5 – Luglio ‘84

luglio , 1984

Ariadne auf Naxos
Il XXVII Festival dei Due Mondi, a Spoleto, si è aperto con la Ariadne auf Naxos, opera in un atto con prologo di Hugo von Hoffmansthal, musicata da Richard Strauss. L’opera andò in scena per la prima volta a Stoccarda nel 1912 e ripresentata in una seconda e definitiva versione a Vienna nel 1916. Questa esecuzione spoletina è diretta da Christian Badea, con la regia di Giulio Chazalettes e si avvale di scene e costumi di Ulisse Santicchi, l’orchestra è quella della Spoleto Festival Orchestra. I ruoli principali sono interpretati dal soprano Katherine Ciesinski (il compositore), dall’altro soprano Cecily Nall (Zerbinetta), dal terzo soprano Esther Hinds (Arianna) e tenore Aaron Bergell (Bacco). H. von Hoffmansthal collaborò con R. Strauss fornendo i libretti per diverse opere e non fu mai servitore banale del musicista, ma collaboratore capace di suscitare anche pensieri musicali fecondi. La sua arte poetica è ricca di echi: Nietzsche e la psicoanalisi – più quella di Jung che quella freudiana – che ama scavare non solo l’inconscio individuale, ma anche le fantasie dell’inconscio collettivo, tanto che, forse non stranamente, alcuni aspetti della verbosità e fumosità dello scienziato di Zurigo sono presenti, non certo consapevolmente, nei versi del poeta austriaco, affollati di miti, ombre, gesti simbolici, quasi sempre un po’ ridicoli e noiosi e parole, parole, parole… che spesso schiacciano la vitalità della scena teatrale. Adriadne auf Naxos (rappresentata nell’originale, in lingua tedesca) teatralmente regge poco: un prologo in cui un padrone di casa tiranneggia un compositore imponendogli la rappresentazione di un’opera buffa contemporaneamente all’esecuzione dell’opera seria prevista per allietare una serata che dovrà comunque avere il suo culmine con l’accensione dei fuochi d’artificio alle nove in punto. Il contenuto di tutto questo prologo è così pleonastico che nessuno si accorgerebbe se i cantanti, anziché pronunciare le parole di un testo emettessero suoni soltanto. Siamo di fronte a un piccolo poema sinfonico che non intende raccontare alcunché e la musica non ha infatti nessun rapporto con le banalità insipienti del testo. La piccola orchestra, insaporita dal timbro del pianoforte, compie capriole, armonicamente prevedibili ma deliziose, e gli strumenti, spesso trattati solisticamente, intessono brandelli di melodie, interrotti e ripresi continuamente, in ritmica danza con le voci dei cantanti, che hanno le stesse avventure musicali, con brani gradevoli, ironici o melodiosamente struggenti, anche se sempre un po’ in bilico tra la Butterfly e La vedova allegra. Ripetiamo: un piccolo gioiello. La rappresentazione vera e propria si apre con alcune pagine strumentali in cui Strauss rivela la sua genialità di compositore di prim’ordine: dapprima prevalenza degli archi e poi, lentamente, vi si impastano i fiati. Il discorso armonico apparentemente ricercato, è, in realtà, semplice e consequenziale; segue poi un melodiare lungo e disteso, che non teme le cadenze conclusive tradizionali. Si ascolta della buona musica, forse è un po’ troppa, soprattutto nel finale, lungo, prolisso e antiteatrale (è Strauss che si è fatto castrare da Hoffmansthal?); un duetto immobile che fa capire agli spettatori perché Teseo ha piantato Arianna iN asso: eroe scattante e sbrigativo, non ce l’avrebbe mai fatta ad usare così tante parole per dire niente; l’ha quindi lasciata a dialogare con Bacco, che è un dio e ha l’eternità davanti a sé. Eppure anche qui la musica è splendida: tenera, distesa, accorata; certo, qualche volta, il compositore non sa più che pesci pigliare e si ripete; ma Strauss riesce comunque sempre a nascondere di essere poco capace a variare davvero: un impasto sonoro nuovo, una modulazione apparentemente imprevedibile riacchiappano l’orecchio che torna ad immergersi nel piacevole avventura dei suoni che gli raccontano di quest’Arianna sola sull’isola Nasso a piangere, consolata dalle ninfe e incurante delle intrusioni dei personaggi dell’opera buffa, protesa verso il finale incontro con Bacco e la soluzione del dramma dopo il simbolico equivoco che riaccosta ancora una volta i concetti di amore e di morte.
