West Side Story apparve sulle scene di Broadway per la prima volta nel 1957, frutto del lavoro di Jerome Robbins che ne curò le coreografie, di Arthur Laurents e Stephen Sondheim che ne scrissero il testo e del compianto Leonard Bernstein che ne compose le musiche e che morì nell’ottobre del 1990, più o meno nel periodo in cui l’attuale produzione fu messa in cantiere. Tutti, anche i più giovani di noi, hanno presente l’edizione cinematografica del musical diretta da Robert Wise con la coppia Nathalie Wood e George Chakiris che ha fatto conoscere a tutti la storia moderna di una Giulietta e di un Romeo del quartiere di New York: lei apprendista sarta e lui sperduto garzone di bottega, l’una e l’altro prigionieri però del codice d’onore delle rispettive bande. Quella dei Jets, autoctoni bulli di periferia pretende che lui, Tony, prenda parte alla sfida contro la banda degli Shark, un gruppo di giovanotti di origine portoricana di cui fa parte Bernardo il fratello di lei, Maria. Come tragedia comanda, Tony uccide, senza rendersene conto, Bernardo e verrà alla fine ucciso da Chino, altro portoricano. Maria, canterà il suo dolore per quell’assurda morte, tra il coro delle due bande annichilite dei ragazzi. Al Teatro Sistina, dopo più di trent’anni non ci è parso che nulla e nessuno fosse invecchiato, forse anche perché alcuni degli interpreti non erano neppure nati al tempo delle origini newyorkesi. Tutto il numerosissimo cast canta e balla con bell’entusiasmo e qualcuno sa anche recitare, in particolare Yamil Borges, nella parte comprimaria di Anita, una delle ragazze portoricane. Don Goodspeed (Tony) e Marie-Laurence Danverse (Maria) sono belli e bravissimi, sia quando ballano sia quando cantano, nei registri espressivi sentimentali o drammatici. A nostro avviso però il giovanotto ha qualche argomento in più della ragazza, musicalmente e drammaticamente. Va detto che la struttura compositiva di tutta l’opera è molto astuta ed anche di ottimo livello. Si sente in Bernstein la mano del compositore «classico», che però in questa occasione non appare irrigidito, come molti altri suoi colleghi europei di fronte alle sincopi e a certe meravigliose modulazioni pur sempre tonali, anche se spesso il linguaggio rispetta la scala jazzistica. Le famosissime melodie sono tornite con grande cura, non è assente il contrappunto e l’orchestrazione non è mai ovvia. L’orchestra – dal vivo di buon livello era diretta magistralmente dalla brava Valerie Gebert.
Il libretto della Bohème che Illica e Giacosa trassero dal romanzo di Murger, Scènes de la vie de bohème, nel suo neo-barocchismo liberty non è del tutto privo di qualità letterarie. Il linguaggio oscilla continuamente tra verismo e similitudini da canzonetta; ma non è privo di efficacia drammatica e le situazioni, pur zuccherose, sono costruite con sapienza teatrale. Noi non sappiamo se sia meglio un libretto con un suo discreto valore che addirittura si insinua tra le maglie della musica fino a distoglierne l’attenzione dello spettatore, oppure sia più utile alla bisogna dell’opera un libretto sicuramente mediocre o pessimo come molti di quelli che hanno costruito le fragilissime impalcature letterarie dei capolavori musicati da Verdi, le cui parole hanno significato solo grazie alle note di cui sono rivestite e dietro cui arrivano a nascondersi. Ovviamente l’ideale sarebbe quello dell’unione perfetta dei valori letterari e musicali in una costruzione completa in tutti gli aspetti; ma ciò si è dato molto di rado nella storia del teatro in musica. A parte queste considerazioni da presuntuose algide zitelle, possiamo però affermare che Bohème è un’opera stupenda.
Non vi si coglie mai un momento di stanchezza, per chi sia capace di abbandonarsi al meraviglioso fluire della melodie, all’orchestrazione sapiente e ricca di fascino. I temi che si rincorrono sottolineando le varie situazioni emotive e con imperversante efficacia si insinuano quelli di Rodolfo e di Mimì, enunciati nel prima atto. La musica pucciniana esprime tutte le gamme dei sentimenti umani: l’allegria, la malinconia, a disperazione. I compositori contemporanei hanno malta da imparare da quelle arditezze armoniche e da quelle sapienze strumentali; ma soprattutto hanno da imparare la lezione della spudoratezza. Il perbenismo narcisistico ed esibizionistico affligge trappa pesantemente la musica dei nostri giorni.
Al Teatro dell’Opera di Roma è stata ripreso un allestimento scaligero del melodramma pucciniano realizzato da Franco Zeffirelli con Mirella Freni ancora nelle vesti della protagonista e il giovane tenore Francisco Araiza. Il grande e venerabile Soprano è stata ancora in grado di proporre una Mimì musicalmente valida e teatralmente efficace; forse dilatava un po’ troppo i tempi e si sentiva che il Direttore mordeva il freno. La giovane e fresca voce di Araiza ci è parsa malto adatta ad esprimere la pienezza passionale e malinconica del personaggio di Rodolfo. Davvero eccezianalmente appropriata al ruola di Musetta abbiamo trovato la voce bella, limpida e pungente di Adelina Scarabelli, alla quale solo chiederemmo di .offrire al suo personaggio un briciola di sensualità in più.
