88 – Dicembre ‘92

1 dicembre 1992

I farfalloni sono molto vecchi, quasi decrepiti e si ricordano di Maria Monti, che pure allora non era più una bambina, nell’interpretazione di un repertorio cabarettistico popolare di grande efficacia: la sua interpretazione de “La balila” la ricordiamo come un gioiello di perfezione; allora certo non c’erano problemi leghisti ed i nordismi erano accettabili ed addirittura simpatici. Nel risentirla in Maria d’amore al Teatro dei Satiri abbiamo avuto l’impressione di vederla coinvolta in un’operazione insulsa. Lei bravissima, esplosiva, acuta, metteva la sua arte al servizio di canzoni “moderne” totalmente imbecilli, le cui parole non avevano significato e la cui musica si costruiva attraverso arpeggi ascendenti e discendenti di irritante monotonia. La bravura della Monti l’abbiamo ritrovata qua e là, ma ci chiediamo perché Patrick Rossi Gastaldi, regista e coautore dello spettacolo con la stessa cantante e i musicisti Costantino Albini e Marco Persichetti non abbiano saputo offrirle qualcosa di più che canzonette acquose ed insignificanti e poche gag scipite.

Lo spettacolo Proviamo in palcoscenico commedia musical in due atti di Patrizia Lafonte, andato in scena al Teatro Tor di Nona, non funziona quasi per niente, il testo è molliccio e noioso, vorrebbe far ridere, ma non ci riesce mai; vorrebbe avere una vena patetica, ma questa è assolutamente risibile; vorrebbe essere un’esaltazione del teatro come forma artistica viva e sana, confrontata con quella televisiva, imbalsamata e consumistica, ed invece è esso stesso quanto di più televisivo e squallido si possa pensare. Un gruppo di ragazzi vuol mettere in scena uno spettacolo; si decide per un testo di Goldoni e si incomincia a provare; di qui partono le prevedibili disavventure: i soldi che non ci sono, le gelosie tra gli attori, i drammi sentimentali etc.; fino a che sopravviene la rinuncia a Goldoni in cambio della decisione di mettere in scena quel musical che da sempre è l’ ambizione di tutti. Al di là della già menzionata insulsaggine del testo di Patrizia La Fonte, la regia di Roberto Bencivenga assomma puerilmente una serie di sketch, oscillanti dal tentativo di emulare la commedia dell’ arte agli esercizi di accademia drammatica. Le musiche, che sono importanti soprattutto quando si pensa al musical, si realizzano in un succedersi di melodie assolutamente pecorecce, messe insieme da Fabio de Santis e lo stesso Roberto Bencivenga, in compenso arrangiate con paziente sapienza da Federico Badaloni. Le povere scene e i poverissimi costumi non sono giustificati da nessuna restrizione economica anche se lo vogliono far credere. Invece una gradevolisima sorpresa è la recitazione dell’intero “cast”: spigliati, ritmici e, se pur giovani, con una più che corretta dizione. Carlo Viani, Carlo il regista, è dlsonentato e aggressivo. Luisa Martelli, la Primadonna, appare ingegnosa e a tratti geniale. Eugenio Menichella lo scrittore, esprime con bravura laidezza spirituale e determinata truculenza. Maritza Carollo, Colombina nonché Jennifer Pickpunk, è capace oltre che ad essere brava attrice anche godibile cantante, nonostante le inevitabili stecche. Veramente eccezionale e piacevolissima l’interpretazione di Gianluigi Agresti, Il Carattere, sempre duttile, poliedrico e in grado di tenere comunque la scena. Abbiamo voluto recensire questo spettacolo di una giovane compagnia, con l’impegno che si può dedicare alle compagnie maggiori, perché riteniamo questa un’operazione culturale valida.
Speriamo che da parte loro ci sia la disponibilità a recepire le critiche come uno stimolo positivo.

87 – Novembre ‘92

1 novembre 1992

Il teatro boulevardier è diventato a Parigi ed in Francia, con Courteline, Labiche e Feydeau, un vero e proprio genere, di grande efficacia spettacolare, se pure un po’ ripetitivo. Comunque, quando queste commedie ad intrigo e ricche di colpi di scena sono manipolate da veri talenti teatrali, il risultato è esteticamente ottimo, oltre che commercialmente redditizio. Il meglio di sé queste opere lo esprimono recitate in francese nel loro ambiente originario, però sono validissime anche fruite in altre lingue e sotto altri cieli, quando traduzione e recitazione sono buone. Andrè Roussin, autore francese morto a Parigi nel 1987, fu ottimo scrittore di questo genere: lieve, arguto, teatralissimo, e perfino delicatamente «impegnato». La compagnia PRO.SA. ha messo in scena al Teatro Nazionale di via De Pretis La cicogna si diverte (Lorsque l’enfant parâit). Di questo testo potremmo dire quello che dicevano gli antichi delle opere satiriche: castigat ridendo mores. Noi assistendo a questo spettacolo ci siamo resi conto di quanto la situazione psichica e morale degli italiani sia critica e di quanto siamo oppressi da una realtà cupa, angosciosa e disperata.
Lo dimostra la reazione del pubblico a questa commediola che, con abilità e simpatia, prende una decisa posizione antiabortista: le situazioni sono esilaranti e ben congegnate, gli attori bravissimi, eppure gli spettatori, maschi e femmine, giovani e vecchi, ridono a denti stretti. Effettivamente sentirsi immersi in una società di assassini, anche se la denuncia è fatta in modo lieve e ridanciano, mette tutti a disagio. In una tranquilla casa borghese la moglie attempata di un anziano ministro, già madre di due figli in età di matrimonio, scopre con disappunto di essere nuovamente incinta. La cosa, come è comprensibile, sconvolge già di per sé la vita del piccolo nucleo famigliare, ma lo sconvolgimento aumenta perché sia la figlia fidanzata, sia la fidanzata del figlio si trovano ad essere nello stesso momento a loro volta incinte.
A questo punto si crea il conflitto che è anche il nucleo del soggetto teatrale: il marito, politico famoso come anti-abortista e ministro impegnato in difesa della famiglia, si trova a dover scegliere tra i propri principi e la propria rispettabilità. Un figlio eccessivamente tardivo che arriva contemporaneamente a due nipotini nati fuori dal matrimonio lo distruggerebbe politicamente, coprendolo di vergogna e di ridicolo, d’altro canto un triplice aborto significherebbe la rinuncia ai propri principi e la compartecipazione ad un omicidio multiplo. Ovviamente questo genere teatrale riesce sempre ad evitare che le cose diventino drammatiche e tutto si risolve addirittura con tante cicogne e con il recupero di un altro figlio, a suo tempo rinnegato, insieme con i peccati di gioventù.
La regia di Ennio Coltorti governa con mano sicura il carosello continuo di situazioni divertenti, lasciando però affiorare quanto è dovuto la serietà dell’ assunto. Paolo Ferrari è piacevolissimo sempre, sia quando gioca col suo personaggio, sia quando ammicca allusivamente agli spettatori restii a recepire la questione di fondo. Valeria Valeri è perfettamente nella parte, senza sforzo. Marco Bolognesi e Maria Cristina Heller sono due figli d’oggi, quasi sempre plausibili, malgrado la fatica di cancellare i trent’anni che sono passati dalla stesura del testo ad oggi. Giuseppe Pertile ha buon gioco nel mettere a fuoco un nonnetto terribile di quelli sempre attuali e sempre superati di cui il teatro e la vita sono pieni. Gli altri sono Aurora Trampus, Salvatore Chiodi e Silvia Irene Lippi. Le scene di’ Gianfranco Padovani, i costumi di Silvia Morucci e le musiche di Luciano e Maurizio Francisci completano in modo ideale questo quadretto che poi, in fondo in fondo, tanto frivolo non è.