Ottima veramente la Zerbinetta di Cecily Nall; parte non facile, vocalmente e teatralmente, assolta con una bravura ad alto livello: anche i vocalizzi ad effetto erano eseguiti senza dimenticare mai la correttezza musicale e senza alcuna facile gigioneria. Ottima Esther Hinds nel ruolo di Arianna: ha trovato espressioni sempre nuove, buone coloriture e una respirazione ineccepibile. Le passioni e gli struggimenti del Compositore sono state esposte con maestria da Katherine Ciesinski, che ha superato bene anche le difficoltà di un personaggio mal servito dalle parole di un testo gratuito e senza rapporto con la musica. Possente e sensuale il Bacco di Aaron Bergell, musicale e sonoro. Eccezionali le maschere di Arlecchino (Ben Holt), Scaramuccio (Robert Tate), Truffaldino (Kurt Link), Brighella (Steven Cole). Comunque corretti tutti gli altri interpreti, impegnati in ruoli davvero poco gratificanti. La direzione di Christian Badea, se pure a buon livello, è stata, nel prologo, un po’ meccanica, perdendo e sciupando molte delle sonorità geniali che gli strumenti appena accennavano, un guasto questo da collegarsi con una certa macchinosità della regia, forse. Molto più sciolto il direttore è apparso nella seconda parte, dove la precisione non soffocava (anzi spesso esaltava, senza sbrodolarle) le possibilità timbriche dell’orchestra. Lo scenografo e il regista hanno avuto di fronte il compito arduo di trovare soluzioni teatralmente accettabili per situazioni caratterizzate nel prologo da una certa gratuità e macchinosità e dal contrasto, in tutta la seconda parte, tra la staticità dell’opera seria settecentesca e la vivacità un po’ slegata della pantomima. Ci sono riusciti più o meno bene, cercando a tastoni l’equilibrio tra vivacità e invadenza, solennità e immobilismo. Più discreto Giulio Chazalettes, più propenso a effetti sfacciati Ulisse Santicchi che, soprattutto nella seconda parte, non ha risparmiato colori e materiali per evidenziare il contrasto tra una certa gelidità siderale, ricca di specchi e di biancori dell’opera seria e la variopinta carnalità di un quotidiano cialtrone e fiabesco dell’opera buffa. Uno spettacolo, a conti fatti, di buon livello artistico cui vale la pena di assistere.

I1 barocco è splendido. in tutti i suoi aspetti; dove cominci e dove finisca difficile dirlo, come difficile è stabilire i limiti cronologici. I frigidi e gli imbecilli guardano con diffidenza allo splendore di quest’arte; ma lasciamoli masturbarsi in compagnia della loro miseria di spirito. Il teatro barocco – musicale e non – è così splendido che è inutile sprecare alti aggettivi. In quel tempo si sapeva fare di teatro e si aveva il gusto per il teatro: la Camerata dei Bardi esplose non solo tra le mani del divino Claudio Monteverdi, ma vivificò centinaia di compositori, soprattutto in Italia.

La musica, sulla scena, contribuisce a creare spettacoli assolutamente belli, belli pei ché coerenti, belli perché spudorati, perché divertenti, perché artigianalmente sapienti. Pietro Francesco Caletti Bruni (Crema 1602 – Venezia 1676), passato alla storia col cognome del podestà di Crema suo benefattore, Federico Cavalli, è uni dei più fecondi e interessanti musicisti del suo secolo. Il suo teatro in musica è saldamente inserito in un mondo e in uno stile: l’opera veneziana; ma non è mai un mera ripetizione di moduli, è sempre o quasi, espressione di una vivace inventiva, perfetta per il teatro.
È stata una gioia assistere al suo Ormindo, composto nel 1644 su libretto di Giovanni Faustini, come già un piacere era stato assistere alcuni anni fa, proprio qui Spoleto, a una bella edizione della sua Erismena.
Anche questa volta abbiamo avuto la piacevole sensazione di stare a teatro per essere contenti, di ascoltare della buona musica e di partecipare ad un avvenimento pienamente teatrale.