Decisamente opaca, per quanto ben mascherata dalle astuzie del mestiere, la voce li Nicolai Ghiaurov nell’aria della «vecchia zimarra». La direzione di Daniel Oren stata malta equilibrata, con qualche momento di intensa partecipazione: attenta ai coloriti e al fraseggio. Purtroppo l’orchestra, claudicante, non sempre gli ha risposto in modo adeguato. Gli altri componenti del cast: Pietro Spagnoli, Alfredo Mariotti, Roberto Sérvile, Andrea Snarski, Carlo Napoletani, Angelo Nardinocchi, Mario Tocci e Alberto Della Venezia, paiono tutti li buon livello, capaci di disimpegnare i loro ruoli musicali e drammatici. I costumi di Piero Tosi giustamente raffinati e apprezzabili non riescono però ad annullare il fastidio di una scena sempre troppo affollata e rumorosa anche per il cigalare continuo di macchine teatrali in azione. Il coro diretto da Paolo Vero ha lavorato onestamente.
Per il terzo anno consecutivo questo giornale rinuncia a quella che era diventata in qualche modo una tradizione e non pubblica più i due numeri speciali dedicati interamente al Festival dei Due Mondi e alla Città di Spoleto. La ragione principale e senz’altro che i due Farfalloni sono in questo periodo dell’anno assorbiti dal lavoro di preparazione degli Incontri di Musica Sacra Contemporanea che – dal 1989 – si svolgono regolarmente a Roma sul finire di settembre; ma, accanto alla spiegazione più evidente, ci sono piccole inconfessate sensazioni che li hanno spinti a prendere le distanze.
Di lontano, qualche volta, si ha più chiaro il significato complessivo delle cose; mentre il coinvolgimento ravvicinato rischia di far perdere il senso delle proporzioni.
Visto con più distacco, ci sembra proprio che il Festival dei Due Mondi rappresenti un evento di grande valore culturale, malgrado le molte riserve che possono essere avanzate. Fuori, per qualche tempo, dalla baraonda festaiola e forsennata, dalla lotta strenua combattuta anche per il più piccolo dei privilegi da una folla avida; ci sembra di meglio apprezzare il significato di un lavoro che si è costruito in trentaquattro anni, senza lasciarsi mai troppo spingere dall’adulazione o frenare dal dileggio.
La realtà culturale italiana è – purtroppo – quello che è: i festival e i premi letterari affollano ogni estate di presenze paganti località marine e montane, piazze storiche o casinò, luoghi che, per il resto del lunghissimo anno, della cultura e dell’arte non praticano neppure i bordi. Ciò fa contenti alcuni politici e industriali che nel mecenatismo vedono la possibilità di recuperare una dignità che la concentrazione sugli affari ha fatto spesso perdere; appaga anche coloro che, per dovere d’ufficio, dovrebbero operare perche l’arte e la cultura si caratterizzino come bene pubblico e non siano invece preclusi ai più.
Il festival dei Due Mondi non è per tutti, ma è per molti; indulge, alla sponsorizzazione, ma ottiene in cambio spesso livelli elevati di qualità; non rappresenta il meglio, ma è di buon livello.
In gran parte artefice ed indiscutibilmente uomo-simbolo di tutto questo è il Maestro Giancarlo Menotti, al quale gli ottant’anni hanno tolto assai poco della consueta energia. Noi non siamo mai stati e non lo siamo neppure ora, d’accordo con le scelte estetiche, morali e persino politiche dell’ultimo Duca di Spoleto, anche se gli abbiamo sempre riconosciuto la capacità di valorizzare la creatura alla quale ha voluto dare vita. Anche grazie a lui il mondo culturale americano non ha avuto la possibilità di imporsi ancora una volta come colonizzatore. L’Umanesimo di cui l’Italia è ricca e che è forse la sua sola imprendibile ed inesauribile ricchezza, ha potuto nel festival dei due mondi impartire al «mondo nuovo» la sua grande lezione di civiltà.
La possibilità, per molti talenti di casa nostra è stata quella di sprovincializzarsi, per quelli venuti di lontano di conoscere orizzonti fino ad un momento prima inconcepibili.
Purtroppo né gli uni né gli altri hanno potuto sconfiggere un tipo di mercantilismo e di massificazione che sono piaghe universali, sia che si manifestino come trionfo della Coca Cola, sia che si esprimano come forme di taglieggiamento turistico spicciolo.
Appunto: il Festival, visto di lontano, non è né un’Arcadia, né un Eden; anche se, per fortuna, non é solo una fiera delle vanità; o un’occasione di mercificazione della cultura e dell’arte. È invece una realtà complessa e faticosa che deve i suoi aspetti positivi e negativi anche alle debolezze di un uomo che pure in essa ha posto tutto se stesso.
Dal punto di vista artistico, le conseguenze più evidenti sono alcune scelte un po’ «snervate» nei programmi, in cui si riversa un residuo estetizzante e frivolo, incapace di soluzioni vigorose.
Una breve scappata l’abbiamo però fatta anche quest’anno, per ritrovare i pochi amici, per curiosità, per nostalgia. Se vogliamo dame conto su queste pagine è però perché qualcosa ha scatenato la nostra indignazione ed è l’indecorosa, dilettantesca e ridicola messa in scena di uno splendido gioiello nascosto tra il folto dell’immensa produzione di W.A. Mozart: Apollo et Hyacinthus (Seu Hyacinti metamorphosis) K.38, Intermezzo musicale (commedia latina) per 5 voci ed orchestra, scritto dal padre benedettino Rufinus Widl per essere rappresentato fra gli atti della tragedia in latino «Clementia Croesi» dello stesso autore; eseguito per la prima volta nella Sala Grande dell’Università di Salisburgo il 13 maggio 1767. Il libretto è un po’ pasticciato: uno degli emblematici miti dell’amore omosessuale, quello di Apollo e Giacinto è stato malamente velato dal frate benedettino con l’introduzione di un personaggio femminile che non ha alcuna funzione in un meccanismo fatto solo di amori, gelosie ed impetuosità maschili. Noi siamo sempre irritati quando sentiamo esprimere sulla musica mozartiana, commenti di frigida e brutale sufficienza, da parte di critici ed «intenditori», i quali, essendo probabilmente sforniti di apparato acustico, si credono in diritto davanti a quella che definiscono la creazione di un ragazzo undicenne. di trovarla: «graziosa, soprattutto nel secondo tempo, ma che rivela pienamente l’ingenuità infantile dell’autore». Questa musica è indubbiamente tenera e fresca; unisce però allo stupore di cui è capace un bambino la profondità d’inventiva di un genio.