Al Teatro Belli, in Piazza Sant’ Apollonia, nel cuore di Trastevere, è andato in scena Ladies’ Night, ovvero: I signori della notte, di Anthony Mc Carten e Stephen Sinc1air, nell’adattamento e con la regia di Roberto Marafante. Lo spettacolo appare nel suo insieme un po’ dissociato, con un effetto molto vicino a quello della maionese «impazzita», in cui gli ingredienti, invece di amalgamarsi, se ne vanno ciascuno per conto suo. Di fatto, la grande trovata è quella di proporre al pubblico romano un vero e proprio spettacolo di spogliarello «maschile» e su questo ha lavorato con grande successo la campagna promozionale, che è infatti riuscita a riempire il teatro di uomini e donne ansiosi di «vedere» gli uomini che si spogliano. La dissociazione sta nel fatto di aver voluto in qualche modo mascherare l’operazione costruendola intorno ad un pretesto teatrale. Così si deve pazientare un intero noiosissimo primo tempo, in cui cinque giovanotti che non sanno recitare e una donnetta che sa recitare ancora meno si contorcono dibattuti da improbabilissime problematiche etico-esistenziali, prima di decidersi a debuttare con uno spettacolo di strip-tease che li toglierà (beata ingenuità) dalla squallida vita di borgata lanciandoli nell’empireo mondano, in un tripudio di luci e di martini cocktail. Purtroppo tutto questo è realizzato sotto l’insegna del più sfacciato dilettantismo: il regista, e forse anche Rosa Fumetto, hanno ben poca conoscenza della tecnica spogliarellistica (ricordiamo di passaggio che il re del Crazy Horse, la mente pensante, fu il signor Alain Bernardin) e commettono quindi l’errore fatale, che toglie al tutto l’unico significato possibile; infatti dichiarano brutalmente fin dall ‘inizio che «l’uccello» non si dovrà vedere. Ora tutti sanno che è proprio la speranza – inconscia fino a un certo punto – di vedere quello che non si potrebbe vedere («uccello» o «passera» che sia) a mantenere viva l’attenzione dello spettatore per un genere che, al di fuori di un’illusione, ben poco di concreto ha da offrire. Perduta quindi l’illusione resta la realtà non esaltante, di un passabile spettacolino di cabaret, mezzo travestito e mezzo svstito, nella più vetusta e turistica tradizione di Pigalle. Lo spogliarello in sé di quattro dei cinque ragazzi (l’altro si veste in lamé e tacchi alti) è pregevolissimo; i quattro sono molto belli nella diversità dei loro gradevoli corpi: dal culturistico all’atletico, passando attraverso il tipo «in forma», e sanno muoversi con bella sensualità che strappa veri urletti, mal mascherati dall’ironia auto-difensiva di spettatori e spettatrici. Se un consiglio si può loro dare, è quello di correggere un’impostazione «femminile» che loro non appartiene e che non sappiamo se provenga dall’influenza del regista o della Fumetto. Speriamo di vedere presto al neon i nomi di Alberto Alemanno, Carlo Conversi, Giorgio Podo, Angelo Sorino e Bruno Verdirosi. Assolutamente incapace ci è parsa Rosa Fumetto: bruttissima e senza alcuna grazia, con una recitazione a metà tra la caricatura del nazista ubriaco e la casalinga scocciata. Bruttissime ci sono parse le musiche siderali di Tito Schipa Junior.
Come facciamo spesso, ci piace annotare anche qualcosa del comportamento del pubblico: c’erano dietro di noi due coppie eterosessuali e nel buio sentivamo i respiri dei due ragazzi farsi un po’ ansanti nella contemplazione dei bei giovanotti; ma non sappiamo perché sono rimasti poi ironicamente silenziosi e senza applaudire i maschietti venuti alla ribalta a fine spettacolo e sono invece andati in delirio spellandosi le mani e urlando a gran voce all’ apparizione di quella Rosa Fumetto della cui presenza non sembravano fino ad allora essersi neppure accorti!

