62 – Aprile ‘90

aprile , 1990

Lo hanno detto tutti, sappiamo quindi di non essere per niente originali nel ripetere che il libretto di Maria Stella Sernas per Il Principe felice, opera musicata da Franco Mannino, presentata in questa stagione al Teatro dell’Opera di Roma è un brutto pasticcio. Il Principe felice e L’usignolo e la rosa, due belle fiabe di Oscar Wilde, sono state assurdamente sintetizzate in un unica favola senza senso.

Nel teatro in musica accade spesso che le parole risultino, sulla scena, incomprensibili e questo può senz’altro essere considerato un vizio di questa forma artistica, ma questa volta accade invece che parole che sarebbe meglio non capire, sono state rivestite di una musica che le rende preoccupantemente comprensibili, tanto che riescono a gettare un’ombra di squallore anche su quei punti in cui l’astuto e accattivante melodiare di Mannino riuscirebbe a costruire accettabili atmosfere.

L’orchestrazione è sapiente: gli strumenti quasi sempre suonano sommessamente e solo di rado tutta l’orchestra si sente compatta; ma per lo più sono pochi strumenti, ben assemblati che esaltano languide melodie che – puccinianamente, ma non soltanto – accarezzano l’orecchio: niente di profondo, anzi! Talvolta sono valzerini e marcette da teatro dei burattini certo non di prima mano né ai prima qualità. Secondo noi c’è una sola scena che ha un vero valore musicale, anche se scempiata dal testo purtroppo comprensibilissimo: il finale del primo atto, quando lo studente, semi-congelato e mezzo morto di fame, stupidamente, vuole che il suo smeraldo si trasformi in una rosa rossa, per darla all’amata (senza rendersi conto che, con il ricavato della vendita della pietra, con qualunque mezzo di trasporto – fosse pure un jet – poteva recarsi nel giusto luogo ove comprare interi fasci di rose purpuree); qui la musica dice col giusto accento quello che le parole non sanno dire, esprimendo l’amore con una melodia tenera e appassionata, retta da un’orchestrazione elegante. Il secondo atto – tanto lodato – non ci è piaciuto proprio per niente per la scontatezza della coreografia di Paolo Bortoluzzi, soprattutto nella prima parte, dove la povertà di idee non era coperta dalla fantasmagoria dei costumi di Luzzati nella «festa a corte». Il gruppo di danzatrici, nella scena delle rose, si muoveva in passaggi e figurazioni vetuste, come avviene in ogni saggio di scuola di danza nelle accademie tersicorèe di provincia, e nella povertà dei gesti risaltava paurosamente l’imprecisione del corpo di ballo negli insieme. Quello del corpo di ballo dell’Opera di Roma è un grosso problema che la direzione artistica ha sempre trascurato e le conseguenze ancora si vedono, malgrado l’iniziativa di alcuni personaggi coraggiosi del balletto, che si sforzano perché la tendenza finalmente cambi.

La regia di Alessandro Sequi non poteva fare nulla per rendere accettabile il comportamento dei personaggi; la sua grande fortuna è stata di potersi annegare nel fantasmagorico splendore delle scene e costumi di Emanuele Luzzati, che, anche sostenuto da investimenti da capogiro, ha offerto tutto il desiderabile per una scena di fiaba, di sogno e d’amore.

Il soprano Elizabeth Norberg-Schulz (la Rondine) è stata veramente eccezionale: la sua voce sgorgava da tutto il suo corpo, con estrema facilità e precisione, sia nelle note lunghe dei recitativi, sia nelle ampie melodie. Sempre musicalmente espressivissima con la voce, lo era altrettanto nella recitazione. La sua vocalità dotata di grande estensione riesce anche nelle punte estreme del registro a tornire note rotonde e piene che subito, però, quando sia necessario, si trasformano in pianissimo di grande delicatezza.

Apprezzabilissimo il tenore Ezio di Cesare (lo Studente): chiaro e melanconico. Luigi De Corato (il Principe) ha usato la sua voce di baritono con dolente efficacia. Tutti gli altri, compreso il coro diretto da Gianni Lazzari, si sono districati abbastanza bene.