I recitativi sono già teatralmente maturi, le arie sono di una pienezza tornita e sapiente, ed i concertati, che costituiscono il nerbo di tutto, sbalordiscono per l’abilità armonica, vocale e psicologica. Il Caio Melisso, con le sue caratteristiche di «teatrino di corte» ci sembrava una sede adatta alla rappresentazione di un simile gioiellino e noi sprofondati in uno degli abituali palchetti ci pregustavamo alcuni momenti di gioia intensa e di commozione. Ma, fin dai primi accordi dell’orchestra del Collegium Aureum ci si sono rizzati i capelli in testa: il loro era uno schitarramento inqualificabile, il suono degli «strumenti d’epoca» risultava bofonchiante e stonato; i sottilissimi giochi imitativi non erano mai in rapporto tra di loro, le note rotolavano per la sala senza connessione; i gesti del direttore Gerhard Schmidt-Gaden falciavano l’aria per conto loro. Il clavicembalista, il cui nome non risulta nei programmi (beato lui), inventava glissati e «arpeggioni» da piano-bar. Contemporaneamente sulla scena cinque malcapitati (ma forse il malcapitato era il pubblico) gorgheggiavano, perdendo continuamente il tempo, stonando, totalmente afoni nelle note basse, striduli e queruli in quelle alte. Non riuscivano mai ad intonare neppure una quarta ascendente (dominante-tonica). Ci sembra incredibile che questi imbelli provengano da una scuola famosa come quella del Toelzer Knabenchor e che per di più ne siano i solisti! l’allestimento appariva disastroso fin dal levar di sipario: nulla pareva più vieto e baraccone che quell’increspar di veli, di facce imbellettate, di freschi ragazzini conciati mostruosamente da un’ispirazione perversa: non conosciamo lo scenografo John Pascoe, ma la sua ci è parsa una furia iconoclasta degna di una checca sadica. La regia di Giancarlo Menotti si è purtroppo resa complice di tanto scempio con trovate atroci, delle quali la peggiore ci è sembrata quella del funerale di Giacinto sulla cui bara-lettiga-dormeuse vengono fatti spuntare rigidi strali ondeggianti come banderillas sulla schiena del toro nell’arena; infine in un assoluto vuoto di idee costringeva tutti a iterare gesti e passetti in un meccanismo da marionette mal coordinate, «intruppantesi» continuamente l’una nell’altra. Che tanto scempio fosse anche mal preparato è risultato evidente quando allo scoppio del fulmine di Apallo l’impianto d’allarme del teatro si è messo furiosamente a suonare coprendo cantanti e orchestra. L’effetto comico che ne è derivato per quanto non voluto è stata l’unica vera nota eccitante della serata.
Rigoletto, la prima delle tre opere «popolari» di Giuseppe Verdi, è una tragedia musicale che ha trascinato, coinvolto e commosso milioni di spettatori. Oggi, che sono caduti anche i pregiudizi di alcuni musicisti e musicologi frigidi del primo Novecento, possiamo dire che fa parte del patrimonio culturale del mondo intero. A Verdi piacevano i drammoni a fosche tinte, con sentimenti che squassano, momenti di sadomasochismo parossistico. Le azioni drammatiche che predilige sono terribili e complesse più di quanto sembrino, anche perché non si può quasi mai sapere con precisione dove stiano il bene e il male.
Prendiamo ad esempio la situazione di quest’opera, il cui libretto F. M. Piave ha tratto da Le Roi s’amuse di V. Hugo: appare chiaramente che il Duca di Mantova è un tiranno e un libertino; ma che diritto ha il buffone di tenere incestuosamente nascosta la figlia? Gilda è buona, ma anche un po’ sciocca; i cortigiani sono di una perfidia emblematica. La sofferenza però scuote tutti: persino il Duca trova – con la musica – accenti di commozione e disperazione. Giustamente abbiamo detto «musica»; perché qui è la musica che racconta tutto: Verdi coglie nel testo brandelli di frasi sulle quali costruisce con le sue straordinarie e intensissime melodie. sentimenti di abissale profondità. Come rivela anche il titolo originario La maledizione, questo dramma non è tanto incentrato sull’amore paterno, quanto appunto sul terribile peso di una maledizione, che angosciosamente incombe fin dall’inizio della rappresentazione. Verdi ha voluto, sottolinearlo curando gli effetti sonori tesi a dare un’accentuazione quasi esasperata ogni volta che il ricordo di quella condanna si fa presente. Ad esempio, la frase di Rigoletto. «Quel vecchio maledivami…» cantata con tutti do. Nella stesura preliminare lo stesso verso veniva cantato con un’ascesa melodica che – seppur secca – ammorbidiva troppo l’atmosfera. Quei do della versione definitiva, scarni e terribili,. Racchiudono l’intera tragedia. Ancora tantissime cose si potrebbero dire intorno a questa partitura verdiana che riesce ad esprimere tutti i sentimenti umani; persino l’orchestrazione, apparentemente semplice e talvolta un po’ «bandistica», è calibrata e dosata con cura staordinaria. L’allestimento che ne ha dato l’Opera di Roma in questa fine di stagione ci ha lasciato un po’ perplessi: i primi quadri sembrano tollerabili; ma poi, lentamente, la realizzazione si smaglia ed anziché caricarsi di tensione si smorza; tutto diventa annacquato, impreciso ed anche un po’ sconnesso. Su tutto il cast primeggia June Anderson nei panni di Gilda, con la sua bella voce pulita, capace anche di momenti virtuosistici. In due punti solo non ci è piaciuta: all’inizio di «Caro nome…» dove l’abbiamo sentita inequivocabilmente accelerare, e nella scena della morte dove fa perdere al personaggio molta efficacia drammatica, prendendo i fiati in modo ambiguo. Il Duca di Mantova, Vincenzo La Scola, affronta con impegno il ruolo, grazie alla sua voce gradevole, che pure qua e là stride, come l’impostazione da «bullo» del personaggio. Il Rigoletto, Leo Nucci, supplisce al difetto d’intonazione con la buona efficacia drammatica; in questo senso esemplari sono i tempi, fiati e cesure di «Cortigiani vil razza dannata…», astuti però non tanto da far scordare l’imprecisione della sua intonazione.