86 – Ottobre ‘92

1 ottobre 1992

A noi piace pochissimo il teatro di Pirandello: lo troviamo sovraccarico di liti e discussioni piccolo-borghesi. Oggi frasi del tipo: «sono stata tua, sono nel fango», «sei stata mia» non contano più nulla. Mentre gli stupendi squassamenti emotivi della mitologia antica che fanno parte del nostro inconscio sociale ci coinvolgono, invece poco ci importa dei tradimenti della signora De Rossi o dei tormenti del ragionier Bianchi.
Questo è il preconcetto che si frappone tra noi e Pirandello anche se non escludiamo che tra trecento anni qualcuno potrà trovare interesse a certe stupidissime storie. Secondo noi il difetto principale del suo teatro è comunque 1′assoluta mancanza di poesia: la sua scrittura scenica si risolve in un’accozzaglia di dialoghi squallidamente realistici, infarciti di una filosofia che ormai è venuta a noia: la filosofia del «così è se vi pare». In genere tutti i personaggi delle sue scipitissime storie si pongono il problema del: «chi sono, chi sei, io sono io ma anche te e tu potresti essere me» e vanno in giro in cerca di un autore che, purtroppo, trovano sempre.
Prima di affrontare il commento al Vestire gli ignudi messo in scena al teatro del Vascello da Marco Parodi, per l’interpretazione di Manuela Kustermann e Paolo Graziosi, ci viene di fare una considerazione: qualche tempo fa abbiamo letto l’osservazione di un critico letterario che ribadiva come tutti i romanzieri non facciano in fondo che scrivere sempre lo stesso romanzo.
Ciò vale secondo noi anche per gli autori di teatro che finiscono per scrivere anche loro sempre la stessa commedia; a maggior ragione ciò è vero per Pirandello nelle cui commedie si ripete sempre lo stesso meccanismo: per un’ora e mezzo annoia mortalmente gli spettatori con discussioni da tinello per poi alla fine, col suo gioco della verità, giungere a costruire «chiacchiere» che, tutto sommato, un pochino coinvolgono davvero. In questa opera invece si può indovinare il tentativo di liberarsi dal solito schema, affidando all’istitutrice Ersilia Drei il compito di enunciare una verità condivisa anche dall’autore. La povera donna, preda tra gli artigli di un console spietato, vittima di un fidanzato traditore e di uno scrittore cinico, vuole finalmente indossare un «abitino dignitoso», anche a costo della vita. La sua verità pare piuttosto semplice: la bambina che custodiva è morta per una sua distrazione di cui si assume la colpa; però il padrone, il fidanzato opportunista e lo scrittore pruriginoso le ruotano attorno raccontando le loro esplicite menzogne nel tentativo di difendersi dalle quali la donna finisce per rivelarsi uguale ai suoi persecutori, ignobile e disonesta come loro e la sua ammissione di vittima di una passione che la travolse solo coi sensi ma dalla quale rifuggiva con la ragione appare falsa. Nonostante Pirandello cerchi di trovare in lei la sua eroina, lo spettatore non può fare a meno di vederne tutta la desolazione che rende la presunta vittima non migliore dei suoi aguzzini. E’ vero che un grande scrittore può coinvolgere chi legge pur raccontando le peripezie di una farfalla, mentre Pirandello annoia lo spettatore che assiste ai suoi drammi borghesi. Noi non riusciamo a capire perché grandi e piccoli attori e grandi e piccoli registi si ostinino a metterlo in scena; tanto che pensiamo che il torto sia nostro e che il siciliano sia meglio di quanto noi crediamo. Quest’ultimo allestimento ci è sembrato comunque particolarmente poco felice: la regia di Parodi era inesistente e lasciava gli attori seguire i loro deliri, indipendentemente gli uni dagli altri, in una scenografia firmata da Sergio Tramonti miserabile e scostante. Le musiche di Germano Mazzocchetti riuscivano ad essere allo stesso tempo insulse e sgradevoli, andando da melodiuzze di accordéon di Montmartre, a melopee orientaleggianti più adeguate ad accompagnare una danza del ventre che i contorcimenti tutti cerebrali dei personaggi.
Nella loro totale mancanza di coordinamento gli interpreti sono stati tutto sommato capaci di esprimere una professionlità più che dignitosa: Manuela Kustermann, platinatissima e curiosamente perfetta per un personaggio di Tennessee Williams, si è prodigata fino a strapparsi le viscere, ma non è riuscita ugualmente a commuovere, forse proprio per la risibilità del personaggio di Ersilia. Paolo Graziosi ha prodotto con grevità azzeccatissima un console Grotti banalmente apprezzabile. Paolo Poiret ha onestamente lavorato riuscendo a rendere dovutamente antipatica la figura dello scrittore Nota. Paolo Musio si è doverosamente limitato a colorire di ottusa stupidità il giqvane fidanzato Laspiga. Marco Prosperini ha: dato al giornalista Cantavalle i toni ignobili e cialtroni che ci si attendeva. Un piccolo gioiello di efficacia è stata Simona Guarini, una insopportabile padrona di casa impicciona, forse solo un po’ monocorde. Il pochissimo pubblico ci è parso, come noi, sufficientemente annoiato.

85 – Settembre ‘92

1 settembre 1992

Nei giorni di questo lavoro di preparazione del nuovo numero della rivista, tra la fine d’agosto e gli inizi di settembre, il panorama romano non offre ai Farfalloni molti stimoli o spunti interessanti. Fino a Ferragosto c’è stato un grande fermento musicale, teatrale ed artistico in genere, che ha visto presentare iniziative davvero interessanti. Vogliamo ricordare tra tutte la stagione del festival delle Ville Tuscolane sotto la direzione artistica di Pamela Villoresi, ha presentato spettacoli di grande suggestione nei bellissimi spazi di cui Frascati è ricca. Noi stessi siamo stati coinvolti in prima persona in ben cinque incontri di carattere eminentemente musicale, che ci hanno proprio divertito. Ci siamo però lasciati scivolare addosso tante altre iniziative sentendoci in vacanza e fruendole da semplici spettatori. Anche le nostre papille gustative hanno avuto bisogno di un po’ di riposo e siamo tornati allegramente a sollazzarci con gli amici in locali considerati «sicuri», ben noti e collaudati, che pure a Roma e dintorni non sono certo molti: cucina sapida e all’antica come quella del frascatano Cacciani; o più raffinata come quella di Benito a Velletri. Ci sono ugualmente occorse alcune disavventure, ma abbiamo preferito dimenticarle, lasciando riposare i nostri strali nella faretra. Ora ci troviamo a corto di argomenti. Ci stiamo guardando attorno un po’ preoccupati.

