la melodia prende l’abbrivio e si dipana, ritmica, burlesca, tenera, distesa, eccetera, a seconda delle situazioni emotive che deve rappresentare. La grande sapienza teatrale è evidente anche nei lunghi brani in cui le voci cantano, e talvolta declamano, senza il benché minimo sostegno orchestrale, e gli strumenti, al gran completo e a gruppetti, rispondono, si insinuano nei silenzi, fanno capriole o ammiccano; poi si uniscono alla melodia cantata, in impasti gradevolissimi.
Lo zampillare melodico è continuo: l’abilità inventiva è straordinaria e l’orecchio ha sempre qualcosa di interessante da seguire. Abbiamo già detto che, secondo noi, Menotti è spudorato; quest’opera conferma la nostra asserzione: non si nasconde mai dietro ai fumi di astrusità erudite; è tutto lì, sulla scena, che agisce a carte scoperte. Le melodie solistiche, i duetti, i trii, i concertati, si susseguono gli uni agli altri; ma la bellezza e l’inventiva non sono mai fini a se stesse. Ogni personaggio ha musicalmente una fisionomia ben precisa ed uno sviluppo psicologico.

La maharani (il mezzo soprano Ambra Vespasiani) si presenta, dapprima, grassa e un po’ immota, quasi una santona. Le prime frasi le dice con un melodiare compassato; poi, lentamente, scoprirà la sua vena di affarista astuta e avida, come nella bellissima scena delle quotazioni di borsa, con il coro di vestali sullo sfondo; finché la musica a lei assegnata diviene un po’ laida e sensuale, quando ricorda le sue avventure in Egitto. Kitty (il soprano Marina Bolgan) è disegnata da una musica un po’ fredda, da saputella.
Tenera e virile la musica del selvaggio (il baritono Louis Otey). Prima un po’ impacciata, poi robusta quella del principe (il tenero William Livingston), che riesce a rivelare tutta la sua personalità nell’aria, bella, ampia e di solida fattura «Chiamatemi vile, chiamatemi folle». Giustamente simili, con accenni di sonorità orchestrali che li differenziano, i due padri (i bassi-baritoni Françoise Loup, il maragià e Gianni Vanzelli, l’americano). Le melodie dell’ancella (il soprano Cristina Rubin) sono di una piacevolezza impareggiabile: è una seduttrice e una furba e canta arie astute e seduttorie. Non possiamo, a questo punto, non ricordare la splendida scena della presentazione in società del selvaggio; veramente spiritosa la presa in giro di molte espressioni della nostra cultura: i religiosi che avanzano su di un accennato e umoristico contrappunto; gli artisti, gli scienziati, i politici, i filosofi, tronfi e vacui; il poeta e il pittore. Eccezionale è la presentazione del compositore di musica; qui Menotti ha scritto un brano, brevissimo ma cattivissimo; nella sua perfidia, in non molte battute, dimostra di essere in grado di comporre benissimo secondo lo «stile» contemporaneo; poi con uno sberleffo dice: ma chi se ne frega! I parrucconi non potranno mai perdonarglielo. Presi complessivamente, gli interpreti sono stati tutti all’altezza dei loro compiti. Potremmo trovare, qua e là, qualche slabbratura o qualche incertezza in alcuni passaggi virtuosistici; ma tutti, anche il coro, diretto da Glenn Parker, cantavano e recitavano dando al pubblico la sensazione di divertirsi.
L’orchestra, come abbiamo già fatto notare, usata magistralmente, è stata guidata con scattante precisione da Baldo Podic. Le scene e i costumi, di Beni Montresor, gradevoli e astutamente accattivanti, con un uso sapiente dei colori vivaci: azzurri e rosa, gialli e verdi di un’India e un’America ironicamente da fumetto. Alla fine: applausi e applausi. Come di consueto, dopo tutti gli interpreti, se si trova dietro le quinte, viene in scena anche il compositore: quando comparve Menotti, un giovane orchestrale salì sul podio e l’orchestra iniziò: Tanti auguri a te… Si unirono i cantanti, il coro, il pubblico e anche noi, naturalmente: era la sera del suo compleanno.