Un risultato raccapricciante ci è parso che raggiunga il quartetto famoso dell’ultimo atto: «Bella figlia dell’amor…» Gilda sfora ad ogni passo, il Duca è sforzato, Maddalena è opaca e Rigoletto non si sente.
Viorica Cortez trasforma Maddalena in un travestito afono. Franco De Grandis assolve bene il compito di dare voce a Sparafucile. Tutti gli altri si barcamenano. Sotto la direzione di Bruno Bartoletti abbastanza corretta, ma poco incisiva, l’orchestra fornisce prestazioni non particolarmente brillanti. La regista Silvia Cassini, lo scenografo Luigi Marchione e il costumista Salvatore Russo costruiscono movimenti, ambientazioni ed abiti sontuosamente adeguati, buoni a riempire una scena che non cessa di risultare troppo grande ed affollata, tutto sommato estranea alla dinamica delle passioni essenziali che vi si consumano.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha tentato di risollevare le sorti di un’incerta stagione, mettendo in scena un allestimento interessante dell’opera di Francis Poulenc, su libretto di Georges Bernanos, in lingua originale: Dialogues des Carmélites.
In questo caso non si può tacere dell’importanza del libretto, che noi consideriamo una delle espressioni più alte della poesia, filosofia e drammaturgia del nostro secolo. Storie personali, che si inseriscono nella vicenda storica della rivoluzione francese; il cui terrore raggiunge le monache rinchiuse nel convento di Compiègne. Ecco gli ultimi giorni della vecchia Madre Superiora, che, dopo aver trascorso tutta la vita a riflettere sulla morte; quando l’ora estrema giunge non sa avere altra reazione che quella, umanissima, di paura e di incomprensione davanti a quello che le appare un assurdo. La storia poi di Bianca de la Force, che al convento chiede riparo dal mondo da cui fugge; per fuggire poi anche di lì, inseguita dalla propria paura, che saprà però vincere proprio al momento ultimo, quando, lasciando esterrefatta la folla assiepata sulla piazza del patibolo, aggiungerà il suo canto a quello dell’ultima consorella, stroncato dalla lama, per avviarsi a sua volta alla ghigliottina. La figura pratica e coraggiosa del padre cappellano; quella eroica e tenera della nuova superiora; il tormento interiore di Madre Maria dell’Incarnazione e le storie di tutte le altre monache sulle cui labbra fioriscono meditazioni profondissime e frasi di ingenuità disarmante. La grandezza dei perseguitati diventa emblematica e sottolinea la crudeltà di ogni violenza, anche di quella che si riempie la bocca di rivendicazioni assolute di eguaglianza, fraternità e libertà. Violenza agita da vere e proprie marionette del destino.
Bernanos trasse liberamente il suo testo da un racconto di Gertrude von Le Fort, per farne la sceneggiatura di un film che non fu mai realizzato, testo che, musicato da Poulenc, vide la luce alla Scala di Milano nel 1957.
La musica del grande compositore francese aderisce al libretto con una perfezione mirabile, perché, se per un verso sviscera alcune atmosfere sospese di mistico realismo, per un altro aggiunge ai dialoghi intensità che li portano su sentieri nemmeno sospettabili.
Raramente come in quest’opera si capisce che sebbene potrebbero esistere altre centinaia di rivestimenti musicali, belli, brutti, efficaci o inutili; però l’opera d’arte consiste proprio nell’unica occasione di unione in cui la musica riesce a vivificare la parola rendendola unica, libera e prigioniera di quelle note, che non possono essere che quelle, anche se avrebbero potuto essere mille altre.
Poulenc con un gesto di rispettosa umiltà sacrale, riesce a liberarsi quasi del tutto delle sue pur stupende e graffianti aggressioni sonore; talvolta sature di scarna ironia. Alcuni maestri del passato sono presenti o presentissimi: Debussy, Massenet, Mussorsky, ed anche il realismo pucciniano. Le melodie sono tese, lunghe e struggenti; oppure concise e drammatiche, altre ancore sono prosastiche o meditative.
Non vi sono mai fratture: le atmosfere cambiano il convento, il mondo, la trascendenza e la rabbia giacobine sanno costruire un contrappunto sapientissimo. Tutte le scene sono collegate da quei meravigliosi «interludi» che danno la cifra di ciò che avverrà e commentano. La raffinatezza estrema dell’orchestrazione non toglie nulla alla possibilità di coinvolgimento immediato dell’ascoltatore. La direzione di lan Latham Koenig è stata in ogni momento impeccabile ed equilibratissima; Patricia Schuman assolve il ruolo di Bianca con una voce limpida e misurata, anche nelle punte drammatiche, fin dalla prima scena in cui il personaggio si presenta con una melodia ampia e delicata; diventando poi efficace nel duetto verista e variato con il fratello, il tenore Claudio Di Segni, onesto e corretto. Margarita Zimmermann è la vecchia Priora dalla voce profonda e ricca di coloriti, con bei momenti di abbandono; cui fa pendant Mietta Sighele, la nuova Priora, vocalmente limpida e volitiva, e dal bel fraseggio. Sumi Jo dà la sua voce frizzante ed inquieta alla giovane Suor Costanza. Diane Curry svolge bene il suo compito di rendere le tormentate sfumature di Madre Maria dell’Incarnazione, prima con affermazioni perentorie che si stemperano poi in una progressiva incertezza spirituale che la voce asseconda con ampie articolazioni.