Vittorio Gassman è da anni un’istituzione del mondo dello spettacolo internazionale. I suoi classici, recitati con voce nasale e vibrante sono stati oggetto della satira televisiva e cabarettistica. Il suo modo sciolto e spigliato di muoversi davanti all’obiettivo cinematografico è conosciuto in tutto il mondo. Noi che al cinema lo abbiamo sempre ammirato incondizionatamente, siamo però stati meno entusiasti delle sue prove teatrali, anche se gli riconosciamo il merito culturale di aver portato al grosso pubblico i grandi nomi della letteratura teatrale. Mentre però la sua vicenda cinematografica ci sembra sostanzialmente priva di sviluppi fin dagli inizi, a teatro lo abbiamo visto passare da Manzoni e Sofocle, fino a Shakespeare e Dumas con un continuo lavoro di approfondimento: dal tonante registro trascinatore di folle degli inizi è passato a toni sempre più meditati e raffinati. Oggi in questo Ulisse e la balena bianca col quale dice di voler dare l’addio al teatro noi lo abbiamo trovato una splendida promessa per il futuro. Ormai pacificato con la propria energia e poesia, col gesto e la parola tanto maturi da non aver bisogno di forzare per comunicare quello che vogliono. Il copione che ha tratto da Melville e da altri, l’attore che questa volta è anche regista se lo è proprio cucito addosso. Nell’allestimento romano al famoso Studio 5 di Cinecittà lo spettacolo inizia già all’aperto con gli attori che agiscono tra gli spettatori come gli imbonitori di una fiera, tra musiche, danze e sketch di vario genere. All’ingresso nella «sala-nave» si è accolti dal suono di una banda (quella del corpo di polizia municipale del comune di Roma) che suona una marcia ironica e spensierata. Renzo Piano ha predisposto per il pubblico due schieramenti a destra e a sinistra del ponte principale della nave, ma all’interno della enorme struttura di legno che rappresenta il Pequod.
L’avvio quasi brechtiano, ricco di siparietti con prostitute e marinai, un’allusione al famoso «estraniamento»; finché al momento giusto, non prima e non dopo, arriva Gassman-Achab. La sua è subito una presenza possente e dimessa allo stesso tempo. Allude senza riserve a temi epici e trascendenti: paganesimo, ebraismo, romanticismo, dosando attentamente ogni effetto. Così la sua lotta contro il fato e la balena incomincia; spazzate via le donne, la nave resta un universo in cui si giocano destini solo maschili (la forte caratterizzazione omofila deve aver spaventato lo stesso Gassman autore e regista, tanto che le figure femminili, trasformate in fantasmi, allucinazioni o ricordi, sono richiamate ogni tanto a bordo per scacciare l’ansia prima che diventi troppo forte). I vari personaggi disegnano nitidamente la loro storia grottesca e disperata e si delinea convincente lo sviluppo di un amore intenso tra Achab e il giovane Ismaele, che sarà il solo superstite e colui che narrerà la tremenda odissea. La balena bianca incombe sempre con la sua presenza, e la sua vittoria, se di vittoria si tratta, si compie dopo tre giorni di lotta e di strage, concludendosi con un abbraccio mortale tra l’uomo e il cetaceo, simbolicamente rappresentato dal corpo nudo di un danzatore. Il «mattatore» che conosciamo da sempre sferra al pubblico il suo ultimo colpo tornando a recitare i versi che Dante dedica ad Ulisse nel suo Inferno. Quando i giochi sembrano ormai definitivamente fatti, la marcetta iniziale, ironica e spensierata torna come per dire a tutti che la vita e il teatro possono anche non essere presi troppo sul serio.
Della eccezionale prestazione di Gassman attore abbiamo già detto, in quest’occasione si è dimostrato anche un ottimo regista: i gesti di tutti erano ben ritmati ed ogni effetto musicale e sonoro elaborato da Nicola Piovani (a dire il vero compositivamente non sempre molto felice) era ben sfruttato. Fabio Bussotti, Stefano Santospago e Massimo Mesciulan sono tre interlocutori diretti e credibili del capitano, capaci ciascuno di costruire una interpretazione a tutto tondo dei loro caratteri. Thwyll Amenya, Gianpaolo Genovesi e Nicola Pannelli sono un terzetto di ramponieri dalla feroce vitalità. Paila Pavese svolge con grande dignità il ruolo di sacerdotessa. Tutti gli altri, a cominciare da Luigi Montini, sono ben più che una convincente cornice. Il gruppo coreografico, guidato dal sensualissimo Daniel Ezralow completa con efficacia l’atmosfera generale. Oltre che della struttura di Piano di cui abbiamo parlato, la scenografia si avvale di elementi pittorici esterni di Emanuele Luzzati.
Abbiamo lasciato per ultimo Alessandro Gassman che si rivelato capace di una prestazione davvero straordinaria, impersonando l’eroico Ismaele: tenerissimo e forte allo stesso tempo, con una presenza scenica quanto mai convincente e una grande intensità drammatica. Sembrerebbe quasi pronto a raccogliere il testimone.

84 – Giugno ‘92

1 giugno 1992

Monsignor Filippo Perrelli (Napoli 1704-1789) fu un prelato bizzarro, sciocco e grottesco: l’arguzia dei napoletani si appropriò delle sue castronerie, le deformò, altre ne inventò e di bocca in bocca il popolo raccontava questi aneddoti che rivelavano la presunzione, l’ignoranza e l’ingenuità del presule.
La gente comune poi sovrappose alla sua figura quella di un altro Monsignor Perrelli, suo nipote Pietro, che egli pure andava in giro per Napoli a dire e fare scempiaggini. Or son tre secoli che a Napoli i nonni raccontano ai nipoti le stramberie di Monsignor Perrelli e per un certo periodo venne addirittura stampato in città un giornale umoristico che si intitolava appunto «Monsignor Perrelli».
Lamberto Lambertini, richiamandosi alla tradizione popolare e agli scritti di Croce e Dumas, ha costruito un testo I fantasmi di Monsignor Perrelli quanto mai gustoso e teatralmente efficace, andato in scena al Teatro Vittoria. Ecco che vediamo il Monsignore che cerca di educare le sue due cavalle a non mangiare, tenendole a digiuno, ma queste con sua somma disperazione gli muoiono di fame proprio quando hanno appena dimostrato di saper vivere senza foraggio alcuno.
Ancora lo vediamo convinto che la luna e il sole lo aspettino all’osservatorio astronomico per dare il via ad una eclisse; ad un certo punto si preoccupa vivamente per essere rimasto ingravidato, e così via. Gli fa da contrappunto sapido e continuo la sua domestica Meneca, astuta e credulona ad un tempo, bigotta e blasfema quanto basta.
Peppe Barra, nei panni della Perpetua è stato realmente insuperabile: espressivissimo e grottesco; talvolta capace di calarsi nei toni di una ingenuità disarmante, pronto a trasformarli improvviso in una graffiante e lasciva ironia. Il suo non è per niente un personaggio en travesti, ma il risultato di una ricerca psicologica, drammatica e poetica, sul personaggio della serva di canonica. Un vertice lo ha toccato nel monologo che ha improvvisato col pubblico, come gli attori della commedia dell’arte o solo i grandissimi dell’avanspettacolo sapevano fare. Patrizio Trampetti è stato capace di fare un controcanto autonomo creando un personaggio a tutto tondo, ricco di una sua originalità fatta anche di una recitazione astuta e paradossale. Insieme con Savio Riccardi lo stesso Trampetti ha costruito le musiche originali eseguite dal vivo che hanno un peso determinante nella riuscita dello spettacolo e sono di eccellente fattura, sapendo unire un buon stile rococò alla migliore tradizione della canzone napoletana più classica. Completano il brillante spettacolo le scene di Aldo Cristini e i costumi di Annalisa Giacci.

