5 – Luglio ‘84

luglio , 1984

Eugenio Onieghin
La danza è un’espressione antica quanto l’uomo. Nel ventre materno, il bambino percepisce il pulsare del corpo della madre e l’ondeggiare dei suoi passi dei suoi movimenti. Questo è danza. Danzanti sono i gesti che i corpi compiono intrecciandosi nel rapporto sessuale: la danza ha bisogno di un corpo e di un ritmo, cioè dell’alternarsi periodico di suoni e silenzi che si confondono in un’unica realtà espressiva; ogni gesto umano tende a raccontare qualcosa, quindi anche il gesto del la danza.

La religione ha da sempre espresso i suo riti attraverso la danza, sia la religione pagana sia quella cristiana; poi la danza si è spostata sulle scene; ma è rimasta espressione di gesti significanti, una forma di espressione immediata e diretta, di tutti in tante occasioni.

Nella danza, dalla notte dei tempi, avviene che il corpo fonda il suo ritmo cor quello di un linguaggio musicale. Oggi diventato essenziale, sebbene in passato non fosse necessariamente così, perché la danza sia considerata tale, che sia assente l’abbinamento con la parola: per il bisogno di concentrare tutta l’attenzione su gesti e suoni che la civiltà della parola ha sempre un po’ negletto. In questo senso la danza è la migliore confutazione delle teorie di Jacques Lacan: il gesto del linguaggio parlato non è né più antico né più profondo di altri tipi di linguaggio. Non ci interessa qui disquisire su quale sia la migliore espressione danzante, se quella degli antichi, quella neoclassica di Isadora Duncan, o quella piroettante del corpo irrigidito nella contrazione del polpaccio e della caviglia, fondamentale resta l’assenza della parola. Questa castrazione, una volta tanto, é, per gli uomini di oggi, terapeutica! II corpo umano comunica unito al ritmico pulsare del linguaggio musicale; ciò che non deve mai accadere è che il corpo si muova e la musica lo accompagni: il gesto deve essere unitario, in una fusione di elementi che coinvolgano anche lo spettatore. Questa unione si è realizzata nell’Onieghin, messo in scena al Teatro Nuovo dallo Stuttgarter Ballet, balletto in tre atti e sei quadri di John Cranko, tratto da Aleksandr Puskin, e dalle musiche dell’omonima opera di Piotr Il’ic Ciaikovski arrangiate da Kurt Hein; Stolze.

Cranko, danzatore e coreografo di origine sudafricana, morto nel 1973, lavorò prima a Città del Capo e poi in America e in Europa, soprattutto a Stoccarda, dove ebbe, nel 1965 l’idea di questo balletto. Estrapolare semplicemente le musiche dell’opera di Ciaikovski non sembrò sufficientemente agevole, furono quindi rielaborati ed orchestrati in funzione del balletto anche altri brani dello stesso compositore; questo lavoro di ricucitura e di collage fu affidato a Stolze che riuscì ad amalgamare il tutto con estrema sapienza: l’orchestrazione è accurata, gli strumenti spesso sono usati solisticamente e le piacevoli melodie di Ciaikovski risaltano magistralmente, quasi ipnotizzando con la loro semplice e sensuale bellezza. La storia di Eugenio Onieghin, che Puskin scrisse in un romanzo in versi del 1833 racconta le vicende di un arido giovane russo aristocratico incapace di apprezzare i valori dell’amicizia e di un amore semplice, il quale giunge per leggerezza a uccidere il suo migliore amico, dopo averne provocato la gelosia e a perdere l’amore tardivamente apprezzato. In una scenografia che, col variare dei quadri manteneva una semplice chiarezza naturalistica, realizzata da Júrgen Rose, i danzatori andavano svolgendo i temi coreografici di Cranko con grazia e scioltezza guidati dalle musiche eseguite dalla Spoleto Festival Orchestra diretta da Michael Collins, il quale ha diretto egregiamente, valorizzando tutto quello che c’era da valorizzare: misurato, ritmicamente preciso, mai rigido. II fluire della musica di Ciaikovski scivolava nel teatro e carezzava la pelle un po’ sudata degli spettatori. Un ottima resa quella dell’orchestra, quasi sempre, tranne in un punto: quando, chissà perché, la sezione degli archi ha avuto una imprecisione di intonazione (i professori certamente se ne sono accorti). Nei sei quadri in cui si articola il racconto, i corpi dei danzatori, si sono, appunto, fusi col discorso musicale. In un balletto non soltanto bisogna ascoltare l’orchestra e guardare i ballerini, ma bisogna ascoltare anche questi ultimi: come fanno vibrare e risuonare l’impiantito della scena; se il rumore viene fuori slabbrato e del tutto avulso dal discorso musicale, siate certi che c’è qualcosa che non funziona; così se i tonfi sono troppo pesanti e cadono in un punto non significante per l’orchestra i gesti e le piroette. O è tutto un solo congegno che si muove e suona o il tutto è gratuito e inefficace. Nella realizzazione cui abbiamo assistito i corpi cantavano con ritmo e buona intonazione, sia nelle parti di insieme, a due o solistiche. La coppia Onieghin-Tatiana (Vladimir Klos Birgit Keil) è stata di grande precisione di disegno e leggerezza di movimenti, con ottima sensibilità interpretativa in un crescendo sapiente dai primi volteggi leggeri del corteggiamento, in cui era ben evidenziata anche la frivolezza di Onieghin fino al drammatico finale, solo un po’ intralciato dalla ripetitività di alcune figure a due da un simbolismo un po’ingenuo. Un piccolo capolavoro la scena del sogno, dove anche lo scontato gioco dello specchio ha acquistato per merito dei due esecutori dignità coreografica e fascino suggestivo. L’effetto coreografico è forse stato danneggiato in alcune scene d’insieme da uno spazio scenico angusto. Nonostante il caldo, il pubblico, piuttosto indisciplinato, ha saputo poi applaudire con «calore».