73 – Giugno ‘91

giugno , 1991

Rigoletto, la prima delle tre opere «popolari» di Giuseppe Verdi, è una tragedia musicale che ha trascinato, coinvolto e commosso milioni di spettatori. Oggi, che sono caduti anche i pregiudizi di alcuni musicisti e musicologi frigidi del primo Novecento, possiamo dire che fa parte del patrimonio culturale del mondo intero. A Verdi piacevano i drammoni a fosche tinte, con sentimenti che squassano, momenti di sadomasochismo parossistico. Le azioni drammatiche che predilige sono terribili e complesse più di quanto sembrino, anche perché non si può quasi mai sapere con precisione dove stiano il bene e il male.

Prendiamo ad esempio la situazione di quest’opera, il cui libretto F. M. Piave ha tratto da Le Roi s’amuse di V. Hugo: appare chiaramente che il Duca di Mantova è un tiranno e un libertino; ma che diritto ha il buffone di tenere incestuosamente nascosta la figlia? Gilda è buona, ma anche un po’ sciocca; i cortigiani sono di una perfidia emblematica. La sofferenza però scuote tutti: persino il Duca trova – con la musica – accenti di commozione e disperazione. Giustamente abbiamo detto «musica»; perché qui è la musica che racconta tutto: Verdi coglie nel testo brandelli di frasi sulle quali costruisce con le sue straordinarie e intensissime melodie. sentimenti di abissale profondità. Come rivela anche il titolo originario La maledizione, questo dramma non è tanto incentrato sull’amore paterno, quanto appunto sul terribile peso di una maledizione, che angosciosamente incombe fin dall’inizio della rappresentazione. Verdi ha voluto, sottolinearlo curando gli effetti sonori tesi a dare un’accentuazione quasi esasperata ogni volta che il ricordo di quella condanna si fa presente. Ad esempio, la frase di Rigoletto. «Quel vecchio maledivami…» cantata con tutti do. Nella stesura preliminare lo stesso verso veniva cantato con un’ascesa melodica che – seppur secca – ammorbidiva troppo l’atmosfera. Quei do della versione definitiva, scarni e terribili,. Racchiudono l’intera tragedia. Ancora tantissime cose si potrebbero dire intorno a questa partitura verdiana che riesce ad esprimere tutti i sentimenti umani; persino l’orchestrazione, apparentemente semplice e talvolta un po’ «bandistica», è calibrata e dosata con cura staordinaria. L’allestimento che ne ha dato l’Opera di Roma in questa fine di stagione ci ha lasciato un po’ perplessi: i primi quadri sembrano tollerabili; ma poi, lentamente, la realizzazione si smaglia ed anziché caricarsi di tensione si smorza; tutto diventa annacquato, impreciso ed anche un po’ sconnesso. Su tutto il cast primeggia June Anderson nei panni di Gilda, con la sua bella voce pulita, capace anche di momenti virtuosistici. In due punti solo non ci è piaciuta: all’inizio di «Caro nome…» dove l’abbiamo sentita inequivocabilmente accelerare, e nella scena della morte dove fa perdere al personaggio molta efficacia drammatica, prendendo i fiati in modo ambiguo. Il Duca di Mantova, Vincenzo La Scola, affronta con impegno il ruolo, grazie alla sua voce gradevole, che pure qua e là stride, come l’impostazione da «bullo» del personaggio. Il Rigoletto, Leo Nucci, supplisce al difetto d’intonazione con la buona efficacia drammatica; in questo senso esemplari sono i tempi, fiati e cesure di «Cortigiani vil razza dannata…», astuti però non tanto da far scordare l’imprecisione della sua intonazione.

Un risultato raccapricciante ci è parso che raggiunga il quartetto famoso dell’ultimo atto: «Bella figlia dell’amor…» Gilda sfora ad ogni passo, il Duca è sforzato, Maddalena è opaca e Rigoletto non si sente.

Viorica Cortez trasforma Maddalena in un travestito afono. Franco De Grandis assolve bene il compito di dare voce a Sparafucile. Tutti gli altri si barcamenano. Sotto la direzione di Bruno Bartoletti abbastanza corretta, ma poco incisiva, l’orchestra fornisce prestazioni non particolarmente brillanti. La regista Silvia Cassini, lo scenografo Luigi Marchione e il costumista Salvatore Russo costruiscono movimenti, ambientazioni ed abiti sontuosamente adeguati, buoni a riempire una scena che non cessa di risultare troppo grande ed affollata, tutto sommato estranea alla dinamica delle passioni essenziali che vi si consumano.