Il millenovecento, più o meno a partire dal grande Pirandello, ha fatto venire alla moda un tipo di teatro che noi chiamiamo della «lite». Gli stupendi battibecchi angosciati dei «sei personaggi» o di «così è se vi pare» sono però piombati in mano di scrittori di infima categoria, espressi attraverso testi pieni zeppi di rabbiosi sproloquio Non solo si rimane lontanissimo dalle sublimi disperazioni apocalittiche della tragedia classica o anche di Marlowe o di Shakespeare; ma in queste opere tutti i personaggi litigano sempre immersi in una rissosità schiamazzante, stantia e noiosa. Ad accentuare l’effetto sgradevole contribuiscono certo molto i registi con poche idee, i quali pensano di trovare soluzioni teatrali di effetto drammatico soltanto perché obbligano gli attori ad urlare a pieni polmoni le battute. Un esempio tipico di questo teatro è Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard Marie Koltès, messo in scena a Roma al Teatro dei Satiri qualche tempo fa, tradotto dal francese da Ferdinando Bruni. L’autore vorrebbe richiamarsi a grandi modelli come Artaud, Ionesco o Beckett, tanto per citarne soltanto tre; ma invece il suo copione risulta di una miseria intellettuale assurda. I due unici personaggi: un venditore ed un compratore, in lunghissimi e stupidi monologhi usano il trucchetto di capovolgere sempre i proverbi; già noi non amiamo questi esemplari di idiozia popolare, ma dobbiamo convenire che capovolti risultano ancora più insulsi; ad esempio, il motto «L’abito non fa il monaco», in una lunga sezione del demenziale testo è capovolta in «Il monaco non fa l’abito» e poi anche in «L’abito fa il monaco». Se l’obiettivo fossero solo questi giochetti sui proverbi, ci si potrebbe anche divertire, ma queste ridicolaggini pretendono di esprimersi con frasi seriose e giri interminabili di parole sull’ipotetico rapporto fra l’uomo e il vestito, con chissà quali intenzioni simboliche. Tutto il copione è infarcito di squallidi filosofemi, ad ogni passo sbuca una vena di preteso erotismo omosessuale buono tutt’al più ad emozionare qualche checca immalinconita. Non contribuisce certo a rendere lo scritto accettabile la scenografia di Arnaldo Pomodoro di una volgarità povera ed insopportabile: la scena deborda, occupando più di mezza platea, con l’unico risultato positivo di far sembrare la sala meno vuota di quanto sia in realtà, eccezion fatta per pochi sparuti intellettuali del sottobosco romano che quindi alla fine dello spettacolo si spellano le mani, in applausi estatici. Inoltre infastidiva il pubblico e danneggiava gli attori una scultura aerea e mobile che un rumorosissimo argano faceva abbassare ed alzare per tutta la durata dello spettacolo. Ancora una volta dobbiamo dire male della regia di Cherif che sembra non avere nemmeno letto il testo né aver assistito ad una prova, tanto irrilevante è il suo contributo; ma temiamo che invece il risultato fosse voluto. I costumi di Romeo Gigli si richiamavano ad un trovarobato genericamente da discoteca. Le musiche di Gaslini, frutto di un onesto lavoro risultavano assolutamente pleonastiche nel loro modernismo un po’ fuori moda.
Molto buona abbiamo trovato invece la performance dei due attori Pino Micol e Massimo Belli, o almeno questa è stata la nostra impressione. Micol, il «dealer» si è servito di tutte le sfumature interpretative possibili ad un attore: intenso, violento, drammatico, appassionato e, ovviamente, arrabbiatissimo; ma pensiamo che avrebbe ottenuto lo stesso risultato anche leggendo il menu di un ristorante macrobiotica. Bravo anche il «cliente» Belli, forse un po’ meno fantasmagorico ed istrionico del compagno, ma quanto mai corretto nel gesto e nella parola, ovviamente arrabbiatissimo anche lui.

83 – Maggio ‘92

1 maggio 1992

Un addio al teatro è sempre un evento che chiama commozione e partecipazione. Mario Carotenuto è stato per anni un attore sempre efficacemente presente sulla scena italiana, oltre che sullo schermo. Il teatro di prosa gli ha offerto la possibilità di dimostrare le sue qualità di attore, meglio di quanto non abbia fatto il cinema, anche se in entrambe le situazioni si è pensato di usarlo come «carattere». Per la sua recita finale Carotenuto ha voluto essere protagonista assoluto di un testo che più classico e teatrale non si potrebbe. Il Burbero benefico di Carlo Goldoni. Ma forse l’abitudine lo ha tradito un poco: infatti il rimaneggiamento del testo e dell’ambientazione voluti da lui medesimo e realizzati da Roberto Lerici hanno finito col trasformare il personaggio goldoniano appunto in un «carattere», per altro bello e commovente, della commedia dialettale romanesca. Il bravo attore cavalca la situazione come meglio non si potrebbe, ma nel ruolo di regista non sa offrire appigli ad una compagnia che risulta completamente disorientata e inadeguata, schiacciata dalla grandezza stessa del protagonista. Le scene e i costumi di Santi Migneco e le scarnissime musiche di Armando Trovajoli hanno accentuato l’impressione di festicciola tra «noantri», forse resa un po’ malinconica dalla scarsa affluenza del pubblico che, però, ancora una volta, convinto dalla qualità, ha coperto il suo beniamino di applausi e di simpatia.

Il Teatro Testoni e lo Stabile di Trieste hanno presentato alla Cometa Scacco Pazzo un testo di Vittorio Franceschi, nato, pare, da una collaborazione con Alessandro Haber che ne ha avuto l’idea. I due attori lo hanno allestito insieme, con la regia di Nanni Loy e la partecipazione di Monica Scattini, nel ruolo della protagonista femminile. Lo spunto drammatico dovrebbe venire dal tentativo di rendere sulla scena – ancora una volta – un caso clinico. Antonio è un maturo giovanottone che è impazzito, regredendo fino alle fasi di una prima remota infanzia, in seguito ad un incidente d’auto avvenuto il giorno delle sue nozze nel quale inoltre ha trovato la morte la sposa. Il fratello Valerio, che era, in quella tragica situazione, al volante, non sa liberarsi da quello che gli antichi testi definirebbero «senso di colpa» e rinuncia ad ogni prospettiva di vita autonoma dedicandosi totalmente al malato. La sua vita è però divenuta particolarmente faticosa perché lo psicotico pretende da lui che sostenga tutti i ruoli famigliari tali quali erano nella lontanissima infanzia. Così Valerio ha sempre a portata di mano una parrucca e un grembiule per interpretare il personaggio della mamma, un cappellaccio che gli dà l’autorità del babbo, inoltre deve essere se stesso e si trova anche a dover fare i conti con il bianco velo di nozze della compianta. Per quanto massacrante la cosa funziona fino a che a Valerio non viene in mente di presentare allo sciroccato fratello la propria fidanzata: Marianna. Come vuole il più trito dei luoghi comuni, tra la donna e il folle si stabilisce una sorta di alleanza degli innocenti e i due ne fanno patire di ogni colore a Valerio, colpevole di essere abiettamente «normale». Anche l’alleanza tra le due figure «deboli» del dramma viene però meno, dopo che il bambinaccio tenta di stuprare la ragazza. Il finale lascia la situazione come era all’inizio: con tutte le carte ancora in gioco e una speranza forse in più e forse in meno. Spunti teatrali un testo siffatto ne offre moltissimi; ma quasi tutti, a nostro avviso, di pessima qualità. La figura del matto è come al solito fasullamente poetica, scientificamente scorretta e troppo intrisa di sentimentalismi e «clownerie». Il gioco dei continui travestimenti dovrebbe dare pretesti virtuosistici, ma finisce con l’ingenerare il tedio. Il personaggio della melensa suffragetta è desolantemente e antipaticamente convenzionale. I tre attori, appena sfiorati da un accenno di regia, sono inutilmente bravi. Vittorio Franceschi che al mestier di attore vuole unire, con pieno diritto, quello di autore non dovrebbe pretendersi anche luminare della scienza psichiatrica. Le scene e i costumi di Sergio D’Osmo ricostruivano con realismo un ambiente che non poteva avere alcunché di realistico.