Diego D’ Auria serve bene il personaggio del Cappellano con una voce sicura e commossa.
La regia di Alberto Fassini ci è parsa solo a tratti sicura, anche se ha saputo dare momenti di partecipazione emotiva. Le scene e i costumi di Pasquale Grossi non si sono discostati da una sobria ed economica efficacia, specialmente nelle ambientazioni del Carmelo.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha inaugurato la stagione 1990/91 con la Tosca di Giacomo Puccini, su libretto di Illica e Giacosa, dal dramma di Victorien Sardou. La prima esecuzione andò in scena esattamente novant’anni fa in questo stesso teatro allora chiamato Costanzi. Tutti conoscono la musica e la trama di questo drammone verista. Il libretto scricchiola continuamente: situazioni inverosimili, spesso ridicole e sempre esagerate lo contraddistinguono. Le azioni però sono emblematiche; e i sentimenti essenziali hanno una loro forza intrinseca, spesso travolgente. L’amore disgraziato e disperato di Tosca e Cavaradossi, la diabolica perfidia lasciva di Scarpia sono inoltre rivestite da una musica talora possente e in altri momenti appassionata. Il diatonismo scoperto di molte melodie famosissime e di grande efficacia si mescola con un’orchestrazione ricca ed astutissima. Gli impasti sonori costruiscono macchie di colore che cangiano continuamente e si assottigliano in una strumentazione accattivante che talvolta poi torna ad ispessirsi, in un’alternanza che accompagna l’orecchio in avventure sonore semplici ma coinvolgenti.
Il 13 dicembre all’Opera c’erano tanti addobbi floreali, e tra i fiori spuntavano le teste di due capi di Stato, quelle di tanti primi ministri, moltissimi ministri secondi e uomini politici di ogni parte e poi ancora uomini di spettacolo, stilisti e signore e signori del pettegolezzo; scarseggiavano forse i rappresentanti del mondo della cultura. I maschi erano quasi tutti in «smoking» e le donne in abiti da sera brutti quanto costosi.
L’orchestra guidata da Daniel Oren ha aperto la serata con l’Inno di Mameli e con quell’orribile e funebre brano impapocchiato (ci sembra di ricordare da Karajan), tratto dal finale della Nona di Beethoven, che è l’Inno d’Europa; eseguito dai fiati in modo addirittura raccapricciante.
Sulla scena due colossi del teatro lirico: Luciano Pavarotti e Rajna Kabaivanska.
Il primo, secondo noi, canta sempre malissimo, però quella sera ha ecceduto: il tenoruccio di un’operetta di provincia avrebbe cantato con voce più espressiva e intonata. Il suo era un melodiare sempre identico, senza sfumature, con i fiati presi in modo inverosimile, dai ritmi imprecisi, la dizione insopportabilmente incolore, che non risparmiava alcuni dei più stantii moduli ottocenteschi. Letteralmente insopportabile è stato il suo Lucean le stelle dall’interpretazione molliccia ed assolutamente senza nerbo. La sua presenza scenica non era da meno: oscillante tra un Gambadilegno e Hulk, molto più pachidermico di quanto la sua stessa figura fisica richiederebbe.
Nonostante timbro e colorito della sua voce non siano i più adatti per il personaggio di Tosca, la straordinaria vocalità della Kabaivanska le ha permesso di essere sempre all’altezza del ruolo. Inoltre la sua grande sapienza teatrale le ha concesso di essere giustamente tenera, espressiva e disperata. Realmente superba la sua interpretazione di Vissi d’arte: tesa fino allo spasimo, dolce ed accorata.
Che dire degli altri interpreti? Tutti ci sono parsi adeguati. Ingvar Wixell nella sua parte di Scarpia è risultato corretto, senza però entusiasmare.
L’orchestra, sufficientemente attenta e precisa, seguiva onestamente le indicazione del direttore che pur in buona fede ha sempre diretto troppo forte, soprattutto nei primi due atti.
Il coro è risultato nell’insieme capace di un buon impasto sonoro.
Le scenografie sono state fin troppo discusse; a noi è parso semplicemente che mentre si può intervenire con giudizio, pur nella coerenza cui non si vuole rinunciare, come ha fatto Ceroli, non ha invece senso violentare un’atmosfera scenica e poetica con l’inserimento di un linguaggio narcisisticamente isolato ed autocentrico, oltre che intrinsecamente brutto, come ha preteso di fare il transavanguardista Cucchi: nel complesso anche con l’apporto di Fini è venuto fuori un certo pasticcio, che non ha favorito le intenzioni registiche di Mauro Bolognini, timidissimo più che altro.
La figura di Don Chisciotte, da quando uscì dalla penna di Cervantes, ha acquisito via via una fisionomia così variegata e poliedrica che ha affascinato letterati, filosofi, musicisti e pittori. La sua figura è stata spesso usata come l’emblema della posizione dell’uomo nel mondo: illuso e [oico, folle e pratico, vinto sempre, sconfitto mai. Narcisista e sadomasochista, Don Chisciotte manifesta spudoratamente il suo inconscio e quante storie ancora si possono inventare, usando quel personaggio terribile e ridicolo!
