58 – Dicembre ‘89

dicembre , 1989

Giuseppe Verdi fu un genio del teatro e della musica allo stesso tempo; in effetti, a parte la possente e teatralissima Messa di Requiem, le sue composizioni strumentali o liederistiche sono assolutamente risibili, volgari, sciatte, piene di errori di armonia e di orchestrazione; il suo quasi famoso Quartetto in Mi minore è addirittura una buffonata. Eppure, quando, lentamente, nella sala si fa il buio, ed iniziano le prime note di una ouverture o di una sinfonia teatrale, non si può che rimanere incantati e col fiato sospeso.

Persino le sue opere musicalmente più sgangherate e mal orchestrate riescono a reggere sulla scena, come nel caso, per fare qualche esempio, della Giovanna d’Arco o del Simon Boccanegra. Nonostante la baracconeria dei libretti, il genio teatrale di Verdi, talvolta violento coi poveri drammaturghi, riusciva ad imporre una scena, un’aria o una cabaletta, sebbene accompagnate dal solito zum-pa-pa, che, tutto sommato, hanno presa sugli spettatori. Cattivo gusto nel compositore emiliano ce n’è tantissimo: se si analizzano molte sue opere con la lente di ingrandimento, esse diventano insopportabili, piene di sentimentalismi, melodiuzze da banda di paese e orchestrazioni sgrammaticate; però, sempre, non si sa di dove, sbuca la mano del genio: un arpeggio in minore, il possente Si bemolle-La-Sol di un tenore catturano l’attenzione e per un istante ci si sente completamente coinvolti, anche se poi, ripensandoci verrebbe da dire: «Che stupidaggine».

Così descritto Verdi sembrerebbe soltanto un mistificatore e un prestigiatore; ma come spiegare allora i vertici di somma bellezza della grande trilogia popolare (Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata) o le completamente diverse eppure coerentissime opere della maturità come Un ballo in maschera, o Falstaff? Nelle prime non c’è sciatteria librettistica e accompagnamento di chitarra che tengano: la drammaticità e la potenza teatrali e musicali sono indiscutibili. Nelle opere della vecchiaia invece, come per miracolo, la strumentazione cambia (è banale dire che si affina): ogni strumento ha la sua collocazione perfetta e si abbarbica allo splendore delle melodie con eleganza sbalorditiva.

Tutto questo è sommamente vero in Falstaff che il «Grande Vecchio» nel 1893 dette alle scene, al di fuori di ogni polemica tra verdiani e wagneriani. Opera sorridente e tragica allo stesso tempo, nella quale si narra del vecchio cavaliere shakespeariano, ubriacone e dongiovanni, che rivive una sua ennesima avventura. L’orchestra equilibratissima non ha mai solo funzione di accompagnamento, ma dialoga coi cantanti, infatti è falso affermare che nessuno mai si esprime attraverso una «aria»: tutto il Falstaff è una sola, irresistibile aria. La burla e la disperazione, l’illusione e l’addio alla vita sono così intrecciati che non si possono districare e ben lo si coglie quando, nel finale, con insistenza, l’autore fa ripetere ossessivamente quel motto: «Tutti gabbati!» Una tal grandezza di concezione è stata resa nell’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, nella serata inaugurale della stagione, con dubbi risultati.

Innanzitutto la regia, le scene e i costumi di Beni Montresor sono di una inadeguatezza e di una bruttezza inqualificabili; noi consideriamo il regista veneto un sopportabile scenografo e costumista di operine barocche; però alle prese con un’iniziativa del genere, ci pare abbia dimenticato completamente l’italiano, non sappiamo se per la sua permanenza prolungata in America. Soluzioni sceniche così stupide possono venire solo da chi non sia stato capace di capire nulla del libretto, e non solo della musica (ma, si sa, il malvezzo di affidare le regie d’opera a persone incompetenti musicalmente è vizio non solo italiano). Assolutamente idiota è la trovata di ambientare il Falstaff nell’epoca in cui è stato scritto (alla fine dell’Ottocento). Col risibile pretesto che Verdi si era identificato in Falstaff si è realizzata invece una specie di identificazione di quest’ultimo in Verdi. Le farraginosissime scene e gli sciatti costumi sono di intollerabile bruttezza; se si dovessero raccontare aneddoti per far ridere ce ne sarebbero centinaia; facciamo solo qualche esempio: Bardolfo e Pistola arrivano in scena in bicicletta; ma il libretto li vorrebbe nascosti in fondo alla stanza a spiare, per cui si ascolta la battuta di Falstaff che dice «Escite!» a due che stanno pedalando giù in strada; poi ancora, malgrado il regista voglia far svolgere l’azione nella «Valle Padana fine ‘800», Falstaff, dopo il tuffo nel fiume, bevendo un punch per riscaldarsi dice: «Versiamo un po’ di vino nell’acqua del Tamigi»!

Ancora procedendo è tutto un susseguirsi di pannocchie che spuntano là dove dovrebbero esserci querce; fumanti ciminiere che salgono e scendono all’orizzonte; processioni notturne di biancovestite comunicande un po’ macabre in luogo dei folletti e delle fate nel finale.

Bisogna nettamente distinguere il gruppo dei cantanti maschi da quello delle Signore Cantanti. Juan Pons (Falstaff) ci ha molto delusi, dal momento che ha cantato in modo sciatto e afono, incapace di cogliere le note più basse del suo registro.

Certo, qualche trovata del grand’uomo di scena l’ha saputa escogitare; ma si sentiva che scaturiva dal più ovvio bagaglio di repertorio. Il suo Falstaff non è mai stato davvero drammatico, aggressivo o ironico, ma sempre e solo banale. Nonostante ciò, gli va riconosciuto il merito di essersi saputo amalgamare con i suoi compagni.

Ottimo Bruno Pola (Ford) dalla bella voce, rotonda e precisa, anche se, come nel «duetto» con Falstaff che chiude la prima parte del secondo atto, eccede in drammaticità.

Misurato e calibrato Pietro Ballo (Fenton). Preciso e corretto Mario Bolognesi (Cajus).

Veramente eccezionale la coppia dei seguaci di Falstaff interpretata da Sergio Bertocchi (Bardolfo) e Mario Luperi (Pistola), i quali pur senza mai stridere con la recitazione e la vocalità degli altri, sono stati gli unici ad entrare realmente nello spirito verdiano per merito della loro intonazione precisa e della recitazione espressiva.

Assolutamente deludente invece la prestazione dell’intero cast femminile: Ilona Tokody, Adelina Scarabelli, Carmen Gonzalez e Francesca Franci, anziché le «allegre comari di Windsor» sembravano le tristi, o ancor più, le tragiche megere di Valenza Po.

Peggio di tutte ha fatto la Gonzalez, con la voce spaccata in due: da baritono nelle note basse e da sopranino leggero in quelle alte.

Secondo noi è ingiudicabile la direzione di Evelino Pidò perché l’orchestra pareva letteralmente dormire: le note erano tutte almeno raddoppiate di valore, e per di più scale melense, intonazioni approssimative, affannoso arrancare nel tentativo di seguire i già lentissimi cantanti.

Quando un’orchestra sembra suonare ad orecchio, come si può pretendere di esprimere un parere sul direttore?