82 – Aprile ‘92

1 aprile 1992

La cena delle beffe è l’opera certamente più nota di Sem Benelli, autore dannunziano, morto nel 1947. Il testo apparve per la prima volta sui palcoscenici del Teatro Argentina di Roma, nel 1909. Da allora fu replicato infinite volte, in Italia e all’estero, e conobbe anche trasposizioni cinematografiche tra le quali noi stessi ricordiamo quella famosa interpretata da Amedeo Nazzari e Clara Calamai. È questo un genere teatrale crepuscolare-borghese e «neogotico» che fu molto in voga a cavallo tra gli ultimi due secoli. Il verso – l’endecasillabo – è drammatico, forte, ma ben tornito. La lingua toscana, nella sua stralunatezza serve molto bene a costruire un’atmosfera storicizzante, sebbene un po’ fasulla. Nulla è corretto dal punto di vista strettamente filologico, però riesce a dare l’illusione di portare lo spettatore nella Firenze quattrocentesca, all’epoca di Lorenzo de’ Medici. Si mescolano aspetti, umoristici, grotteschi e tragici in un continuo avvicendarsi ben ritmato, fino alla conclusione tutta in «nero».
La storia è quella della beffa che Giannetto gioca ai due fratelli Neri e Gabriello Chiaramontesi, i quali a lungo lo hanno oppresso facendolo oggetto di scherno ed umiliazione a causa del suo aspetto fisico e rubandogli la donna: Ginevra. La vendetta di Giannetto inizia col falso pretesto di una cena di riconciliazione, nel corso della quale Giannetto induce lo spavaldo Neri a sfidare lo stesso Magnifico, e a fingersi pazzo per meglio riuscire allo scopo.
Mentre Neri è tenuto in ceppi proprio a causa di questa presunta pazzia, Giannetto, indossando gli abiti di lui, ma va a letto con Ginevra. Fingendo poi di accorrere in suo aiuto, Giannetto fa liberare Neri, ma gli organizza un secondo e più tremendo trabocchetto: attira cioè nel letto di Ginevra il fratello Gabriello al quale ha ceduto i suoi propri abiti. Neri, credendo di compiere l’ultima vendetta si troverà così di fronte alla disperata scoperta di avere ucciso suo fratello al fianco di Ginevra. La beffa è in tal modo completata. L’azione drammatica che Benelli propone conserva una certa efficacia intrinseca, ma vero è che oggi diventa quanto mai difficile proporre una lettura plausibile od originale.
Non ha infatti l’elevatezza artistica che rende alcune opere immortali e richiede quindi un faticoso lavoro che sia capace di eliminare gli spessi strati di polvere che la ricoprono. Riccardo Vannuccini, in veste di regista, ha tentato di dame una lettura «psicoanalitica» ( anche se non sappiamo quanto consapevolmente: di fatto questa scienza permea la nostra lettura di ogni evento quotidiano o straordinario e determina gli orientamenti del nostro inconscio sociale). Emblematicamente viene qui espressa una lettura dell’opera in chiave sado-masochistica; ma quello che va perduto è l’unitarietà che il testo originale possedeva. Vannuccini anche come attore costruisce per sé un personaggio disarticolato, grottesco, stratosferico, esageratamente espressionista: succhia la sofferenza e masochisticamente alla fine esplode per rimanere vittima del proprio godimento. Lando Buzzanca interpreta il suo Neri in modo realistico, violento: «… chi non beve con me peste lo colga!», tutto una brutale esplosione di istinti, risultando così credibilissimo e godibile, ma completamente avulso dal contesto in cui il regista non è riuscito ad includerlo. Tutti gli altri attori che abbiamo visto sulla scena del Ghione, ma soprattutto Milly D’Abbraccio nel ruolo di Ginevra, arrancano e sciabattano, senza riuscire a costruire personaggi sopportabili. Le scene e i costumi di Marco Passeri alludono, in economia, al futurismo e quasi citano De Pero, senza riuscire ad essere più che inevitabili. La colonna sonora è ancora di Vannuccini.

Maddalena Crippa è una «giovane» attrice di indubbio talento: duttile ed aggressiva, sensuale e fantasiosa, sa anche però essere drammatica e grottesca, fino a dimostrare capacità autenticamente comiche. Tutte queste sue doti riesce ad esprimerle anche nella messa in scena di un testo scritto forse su misura per lei da Luigi Spagnol: La lavatrice. Tutte le qualità dell’attrice vengono però sprecate dall’autore con un copione volgare e sciatto, banale come una farsa in giallo, che neppure un pizzico di pirandellismo di quart’ordine riesce a nobilitare. La lavatrice non lancia nessun messaggio, ma soltanto qualche inessenziale spernacchio. Davanti ad un giudice istruttore si trovano tre donne: Wanda la prostituta, Beatrice sua sorella e Pia, figlia di costei ed ex novizia. Devono rendere conto della scomparsa di tale Giorgio Pecchioni, protettore di una e forse seduttore delle altre due. Dalle deposizioni delle tre donne emerge un intreccio piuttosto sordido di interessi e di libidini, di cui l’uomo è oggetto e anche motore. Tutti e tre i racconti hanno il loro perno in un enigmatico elemento: la lavatrice in cui sembrano confluire e disperdersi le ultime tracce dell’uomo, forse fatto a pezzi e «lavato» per fame scomparire le tracce, a parte qualche resto forse dato in pasto all’infernale gatto di casa: Sangenesio. In questi «forse» vorrebbe stare il sale della commedia, ma sono ipotesi che non interesserebbero a nessuno se i tre personaggi che le propongono non fossero tre meravigliose interpretazioni della Crippa, ma meglio sarebbe dire quattro, poiché la brava attrice miagola con efficacia anche il ruolo di Sangenesio. Saltando da un personaggio all’altro ci dà saggi di recitazione realistica e surreale allo stesso tempo, molto ben amalgamati fra loro. È la sua una performance che coinvolge anche l’aspetto fisico, che senza eccessive truccature o travestimenti sa trasformarsi completamente ad esprimere tre diversissimi aspetti dell’abiezione umana e del carattere femminile.
La voce (fuori campo) di Roberto Mantovani svolge bene il suo ufficio, che ci pare anche quello di non togliere spazio alla degna protagonista; riconosciamogli quindi i meriti di bravura ed umiltà. Le scene sono realizzate con la collaborazione di Marcello Cava e gli indovinatissimi costumi sono dovuti alla perizia teatrale di Anna Maria Heinreich.