Il bravo librettista settecentesco, Giovanni Battista Lorenzi, saccheggiando a piene mani anche i libretti di altri e con l’occhio sempre rivolto all’originale cervantesco, ha costruito per Paisiello, una vicenda attorno al cavaliere senza macchia e senza paura, estremamente godibile. I versi scorrono con facilità. Tutti i personaggi hanno una loro fisionomia, sebbene spesso tipica;
Don Chisciotte invece sfugge alle argute stereotipie degli altri: vuol diventare matto, ma non ci riesce; è disperato e allegro e talvolta raggiunge, sia pur sfiorandola appena, l’allucinata e metafisica stralunatezza dei Don Chisciotte di S. Dalì; merito questo, in gran parte, della regia di Pino Micol; ma, ascoltando le note che Paisiello gli riserva, ci si accorge che il regista ha evidenziato qualcosa che è già nella musica. L’eroe di Cervantes acquisisce infatti una precisa fisionomia, ricca di agglomerati sonori, con improvvise scivolate nel minore, ninne nanne apparentemente incongrue e mille e mille altre trovate armoniche e melodiche di cui solo l’orecchio distratto potrebbe non cogliere la pregnanza fisiognomica con la quale astutamente costruiscono un personaggio ben disegnato e che sfugge alle facilità della tipizzazione.
Gli altri personaggi hanno musiche un po’ più convenzionali, mai però ovvie. Sempre la malinconia si intreccia all’allegria con stupefacente abilità. Talvolta un brivido del basso continuo getta addirittura un’ombra drammatica che svanisce subito. Qui bisogna stare allegri e sorridere; e il fine è pienamente realizzato.
Abbiamo trovato apprezzabilissima la messa in scena del Don Chisciotte di Giovanni Paisiello, che il Teatro dell’Opera ha realizzato al Teatro Valle, anche se la gustosa direzione di Pier Giorgio Morandi è stata ogni tanto tradita da un’orchestra un po’ distratta. Paolo Barbacini (Don Chisciotte), eccellente attore, si è fatto notare per la voce potente e per i bei vocalizzi, però non sempre è risultato preciso nei finali delle frasi e la sua dizione ci è parsa ambigua. Romano Franceschetto (Sancio Pancia) è stato eccezionale, con una bella voce pastosa, profonda e molto espressiva.
Maria Angela Peters (La Contessa) ha esibito una bella voce fluida e squillante. Elena Zilio (La Duchessa) pur espressiva, ha lamentato soprattutto nella prima parte, qualche difficoltà nel passare dai toni acuti a quelli gravi, ma si è ripresa più che brillantemente nell’ultimo atto. Mario Bolognesi (Don Calafrone) ha esibito una voce rotonda e aristocratica. Bruno Praticò (Don Platone) si è distinto per i bei giochi di caratterizzazione vocale. Brave anche Bernadette Lucarini (Carmosina), Francesca Arnone (Cardolella) e Annabella Rossi (Ricciardetta) .
Il gruppo dei Mimi si è ben mosso sui suggerimenti coreografici di Marta Ferri e le scene e i costumi di Ugo Nespolo hanno gustosamente ambientato la scena sotto un Vesuvio quasi futurista. Della regia di Pino Micol, oltre a quanto abbiamo già detto, diremo ancora che è stata capace di amalgamare il tutto con grande sensibilità «armonica» .
Noi vorremmo proprio sapere come è venuta in mente ai responsabili dell’Associazione Culturale l’Arte e lo Spettacolo la perversa idea di organizzare i Sei concerti della serie Musica a Piazza Colonna alle sette del pomeriggio nei giorni a cavallo tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre.
Abbiamo assistito ad un’esecuzione di Bastiano e Bastiana di W.A. Mozart nel frastuono inverecondo del più frastornante caos cittadino; di cui può dare un’idea un episodio esilarante: accadde infatti che ad un certo punto un arpeggio di re maggiore coincidesse perfettamente con il passaggio di un’ambulanza la cui sirena parve ripetere all’impazzata uno strombazzante la-re la-re… e questo per riferire solo una tra le tante ridicole situazioni fatte di strombazzamenti e spernacchiamenti che hanno tentato di sommergere le sublimi melodie mozartiane.
Tanto che vogliamo usare queste righe per condannare apertamente un’operazione pseudo-culturale incomprensibile e demente. Roma è piena di piazzette silenziose e di chiostri appartati in cui sarebbe piacevole ascoltare la musica, perché quindi avvilire artisti e spettatori nel baccano di un infernale centro cittadino? Una trovata poi addirittura ‘geniale’ è stata quella di far ricorso ad un potente impianto di amplificazione, col risultato di sconquassare completamente ogni possibile equilibrio musicale, per cui i solisti tuonavano dagli altoparlanti come voci infuriate dell’Olimpo, sovrastando indecorosamente l’esile orchestra Helios diretta da Stefano Valmaggi, la quale sembrava esalare estremi, flebili, nonché stonatissimi vagiti. Inoltre le poche di per sé già insignificanti battute recitate del testo (si tratta, ricordiamolo, di un Singspiel) erano dette da tre personaggi inqualificabili, le cui voci erano per di più prive di qualunque coerente collegamento con quelle dei cantanti. Ci pare che l’occasione sia troppo squallida per prenderla a pretesto di un commento di una pagina di musica che rappresenta uno tra i vertici massimi toccati dall’occidente.
Quelle di quest’operina sono musiche così belle, rimaste intatte e perfette dopo due secoli, che noi vecchiacci barbogi possiamo solo inchinarci di fronte a tanta perfezione.
E neppure vogliamo parlare di Rousseau, di Mesmer o di chiunque altro.
Sebbene non riusciamo a non ridere amaramente di tanta insipienza vogliamo però rendere merito alla bravura e al coraggio del soprano Leila Bersiani, attenta e corretta in ogni momento; del sopranista Gianni Pala Contini, che, nonostante qualche incertezza, si è dimostrato molto espressivo; e del basso Carlo Guelfi, dalla voce piena, rotonda e vibrante.
