5 – Luglio ‘84

luglio , 1984

Indubbiamente, Mamma, buona notte! Night, mother! di Marsha Norman, premio Pulitzer 1983, possiede una sua forza drammatica, ma con due caratteristiche: la prima è una evidente mancanza di professionalità teatrale dell’autrice, la seconda è la trivialità. La mancanza di mestiere è evidente nella struttura stessa del copione, costruito nella più assoluta staticità e, ancor peggio, sulla ripetitività monotona e scialba delle battute. Dopo un brevissimo dialogo tra una vecchia madre e la figlia, su argomenti di vita quotidiana, ecco la rivelazione-chiave su cui si regge il tutto: la figlia, trovata la pistola del padre defunto, dichiara la sua intenzione di uccidersi quella sera stessa. Per tutto lo spettacolo, che non ha neppure l’intervallo – e questo è giusto – questa perfidissima figlia, epilettica e depressa, ripeterà monotonamente alla madre, e agli spettatori, che tanto lei di lì a poco si ucciderà, inframezzando questa minaccia con un serie di piccole raccomandazioni sull’andamento delle faccende quotidiane. La madre, ovviamente, si dispera, però viene fuori che è una cattivona anche lei.

In un dialogo infarcito di squallido umorismo, che ricorda molto i moduli del chiacchiericcio di maniera teatrale dell checche, vengono più volte ripetute tutte le ovvietà, persino quelle di alcuni banali schemi psicoanalitici.
Certamente, sentirsi ripetere per un’ora e mezzo: – Marameo, tanto adesso io mi uccido – turba, annoia, irrita, angoscia e quindi coinvolge. Su questo fastidio l’autrice ha puntato tutte le sue carte: infatti, nessuno potrebbe resistere indifferente per tanto tempo chiuso in una stanza in cui c’è anche un cadavere in putrefazione, ma questo non è detto che sia, di per sé, una buona idea teatrale. Questo testo è in realtà un ingombrante cadavere. La trivialità è il di più aggiunto sottilmente che va da battute goliardiche, come quella sulla carta igienica, ad altre di volgare sentimentalismo da rotocalco. Riportiamo a memoria: Figlia: – Dai a Ricky (il figlio della figlia, drogato) il mio orologio. – Madre: – Lo venderà per comprarsi la droga. – Figlia: – Speriamo che almeno sia di quella buona. –
Due donne cattive che si sbranano.
Su tutto questo grandeggia la straordinaria abilità di attrice di Lina Volonghi; siamo rimasti affascinati ed entusiasti: quelle povere insulse battute acquistavano potenza drammatica per suo merito. Secondo noi, è lei la vera autrice del testo che va rappresentando, con la sua voce, i suoi gesti. La potenzialità drammatica dell’idea iniziale vive e si costruisce nella sua splendida recitazione e in null’altro.

Giulia Lazzarini, nella parte della figlia, ha la gran fortuna di avere in realtà due sole battute da dire e di doverle dire sempre uguali: ci riesce benissimo. La regia di Carlo Battistoni non poteva che limitarsi ad assegnare certi spazi di azione nella scenografia, doverosamente simbolica e realista ad un tempo, di Mario Garbuglia. Lo stesso testo è stato offerto in lingua originale nella interpretazione delle attrici statunitensi Kathy Bates, la figlia, e Anna Pitoniak, la madre, con la regia di Tom Moore, nella scenografia ancora curata da Mario Garbuglia. L’idea registica ci è parsa questa: un inizio con poca tensione e poi, lentamente, la rapidità dell’azione si allentava, si allungavano le pause, per arrrivare al finale urlato. Però la madre risultava non essere altro che una Mary Poppins dalla recitazione televisiva e dalla mimica convezionale. La figlia, per quasi tutta la vita, ha detto le battute con assoluta piatta monotonia, come se leggesse; solo ogni tanto, quasi a casaccio, una battuta stentorea, nell’intenzione forse di accentuare la drammaticità; e poi gli strilli finali. Non possiamo neppure paragonare la Pitoniak alla Volonghi e, al confronto con la Bates, la Lazzarini era una girandola di sottili e sempre nuove idee teatrali.