Al Teatro Politecnico, nel corso della rassegna « Vetrina Italiana», a cura di Mario Prosperi, è andato in scena un testo di Giuseppe Contarino: Trappola per una rondine, con la regia di Ezio M. Caserta, nell’allestimento del Teatro Scientifico di Verona. Un copione dilettantesco e una regia inqualificabile sono riusciti a sbatacchiare a tal punto i poveri attori, forse non così cani come sembravano, fino a costringerci ad una sensazione terribile di vergogna. Poiché i ma1capitati interpreti sono venuti a ringraziare a trenta centimetri da noi siamo stati costretti, vigliaccamente ad applaudire, ma forse anche per semplice carità cristiana. L’arte sarebbe in grado di trasfigurare qualunque cosa, anche le teorie scientifiche, enunciandole a modo suo, stravolgenodole e persino, perché no, tradendole. Però non si può prendere il più squallido manualetto di psicologia e sceneggiare, malamente, il capito letto intitolato: «anoressia mentale». Ecco allora una madre persa nei suoi narcisistici sogni di attrice, un padre vittima ed eccessivamente perbenista, da cui non può essere nata che una figlia vendicativa e anoressica. Tutto finisce bene perché la madre, superato il narcisismo, dimostra che l’amore può tutto: sfruttando le sue doti artistiche si finge malata terminale a causa di un tumore cerebrale, coinvolgendo nella recita anche l’ignaro e palpitante consorte, tanto che di fronte al crescere della disperazione la figlia finisce in cucina a cucinare un bel pollo che la famigliola consumerà liberata dall’incubo di due mali in una volta, quello vero e quello finto. Non si sa bene perché la scelta del regista sia quella di rendere la drammaticità delle situazioni obbligando gli interpreti a pronunciare le parole una ogni dieci minuti. La chiave di lettura vorrebbe essere addirittura iper-realistica; ma il risultato è quello di una totale assurdità, che mortifica tutti: attori e pubblico.
Forse una certa capacità professionale ci è parsa evidente in Annalisa Foà, quando, per le esigenze del ruolo, recita alcune battute di Pirandello, con arguzia e capacità parodistica. Gli altri di cui non vogliamo dire, erano: Andrea Bosic, Isabella Caserta, Giorgio Speri e Roberto Vandelli. Le musiche di repertorio erano scelte da Aldo Piubello e le scene realizzate da Giorgio Tarocco su idea del regista.

79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92

1 gennaio 1992

Eduardo De Filippo è stato come tutti sanno, un grandissimo autore di teatro. I suoi drammi (ed è proprio giusto, secondo noi, usare questo termine romantico, che all’origine stava a designare un testo in cui si compenetravano momenti tragici ed altri schiettamente umoristici) dipingono con intensa poeticità la vita disperata, eroica ed allegra della società napoletana. Anche l’uso della lingua diviene teatrale: un napoletano gustoso, attento e sensuale. Tutti ricordano certamente anche la sua grandezza e smisurata perizia di attore. Se nei suoi testi affiora talvolta il sospetto di eccessivo moralismo e qualche smagliatura demagogica, la sua recitazione rimetteva tutto a posto rendendo ogni esibizione un’opera perfetta. Recitava anche con le sopracciglia, con le orecchie, con i silenzi. Il suo virtuosismo non diventava però mai fine a se stesso, trasformandosi sempre in splendida poesia. La Compagnia diretta da Carlo Giuffré, ha allestito in questa stagione un testo eduardiano del 1948: Le voci di dentro, in scena a Roma al Teatro Eliseo. Non è facile sintetizzarne la trama, che in realtà è poco più che un pretesto per una serie di ritratti a tutto tondo di alcuni personaggi e di un ambiente, apparentemente bonari e ridanciani, che però basta il sospetto sollevato da un sogno a rivelare in tutta la cinica durezza e bassezza morale; apparentemente queste marionette sono capaci di giungere al delitto per coprire colpe proprie anche solo presunte. Carlo Giuffré interpreta il ruolo del protagonista che con la sua confusione tra sogno e realtà è il motore di tutta la vicenda con bravura magistrale: intenso, accorato, umoristico e terribile. Se qualcuno non avesse mai visto recitare Eduardo sarebbe rimasto assolutamente estasiato; ma per chi questa esperienza l’ha avuta, la realizzazione ha il suo neo: tenta di riprodurre troppo fedelmente l’impostazione di De Filippo. Il giudizio in proposito può oscillare tra l’apprezzamento per la fedeltà e la perplessità per la mancata occasione di essere originali.
Lo stesso discorso vale anche per l’eccellente regia di Giuffré. Gli altri attori sono tutti di notevole calibro: da Mario Scarpetta a Linda Moretti, veri comprimari; fino a tutti gli altri: Teresa Del Vecchio, Aldo De Martino, Tullio Del Matto, Maria Basile, Eduardo Cuomo, Anna Maria Giannone, Claudio Veneziano, Massimiliano Esposito, Piero Pepe, Barbara Pieruccetti, Mario Carelli, fino ad Antonio Russo, Luigi Fortunato ed Emanuele Martino. Le scene e i costumi di Aldo Buti sono di un pittoresco e ironico realismo. Molto belle le musiche originali di Romolo Grano: costruite con grande sapienza sottolineano efficacemente le situazioni emotive.

78 – Dicembre ‘91

1 dicembre 1991

Marina e l’altro si intitola lo spettacolo che finalmente è andato in scena anche a Roma, al teatro Flaiano, che Pamela Villoresi interprete e regista, ha già portato sulle scene di molti teatri italiani, dopo il debutto al festival di Asti, la scorsa estate. Il testo di Valeria Moretti costruisce una breve vicenda estrapolando dai diari della poetessa russa Marina Cvetaeva, segnata da un destino tragico di grandezza e follia, nella cornice desolante di una Russia appena emergente dalla rivoluzione d’ottobre, incapace di riconoscere una funzione alla poesia. Ma non bastano certo le rivoluzioni a fermare le ragioni della poesia: nella miseria più degradante Marina scrive con un carboncino e con le unghie ei suoi versi sull’intonaco delle pareti della sua soffitta. Sono versi di un lirismo allucinato ed accorato, che colpiscono a tratti con lancinanti bagliori di verità. L’autrice del copione ha isolato un momento molto particolare di una vita tutta fuori dagli schemi: una sera un ladro irrompe nella stamberga e nella vita di Marina, che lo accoglie sorpresa e capace di sorprenderlo.
L’incontro è quello tra due mondi completamente estranei fino ad allora; entrambi in qualche modo marginali, come possono esserlo in una neonata società bolscevica quelli di un ladro e di una poetessa. L’autrice ha l’intelligenza di non esaltare la follia come un valore assoluto, ma riesce a farne percepire la dolorosa inevitabilità e il disperato squallore. Nella costruzione di un gioco sottile e anche sensuale si snoda un abbozzo di storia amorosa senza possibilità di futuro, anzi quasi sopraffatta dai ricordi di un passato che nella donna si affaccia con prepotente violenza, fino a prevalere sulla realtà presente. Un passato intriso di gioie e di dolori.
Pamela Villoresi sa dosare gli ingredienti della sua recitazione con grande intelligenza, nella mimica, nelle impostazioni della voce, capace di momenti di rarefatto virtuosismo che sfociano in travolgenti onda te di passione e di lirismo, in bilico tra i deliri della mente e le furie dei sensi.
Bruno Armando non è soltanto «l’altro», ma riesce con la sua recitazione controllata e pure mai ovvia a contrapporre un uomo tremendamente vivo e vero, col suo stupore e la sua pesante carnalità che risulta più vicina alla poesia di quanto il personaggio stesso non immagini. La Villoresi dimostra anche polso registico nel tenere sempre tutto sotto controllo. La scena efficacissima di Nanà Cecchi si giova anche del contributo di buoni effetti di luce orchestrati da Cristiano Pogany e dell’eccellente commento musicale di Luciano Vavolo, presenza costante e filo conduttore.