Abbiamo detto l’effetto che ci ha fatto l’orchestra, ma nel marasma non ci sentiamo di esprimere drastici giudizi.
Ci auguriamo soltanto che non venga mai più in mente a nessuno di massacrare la musica alle sette della sera nell’arena di Piazza Colonna.
Lo hanno detto tutti, sappiamo quindi di non essere per niente originali nel ripetere che il libretto di Maria Stella Sernas per Il Principe felice, opera musicata da Franco Mannino, presentata in questa stagione al Teatro dell’Opera di Roma è un brutto pasticcio. Il Principe felice e L’usignolo e la rosa, due belle fiabe di Oscar Wilde, sono state assurdamente sintetizzate in un unica favola senza senso.
Nel teatro in musica accade spesso che le parole risultino, sulla scena, incomprensibili e questo può senz’altro essere considerato un vizio di questa forma artistica, ma questa volta accade invece che parole che sarebbe meglio non capire, sono state rivestite di una musica che le rende preoccupantemente comprensibili, tanto che riescono a gettare un’ombra di squallore anche su quei punti in cui l’astuto e accattivante melodiare di Mannino riuscirebbe a costruire accettabili atmosfere.
L’orchestrazione è sapiente: gli strumenti quasi sempre suonano sommessamente e solo di rado tutta l’orchestra si sente compatta; ma per lo più sono pochi strumenti, ben assemblati che esaltano languide melodie che – puccinianamente, ma non soltanto – accarezzano l’orecchio: niente di profondo, anzi! Talvolta sono valzerini e marcette da teatro dei burattini certo non di prima mano né ai prima qualità. Secondo noi c’è una sola scena che ha un vero valore musicale, anche se scempiata dal testo purtroppo comprensibilissimo: il finale del primo atto, quando lo studente, semi-congelato e mezzo morto di fame, stupidamente, vuole che il suo smeraldo si trasformi in una rosa rossa, per darla all’amata (senza rendersi conto che, con il ricavato della vendita della pietra, con qualunque mezzo di trasporto – fosse pure un jet – poteva recarsi nel giusto luogo ove comprare interi fasci di rose purpuree); qui la musica dice col giusto accento quello che le parole non sanno dire, esprimendo l’amore con una melodia tenera e appassionata, retta da un’orchestrazione elegante. Il secondo atto – tanto lodato – non ci è piaciuto proprio per niente per la scontatezza della coreografia di Paolo Bortoluzzi, soprattutto nella prima parte, dove la povertà di idee non era coperta dalla fantasmagoria dei costumi di Luzzati nella «festa a corte». Il gruppo di danzatrici, nella scena delle rose, si muoveva in passaggi e figurazioni vetuste, come avviene in ogni saggio di scuola di danza nelle accademie tersicorèe di provincia, e nella povertà dei gesti risaltava paurosamente l’imprecisione del corpo di ballo negli insieme. Quello del corpo di ballo dell’Opera di Roma è un grosso problema che la direzione artistica ha sempre trascurato e le conseguenze ancora si vedono, malgrado l’iniziativa di alcuni personaggi coraggiosi del balletto, che si sforzano perché la tendenza finalmente cambi.
La regia di Alessandro Sequi non poteva fare nulla per rendere accettabile il comportamento dei personaggi; la sua grande fortuna è stata di potersi annegare nel fantasmagorico splendore delle scene e costumi di Emanuele Luzzati, che, anche sostenuto da investimenti da capogiro, ha offerto tutto il desiderabile per una scena di fiaba, di sogno e d’amore.
Il soprano Elizabeth Norberg-Schulz (la Rondine) è stata veramente eccezionale: la sua voce sgorgava da tutto il suo corpo, con estrema facilità e precisione, sia nelle note lunghe dei recitativi, sia nelle ampie melodie. Sempre musicalmente espressivissima con la voce, lo era altrettanto nella recitazione. La sua vocalità dotata di grande estensione riesce anche nelle punte estreme del registro a tornire note rotonde e piene che subito, però, quando sia necessario, si trasformano in pianissimo di grande delicatezza.
Apprezzabilissimo il tenore Ezio di Cesare (lo Studente): chiaro e melanconico. Luigi De Corato (il Principe) ha usato la sua voce di baritono con dolente efficacia. Tutti gli altri, compreso il coro diretto da Gianni Lazzari, si sono districati abbastanza bene.
Giuseppe Verdi fu un genio del teatro e della musica allo stesso tempo; in effetti, a parte la possente e teatralissima Messa di Requiem, le sue composizioni strumentali o liederistiche sono assolutamente risibili, volgari, sciatte, piene di errori di armonia e di orchestrazione; il suo quasi famoso Quartetto in Mi minore è addirittura una buffonata. Eppure, quando, lentamente, nella sala si fa il buio, ed iniziano le prime note di una ouverture o di una sinfonia teatrale, non si può che rimanere incantati e col fiato sospeso.
Persino le sue opere musicalmente più sgangherate e mal orchestrate riescono a reggere sulla scena, come nel caso, per fare qualche esempio, della Giovanna d’Arco o del Simon Boccanegra. Nonostante la baracconeria dei libretti, il genio teatrale di Verdi, talvolta violento coi poveri drammaturghi, riusciva ad imporre una scena, un’aria o una cabaletta, sebbene accompagnate dal solito zum-pa-pa, che, tutto sommato, hanno presa sugli spettatori. Cattivo gusto nel compositore emiliano ce n’è tantissimo: se si analizzano molte sue opere con la lente di ingrandimento, esse diventano insopportabili, piene di sentimentalismi, melodiuzze da banda di paese e orchestrazioni sgrammaticate; però, sempre, non si sa di dove, sbuca la mano del genio: un arpeggio in minore, il possente Si bemolle-La-Sol di un tenore catturano l’attenzione e per un istante ci si sente completamente coinvolti, anche se poi, ripensandoci verrebbe da dire: «Che stupidaggine».
