5 – Luglio ‘84

luglio , 1984

Coerenti con la nostra convinzione che la cucina e la gastronomia sono segni di una civiltà non inferiori ai segni della cultura e dell’arte e inclini per natura ai piaceri della tavola, siamo andati con uguale impegno alla ricerca degli uni e degli altri: i ristoranti ci paiono santuari degni di visita tanto quanto le mostre e le chiese, i teatri e le sale da concerto. Ci piace quello che può offrire da mangiare e da bere l’Umbria; le materie prime sono saporite, alcuni piatti sono semplici e altri di semplice raffinatezza. Una premessa dobbiamo fare subito sull’elemento sovrano di tutta la cucina umbra: il tartufo nero. Noi riteniamo sciocca la lite che vede i sostenitori di questo tartufo impegnati nel confronto con il tartufo bianco. Riteniamo il paragone improprio e vano, che senso avrebbe paragonare i pomodori con le melanzane? E discutere se gli uni sono migliori delle altre? Non ci interessano le sue. caratteristiche botaniche, ci interessano invece quelle organolettiche: tartùfo bianco ha il sapore e il profumo delle profondità della terra e dell’umido sottobosco. Sono due elementi completamente diversi e vanno usati, in cucina e a tavola, in modo completamente diverso. Qui a Spoleto i tartufi neri sono non solo sovrani, ma anche. un po’ invadenti, talora.

Non solo il tartufo nero è trattato come si deve, ma anche tutti gli altri ingredienti sono rispettati ed esaltati nella cucina di Piero al Palazzaccio, a S. Giacomo, al chilometro 134 della via Flaminia. Non sappiamo dove sia il Palazzaccio che dà il nome a questo locale, che si trova poco distante da Spoleto, purtroppo vicinissimo al traffico della consolare, sul lato destro per chi viene da Roma. Un locale che ha i segni tipici dell’ex casale, con tanti tavoli fuori, altrettanto tipici; il servizio è svolto da persone sorridenti, anche se rallentato dalla grande affluenza di avventori nel periodo del festival. Vi diciamo subito che il vino della casa è ottimo, scelto da qualcuno che, realmente, si intende di vini. Noi, spesso, assaggiamo subito il vino sfuso che ci viene offerto e, quando è troppo cattivo, ci alziamo prima ancora di aver ordinato e ce ne andiamo via: se il ristoratore sceglie così male il «suo» vino, non vorrà di certo darsi da fare per offrire buoni cibi, perché troppo avaro o senza palato. Come abbiamo detto, non è così al Palazzaccio, buono specialmente il rosso che si sposa deliziosamente sia ai piatti col tartufo sia a quelli senza. Abbiamo assaggiato gli strangozzi? È ovvio: siamo a Spoleto, ma poi anche ravioli e tortelloni, preparati con pasta freschissima e morbidi; grigliate magistrali; l’ultima volta abbiamo assaporato una stupenda faraona alla leccarda. Una cosa stranissima: qui si fanno delle «pommes frites» veramente alla francese. Perché sono così banalotti i dessert? Il prezzo è più che ragionevole per tanta letizia.

Little Pub
Se, per caso, al Teatro Nuovo, avete troppo caldo o siete seduti scomodi, vi consigliamo, nell’intervallo, di andare in un luogo che vi metterà di buon umore. Proprio di fronte al teatro, scendendo alcuni scalini, si entra al Little Pub, che pare sia aperto soltanto nel periodo del festival. L’ambiente è l’interrato di un palazzo, dalla splendida e possente volta e dai muri antichi: proprio lì, un vetusto camino, carico di umbra austerità, è stato dipinto, all’esterno di lucida vernice rossa, l’interno della bocca è bianchissimo di calce, adornato di cuscini di raso con su dipinti eterei pierrots; sempre nel focolare, in una boccia di vetro tondeggiante, un fascio di fioriti pennacchietti rosa, che ci piace chiamare asfodeli, per associazione di idee.
Un bel ragazzo bruno, vestito come un benzinaio di Armani, riccetti e catena d’oro in evidenza sul petto serve danzante dietro il bancone, insieme con una fanciullina dolcesorridente. Cordialissimo, stupefatto ed entusiasta del mondo, offre cose incredibili a raffinati e languidi amanti dello spettacolo e a truculenti gorilla di scorta, che aspettano i pescicani della finanza e della politica momentaneamente assenti perché a teatro in dolce e vistosa compagnia. Cosa abbiamo bevuto? Un abbondantissimo e troppo` dolce Manhattan e un acquoso e tiepidiccio Old Fashion; questo tono generale vale per tutta la non molto varia lista di cibi e di bevande, che si apprezzano non perché siano buoni, ma perché sono offerti in una situazione che ispira un dolce buon umore.
Anche il prezzo mite aiuta a restare sereni.

