72 – Maggio ‘91

maggio , 1991

Il Teatro dell’Opera di Roma ha tentato di risollevare le sorti di un’incerta stagione, mettendo in scena un allestimento interessante dell’opera di Francis Poulenc, su libretto di Georges Bernanos, in lingua originale: Dialogues des Carmélites.

In questo caso non si può tacere dell’importanza del libretto, che noi consideriamo una delle espressioni più alte della poesia, filosofia e drammaturgia del nostro secolo. Storie personali, che si inseriscono nella vicenda storica della rivoluzione francese; il cui terrore raggiunge le monache rinchiuse nel convento di Compiègne. Ecco gli ultimi giorni della vecchia Madre Superiora, che, dopo aver trascorso tutta la vita a riflettere sulla morte; quando l’ora estrema giunge non sa avere altra reazione che quella, umanissima, di paura e di incomprensione davanti a quello che le appare un assurdo. La storia poi di Bianca de la Force, che al convento chiede riparo dal mondo da cui fugge; per fuggire poi anche di lì, inseguita dalla propria paura, che saprà però vincere proprio al momento ultimo, quando, lasciando esterrefatta la folla assiepata sulla piazza del patibolo, aggiungerà il suo canto a quello dell’ultima consorella, stroncato dalla lama, per avviarsi a sua volta alla ghigliottina. La figura pratica e coraggiosa del padre cappellano; quella eroica e tenera della nuova superiora; il tormento interiore di Madre Maria dell’Incarnazione e le storie di tutte le altre monache sulle cui labbra fioriscono meditazioni profondissime e frasi di ingenuità disarmante. La grandezza dei perseguitati diventa emblematica e sottolinea la crudeltà di ogni violenza, anche di quella che si riempie la bocca di rivendicazioni assolute di eguaglianza, fraternità e libertà. Violenza agita da vere e proprie marionette del destino.

Bernanos trasse liberamente il suo testo da un racconto di Gertrude von Le Fort, per farne la sceneggiatura di un film che non fu mai realizzato, testo che, musicato da Poulenc, vide la luce alla Scala di Milano nel 1957.

La musica del grande compositore francese aderisce al libretto con una perfezione mirabile, perché, se per un verso sviscera alcune atmosfere sospese di mistico realismo, per un altro aggiunge ai dialoghi intensità che li portano su sentieri nemmeno sospettabili.

Raramente come in quest’opera si capisce che sebbene potrebbero esistere altre centinaia di rivestimenti musicali, belli, brutti, efficaci o inutili; però l’opera d’arte consiste proprio nell’unica occasione di unione in cui la musica riesce a vivificare la parola rendendola unica, libera e prigioniera di quelle note, che non possono essere che quelle, anche se avrebbero potuto essere mille altre.

Poulenc con un gesto di rispettosa umiltà sacrale, riesce a liberarsi quasi del tutto delle sue pur stupende e graffianti aggressioni sonore; talvolta sature di scarna ironia. Alcuni maestri del passato sono presenti o presentissimi: Debussy, Massenet, Mussorsky, ed anche il realismo pucciniano. Le melodie sono tese, lunghe e struggenti; oppure concise e drammatiche, altre ancore sono prosastiche o meditative.

Non vi sono mai fratture: le atmosfere cambiano il convento, il mondo, la trascendenza e la rabbia giacobine sanno costruire un contrappunto sapientissimo. Tutte le scene sono collegate da quei meravigliosi «interludi» che danno la cifra di ciò che avverrà e commentano. La raffinatezza estrema dell’orchestrazione non toglie nulla alla possibilità di coinvolgimento immediato dell’ascoltatore. La direzione di lan Latham Koenig è stata in ogni momento impeccabile ed equilibratissima; Patricia Schuman assolve il ruolo di Bianca con una voce limpida e misurata, anche nelle punte drammatiche, fin dalla prima scena in cui il personaggio si presenta con una melodia ampia e delicata; diventando poi efficace nel duetto verista e variato con il fratello, il tenore Claudio Di Segni, onesto e corretto. Margarita Zimmermann è la vecchia Priora dalla voce profonda e ricca di coloriti, con bei momenti di abbandono; cui fa pendant Mietta Sighele, la nuova Priora, vocalmente limpida e volitiva, e dal bel fraseggio. Sumi Jo dà la sua voce frizzante ed inquieta alla giovane Suor Costanza. Diane Curry svolge bene il suo compito di rendere le tormentate sfumature di Madre Maria dell’Incarnazione, prima con affermazioni perentorie che si stemperano poi in una progressiva incertezza spirituale che la voce asseconda con ampie articolazioni.

Diego D’ Auria serve bene il personaggio del Cappellano con una voce sicura e commossa.

La regia di Alberto Fassini ci è parsa solo a tratti sicura, anche se ha saputo dare momenti di partecipazione emotiva. Le scene e i costumi di Pasquale Grossi non si sono discostati da una sobria ed economica efficacia, specialmente nelle ambientazioni del Carmelo.