Una dolce favola quella di Ormindo, dolce e priva di moralismi; i sentimenti ci sono, ma sono in bilico tra il bene e il male, tra il ridicolo e la sincerità. Ormindo e Amida, valorosi guerrieri, amano Erisbe, che li ama entrambi e non vuole scegliere tra i due. Ma Erisbe è sposata al re Ariadeno, un vecchissimo sposo, e Amida ha abbandonato la bella Sicle, innamorata di lui. Sicle, sotto mentite spoglie, convince Erisbe a scegliere Ormindo e a fuggire con lui; ma una tempesta getta gli adulteri in mano al re, che ordina che gli adulteri vengano avvelenati. Con la complicità dell’ancella Mirinda, il carceriere Osmano dà agli amanti solo un sonnifero. Quando il re vede i due corpi creduti morti, si pente del suo gesto ed è lieto di apprendere l’inganno. Lascerà il trono alla giovane coppia e benedirà le unioni di Amida e Sicle, Osmano e Mirinda, in un finale di pacificazione e letizia in nome dell’Amore. La musica fluisce ininterrottamente – altro che il superamento dell’aria chiusa e il melodiare cointinuo rovello dei compositori del melodramma dell’ottocento -. Qui, e non solo qui naturalmente, poiché è una caratteristica dello stile, fioriscono recitativi, bizzarri e capricciosi, pieni di sberleffi teatrali, che si dissolvono nell’aria, vi si incuneano; poi l’aria riprende rimanendo però intatta nella sua fisionomia. Un esempio splendido di ciò è l’aria «Piante fiorite», dove la frase melodica in tre tempi è seguita da un breve frammento recitativo, cui segue la ripresa della prima frase. Ma la struttura non è soltanto questa, ve ne sono altre, più articolate: sempre la musica del recitativo accompagna l’azione teatrale, sospingendo gli attori-cantanti (perché guai se non si è buoni attori: non bastano trilli e do di petto) nei gesti e nel fraseggiare; e le melodie delle arie, di una bellezza sempre nuova e intatta, non spezzano mai, l’azione che fluisce, continua. Gli interpreti di questa edizione, guidati magistralmente dal regista Thaddeus Motyka, hanno ben capito che cosa vuol dire cantare e recitare. Ormindo (Ronald Naldi) splendente nella sua voce di tenore, di cui talvolta si compiace, non si è mai però chiuso in esibizionismi gratuiti; un vocalizzo, il suo, preciso e sensuale – la figura più erotica di tutto lo spettacolo – talvolta protervo e maschio, talaltra delicato; superbo nella difficilissima scena dell’esecuzione che, stranamente, aveva un sapore di dramma ottocentesco. Erisbe (Phyllis Hunter) quando entra in scena enuncia il suo carattere con un frase musicalmente precisa e gradevolmente frivola e poi, lungo lo svolgersi di tutta la vicenda troverà molte sfumature alla chiara sua voce, mai sdolcinata, particolarmente bella e ironica nella scena delle rose. Amida (Bill Macfarland) è un baritono dalla voce precisa, piena di ironiche sfumature. Sicle (Sally Mitchell Motyka) si presenta subito con una voce da mezzo soprano lustra e duttile, con efficaci accenti drammatici. Intelligente anche l’interpretazione di Mirinda (Sharon Munden), spiritoso e più corretto il tenore Thomas Poole nel ruolo della vecchia viziosa; buone le prestazioni di tutti gli altri, ma su di esse spicca lo stupendo re Ariadeno (Stephen Markuson), basso che ricorda i mozartiani Sarastro e il Commendatore che sotto la parrucca del personaggio sapeva accennare lievi sberleffi, buona l’azzeccatissima e apocalittica voce di Osmano (il basso Kenneth Bell), Melide (Diana Davidson) dalla forte vocalità e Nerillo un po’ rigido nella sua ingenua ambiguità (Gwendolyn Jones). Perplessi ci ha lasciati l’insieme orchestrale, composto da strumentisti della Festival Orchestra e della Chamber Opera Theatre of New York; abbiamo fatto un vero balzo sulla sedia al primo accordo iniziale, articolato con una specie di arpeggio disposto in modo tale da ricordare Debussy: eravamo terrorizzati da un tale inizio, ci hanno poi lasciati perplessi anche alcune schitarrate dei liuti; la strumentazione ha presentato qualche squilibrio e alcune sonorità dei contrabbassi ricordavano troppo gli strumenti elettrici di musica leggera. Comunque, sia l’orchestra, sia il direttore Hugh Keelan avevano la consapevolezza di essere in teatro e quindi il risultato complessivo è stato efficace. Non soltanto gradevoli, ma anche pieni di fantasia e azzeccati ai personaggi e alle situazioni i costumi e le scene di Beni Montresor, che ha saputo usare con intelligenza e ironia anche tutti quei materiali luccicanti e marchingegni semoventi che troppo spesso sulle scene di teatro sono profusi con dissennatezza e presunzione, alla ricerca di effetti metafisici da palazzo degli specchi. Qui il gioco era lieve e divertito con qualche complicità con lo spettatore chiamato a partecipare a un gioco comune.