Se, invece, avete visto un brutto spettacolo, non andate alla Trattoria della Lanterna in via della Trattoria 6; po:reste essere colti da una profondissima crisi depressiva. Tutto è molto triste, la vista del menù vi accascia, vorreste scappare, ma è tardi e allora ecco la bruschetta «al tartufo», – ci viene ora il sospetto che l’intruglio venga prodotto tutto in un’unica cucina e poi smistato nei vari ristoranti – i primi sono quello che sono e i secondi si immalinconiscono con voi contornati da una varietà uniforme di vegetali erbosi e sfatti. Il delirio tocca punte di grandezza alla proposta dei vini: dopo aver respinto il Sangiovese della casa, ci siamo visti proporre un, a noi ignoto, Caronte rosso delle Marche, vino da tavola del 1977, bevanda veramente infernale! Dopo aver dribblato un Nebbiolo del 1978 e un Barbaresco dalla bella e antica etichetta, ci siamo affogati in un Chianti poverello e francescanamente mite. Il conto eccessivo ha concluso l’esperienza.

Faceva molto caldo, l’ora era sufficientemente lontana dalla cena, ci venne in mente di bere un cocktail fresco: entrammo al Pub Time and Place sulla piazza del Mercato anch’esso. L’ambiente di legno chiaro e sgabelli di legno e paglia era a metà tra l’atmosfera del bar di paese e quella accaldata di un film come Casablanca. Dietro al bancone un delizioso ragazzetto dall’aria sperduta, alla nostra richiesta, ci spiega che i cocktail li fa «lui». Dal canto suo egli poteva offrirci soltanto un prosecco caldo o un analcolico freddo; dall’ombra suonò severa una voce di donna sferruzzante in un angolo, noi bevemmo lo spumante caldo e l’analcolico freddo e fuggimmo nel sole. Tornammo quando fummo sicuri di trovare «lui»: Said, gentile e sobrio iraniano; gli chiedemmo alcuni cocktail e lui ce li preparò con disinvoltura, dosando gli ingredienti ad occhio in maniera non proprio ortodossa ma con un risultato più che piacevole anche per l’uso di liquori di buona qualità. Se pure non sia il caso di fare confronti troppo serrati coi canoni classici, vale comunque la pena di tornare quando c’è «lui».

Proprio a un passo dalle vecchie mura ai piedi del pendio che segna l’inizio della parte più antica di Spoleto, in posizione non felice sulla via di grande traffico si trova lo Sciattinau al numero 51 di via Martiri della Resistenza. Si entra in un grande ambiente abbastanza articolato che comunica da una parte con la veranda e dall’altra dà direttamente sulla ben visibile e ampia cucina. Il tutto è accogliente e familiare, sebbene l’arredamento non abbia pregi e i pochi bellissimi e vecchi tavoli da osteria ancora esistenti siano mimetizzati sotto le lunghe e anonime tovaglie. Chi vi serve è estremamente gentile e simpatico. In tavola arrivano uno dopo l’altro cibi saporiti e spesso prelibati: gli antipasti misti della casa sono fraganti e abbondanti, il crostino col tartufo è trattato come si deve, gli altri spalmati con un buon paté e hanno una spiritosa punta di aceto, le olive ascolane sono ottime, il prosciutto è dolce e profumato, la panzanella è piacevolissima, fresca e non fredda e introduce al sapore meraviglioso dell’olio umbro; le frittatine vi fanno arrivare alla fine degli antipasti e già vi sentite sazi. Ma lo stomaco e la bocca si riaprono con piacere: il minestrone di verdura ha tutti i suoi componenti dalla giusta consistenza, e non come succede troppo spesso, qualche verdura troppo dura e qualche altra sfatta; eccezionali gli spaghetti al tartufo; buoni per sé ma con un sugo troppo lento gli strangozzi alla spoletina. Non abbiamo provato quei piatti che nel menù risultavano alla panna, e qui vorremmo fare una parentesi. Noi consigliamo ai cuochi: se ritenete onestamente di saper cucinare, non distruggete le vostre salse con la panna, lasciatela per i dessert! Concluso il predicozzo torniamo a parlare della faraona in salmì, rustica e sapida bontà, cotta al punto giusto; buono anche se un po’ fuori stagione il cinghiale e morbidissima l’arista di maiale. I vini della casa non sono sgradevoli: il bianco con un sapore lieve di fumo, all’antica, e il rosso con un leggero gusto di castagna, magari un po’ pesante. I dolci, per dichiarazione esplicita, sono di pasticceria e concludono bene l’allegro pasto: tartufo di cioccolato, immerso in un mare di buon liquore o di caffè; oppure un millefoglie un po’ trionfalistico. Per tutte queste squisitezze si paga un prezzo più che onesto.