Così descritto Verdi sembrerebbe soltanto un mistificatore e un prestigiatore; ma come spiegare allora i vertici di somma bellezza della grande trilogia popolare (Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata) o le completamente diverse eppure coerentissime opere della maturità come Un ballo in maschera, o Falstaff? Nelle prime non c’è sciatteria librettistica e accompagnamento di chitarra che tengano: la drammaticità e la potenza teatrali e musicali sono indiscutibili. Nelle opere della vecchiaia invece, come per miracolo, la strumentazione cambia (è banale dire che si affina): ogni strumento ha la sua collocazione perfetta e si abbarbica allo splendore delle melodie con eleganza sbalorditiva.
Tutto questo è sommamente vero in Falstaff che il «Grande Vecchio» nel 1893 dette alle scene, al di fuori di ogni polemica tra verdiani e wagneriani. Opera sorridente e tragica allo stesso tempo, nella quale si narra del vecchio cavaliere shakespeariano, ubriacone e dongiovanni, che rivive una sua ennesima avventura. L’orchestra equilibratissima non ha mai solo funzione di accompagnamento, ma dialoga coi cantanti, infatti è falso affermare che nessuno mai si esprime attraverso una «aria»: tutto il Falstaff è una sola, irresistibile aria. La burla e la disperazione, l’illusione e l’addio alla vita sono così intrecciati che non si possono districare e ben lo si coglie quando, nel finale, con insistenza, l’autore fa ripetere ossessivamente quel motto: «Tutti gabbati!» Una tal grandezza di concezione è stata resa nell’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, nella serata inaugurale della stagione, con dubbi risultati.
Innanzitutto la regia, le scene e i costumi di Beni Montresor sono di una inadeguatezza e di una bruttezza inqualificabili; noi consideriamo il regista veneto un sopportabile scenografo e costumista di operine barocche; però alle prese con un’iniziativa del genere, ci pare abbia dimenticato completamente l’italiano, non sappiamo se per la sua permanenza prolungata in America. Soluzioni sceniche così stupide possono venire solo da chi non sia stato capace di capire nulla del libretto, e non solo della musica (ma, si sa, il malvezzo di affidare le regie d’opera a persone incompetenti musicalmente è vizio non solo italiano). Assolutamente idiota è la trovata di ambientare il Falstaff nell’epoca in cui è stato scritto (alla fine dell’Ottocento). Col risibile pretesto che Verdi si era identificato in Falstaff si è realizzata invece una specie di identificazione di quest’ultimo in Verdi. Le farraginosissime scene e gli sciatti costumi sono di intollerabile bruttezza; se si dovessero raccontare aneddoti per far ridere ce ne sarebbero centinaia; facciamo solo qualche esempio: Bardolfo e Pistola arrivano in scena in bicicletta; ma il libretto li vorrebbe nascosti in fondo alla stanza a spiare, per cui si ascolta la battuta di Falstaff che dice «Escite!» a due che stanno pedalando giù in strada; poi ancora, malgrado il regista voglia far svolgere l’azione nella «Valle Padana fine ‘800», Falstaff, dopo il tuffo nel fiume, bevendo un punch per riscaldarsi dice: «Versiamo un po’ di vino nell’acqua del Tamigi»!
Ancora procedendo è tutto un susseguirsi di pannocchie che spuntano là dove dovrebbero esserci querce; fumanti ciminiere che salgono e scendono all’orizzonte; processioni notturne di biancovestite comunicande un po’ macabre in luogo dei folletti e delle fate nel finale.
Bisogna nettamente distinguere il gruppo dei cantanti maschi da quello delle Signore Cantanti. Juan Pons (Falstaff) ci ha molto delusi, dal momento che ha cantato in modo sciatto e afono, incapace di cogliere le note più basse del suo registro.
Certo, qualche trovata del grand’uomo di scena l’ha saputa escogitare; ma si sentiva che scaturiva dal più ovvio bagaglio di repertorio. Il suo Falstaff non è mai stato davvero drammatico, aggressivo o ironico, ma sempre e solo banale. Nonostante ciò, gli va riconosciuto il merito di essersi saputo amalgamare con i suoi compagni.
Ottimo Bruno Pola (Ford) dalla bella voce, rotonda e precisa, anche se, come nel «duetto» con Falstaff che chiude la prima parte del secondo atto, eccede in drammaticità.
Misurato e calibrato Pietro Ballo (Fenton). Preciso e corretto Mario Bolognesi (Cajus).
Veramente eccezionale la coppia dei seguaci di Falstaff interpretata da Sergio Bertocchi (Bardolfo) e Mario Luperi (Pistola), i quali pur senza mai stridere con la recitazione e la vocalità degli altri, sono stati gli unici ad entrare realmente nello spirito verdiano per merito della loro intonazione precisa e della recitazione espressiva.
Assolutamente deludente invece la prestazione dell’intero cast femminile: Ilona Tokody, Adelina Scarabelli, Carmen Gonzalez e Francesca Franci, anziché le «allegre comari di Windsor» sembravano le tristi, o ancor più, le tragiche megere di Valenza Po.
Peggio di tutte ha fatto la Gonzalez, con la voce spaccata in due: da baritono nelle note basse e da sopranino leggero in quelle alte.
Secondo noi è ingiudicabile la direzione di Evelino Pidò perché l’orchestra pareva letteralmente dormire: le note erano tutte almeno raddoppiate di valore, e per di più scale melense, intonazioni approssimative, affannoso arrancare nel tentativo di seguire i già lentissimi cantanti.
Quando un’orchestra sembra suonare ad orecchio, come si può pretendere di esprimere un parere sul direttore?