Nel cuore di Spoleto, in via Brignone 8, si trova la Trattoria del Festival: un paio di locali arredati con il solito spreco di quadri e manifesti del Festival alle pareti, con l’aggiunta di qualche foto di famiglia, le vetrine con la mostra dei piatti di portata e un’atmosfera generale
e un servizio tra l’anonimamente gentile e il fariseo. Come al solito anche qui l’infame questione ci viene posta non appena sistemati al tavolo: «Bevono rosso o bianco?». Nel novantanove per cento dei ristoranti e trattorie italiani l’avventore viene accolto così; noi questo lo riteniamo un insulto al buon gusto di tutti; pure se è vero che se i ristoratori sono spesso indegni di svolgere la loro professione, almeno il novanta per cento degli avventori è composto di bruti che ingoiano il cibo, misto al fumo delle sigarette, sigari e pipe, vociando senza respiro e quindi non paiono molto degni di rispetto.
Benché non fumassimo e bisbigliassimo appena noi in questo locale non ci siamo sentiti rispettati da un simile approccio. Dopo aver ordinato tutto il pranzo, chiedemmo che ci si portasse il rosso della casa; sulla bottiglia che ci arrivò in tavola spiccava l’etichetta: «Rosso dei colli perugini», d.o.c.; 1982. Il contenuto non faceva certo onore a quei colli: una spumettina increspava un liquido rosso appena frizzante e un po’ amaro, ripiegammo sull’immancabile rosso di Montefalco, bevibile ma niente più.
Gli antipasti reggevano a stento: crostini bruschette con salsette al tartufo e paté o pomodoro acquosi e zucchine fritte anonime; in calando i primi piatti: cattivo il ;ugo, rosso con tartufo, degli strangozzi ripassati in padella, proprio immangiabili e penne alla norcina stravolte da un inruglio di panna tiepidiccia; il disastro arrivò con i secondi piatti: roast beef acquoso e di pessima carne, un agnello scottadito che ci ha imposto la banale associazione con la suola delle scarpe, una bistecca alla pizzaziola più nervosa di noi a quel punto, le patate al forno del contorno parevano venire dallo scenario di cartapesta di uno dei teatri lì vicino. Una grottesca zuppa inglese dagli ingredienti indecifrabili e da un marcato sapore di anisetta sigillò un pasto da non ripetere. Il prezzo sui livelli correnti.
Spoleto è bellissima, ciascuno può trovare negli angoli, scorci e chiese l’aspetto che preferisce di una città ricca di arte e di storia, un angolo che diviene il luogo preferito; ma al di sopra dei gusti particolari, si impone all’ammirazione generale la bellezza assoluta della piazza del Duomo, divenuta, non a caso, cuore della città e del Festival.

Proprio appoggiato su un lato della piazza, sulla salita a gradoni della via dell’Arringo, tra Campello e palazzo Ràcani sta il Tric-Trac, locale vecchio quasi come il Festival, creato da Giustino che ancora oggi ne è il fortunato padrone. Ai tavoli, un po’ pericolanti, sui sassi del declivio si sono seduti, insieme con folle di anonimi turisti, personaggi e artisti famosi di tutto il mondo. Il Tric-Trac non appartiene a una categoria di locali facilmente definibile: in questo luogo privilegiato si può soddisfare dal semplice desiderio di un bicchiere d’acqua minerale a quello di un sofisticato pranzo o ricevimento di gala. La formula su cui si regge è geniale: messo in quella posizione potrebbe offrire ai suoi avventori qualunque cosa, infatti chi rinuncerebbe a sedersi lì, la sera, nel volo delle rondini a immalinconirsi dolcemente di struggimento e nostalgia, guardando le belle linee del portico rinascimentale del vecchio duomo? Invece, la professionalità e la correttezza hanno fatto sì che si possano apprezzare, in una sosta più o meno breve, cose di riguardo. Giuseppe e Guido orchestrano con sapiente disinvoltura il via vai degli ospiti e le evoluzioni tra i tavoli di uno staff variamente esperto. Nella cucina le materie prime sono di prima scelta e trattate con leggerezza: non vi sono i sapori più forti, tipici della cucina umbra, che qui si stempera per riuscire gradita ai palati meno preparati o schizzinosi. Veramente superbe le bevande: dai cocktail classici ai drink più estrosi. Noi adoriamo un cocktail di amari e il cocktail di champagne, quando non è aggredito dal cubetto di ghiaccio nella coppa. Anche la scelta dei vini è ampia e annovera un rosso di Montefalco di bontà insuperabile e di una certa nobilità di bouquet. Ancora una volta, dopo le gioiose fatiche dello spettacolo, nell’aria fresca che scende lungo la via dell’Arringo, è bello, seduti al tavolino, vedere Spoleto e il suo duomo girare vorticosamente intorno.