La vecchia signora Venable ha fatto rinchiudere in una clinica per malati di mente la giovane nipote Catherine, la quale dopo essere stata l’unica testimone della tragica morte del figlio rischia ora di comprometterne la reputazione raccontando una sgradevole verità. Secondo la ragazza infatti il giovane Sebastian sarebbe morto vittima di un torbido episodio di cannibalismo in qualche modo provocato da una morbosa smania di autodistruzione del ragazzo preda di incontrollabili impulsi omosessuali e masochistici. Di questa sgradevole verità fa parte anche la constatazione che Sebastian si era sempre servito della figura della madre come esca e schermo femminile per i suoi approcci perversi e che solo nell’ultima estate aveva preferito affidare il ruolo alla giovane cugina, poiché l’età aveva fatto perdere alla signora Venable ogni sensuale attrattiva. Per tenere nascosto tutto questo e proteggere la reputazione del tanto degenere figlio la signora ricatta il fratello e la madre della ragazza con la promessa di generose eredità e giunge persino a tentare di corrompere un giovane scienziato, lo psichiatra dottor Cukrowicz, promettendo gli la creazione di una fondazione per la ricerca scientifica dotata di amplissimi mezzi economici. Sarà sufficiente che i tre diano il permesso e collaborino ad un intervento di lobotomia frontale che cancellerà per sempre dal cervello di Catherine l’imbarazzante ricordo.
Come si vede dal semplice racconto di una simile trama Improvvisamente l’estate scorsa, opera di Tennessee Williams del 1958, è carica di tinte fosche, ambigue e perverse. Tutto è delitto ed anche la giovane ragazza, apparentemente vittima, è inserita più o meno consapevolmente in questi giochi raccapriccianti. Influenze mitologico-psicoanalitiche sono gettate a piene mani: sensi di colpa e auto-distruttività; incesti e cupidigie hanno sullo sfondo un ribaltamento drammatico e grottesco della «orgia totemica». Sproloqui di questo genere si potrebbero tentare indefinitamente a cercare di rendere conto di quanto appare sulla scena. Indubbiamente però la scrittura di Williams è sempre sicura ed efficace, anche se troppo spesso ridondante; ma in ogni caso è assolutamente impossibile tentarne una lettura in chiave edificante e proporne un’interpretazione da filodrammatica di parrocchia. Questo fondamentale errore è stato fatto invece dalla compagnia Nuova Scena che ha messo il testo in scena al teatro Valle con la regia di Cherif e nella traduzione di Masolino D’Amico. Il ruolo della vecchia signora era sostenuto da una Alida Valli sospirosa come la gozzaniana Nonna Speranza e tutti gli altri: Giovanni Visentin, Anna Goel, Carlo de Mejo, Lorella Semi e Anna Zaneva bisbigliavano muovendosi come ectoplasmi sulla fantasmesca scena di Tobia Ercolino. Soltano Raffaella Azim, nel personaggio di Catherine inizia improvvisamente a strillare infrangendo il muro di sopore da cui gli spettatori si trovano avvolti: ma tutti si ricompongono subito, si sa quella è una matta.
Se tanto impercettibile strisciare, accompagnato dai flebili sospiri musicali concepiti da Bruno De Franceschi, era inteso rappresentare un mondo di torbide e sotterranee passioni ha completamente sbagliato l’obiettivo: l’inconscio mondo delle pulsioni più segrete non è mai soporifero, anzi.

I Farfalloni sono veramente stufi della miriade di teatrucoli minuscoli, maleodoranti, scomodi, troppo freddi o troppo caldi che infestano la capitale. L’Abaco in lungotevere Mellini 33 è uno di questi e per di più sbeffeggia lo spettatore spacciandosi anche per un «café théatre» il che significa semplicemente offrire all’ingresso un bicchierozzo di prosecco caldo e acido. Dopo, appollaiato scomodissimamente, pigiato in un corridoio affollato come un autobus nell’ora di punta, il malcapitato potrà tentare di sbirciare ciò che avviene su una piccolissima scena. Noi abbiamo avuto la deprimente esperienza di assistere ad una rappresentazione dello spettacolo di Elena Pandolfi e Caro la Silvestrelli Noi che siamo fidanzate III (Il riciclo – ovvero che cosa fare se baciandolo diventa rospo). Le due autrici, registe ed attrici sono damigelle non certo di eccelsa bravura, però, risultavano protagoniste di una eccezionale performance interpretativa, al confronto dell’insulsaggine complessiva del loro testo e della loro pochezza registica. Noi due, è fin troppo risaputo, non siamo grandi estimatori dell’acuzie femminile, però ci sentiamo in dovere di proclamare che le donne. non sono così cretine, insulse e banali come costoro vorrebbero farci credere attraverso un copione che oltretutto non ha neppure il coraggio di dichiararsi femminista. Le confessioni delle due attricette nel salone del parrucchiere di Cinecittà non hanno per altro la plausibilità di uno spaccato realistico tratto dalle rubriche di corrispondenza dei settimanali femminili, come l’assunto vorrebbe. Peggiorano la situazione due canzonacce musicate da Alberto Giraldi, le coreografie di Carolina Giudice e le scene e costumi di Annalisa Caruso. Sono coinvolte le voci di Sergio Zecca e Alessandro Spadorcia con la gentile collaborazione di Toni Garrani. Un pregio indiscutibile è la fulminea brevità del tutto.

77 – Novembre ‘91

1 novembre 1991

Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea De Chirico) fu un artista dai molti interessi.
Noi abbiamo letto – mai ascoltato – alcune sue romanze, costruite con garbo e cura, niente di più. Conosciamo i suoi lavori teatrali arguti e pungenti, ma niente di più. Come pittore è invece riuscito ad essere una personalità significativa: il suo uso della fantasia e del colore è sapiente, il suo segno graffiante e profondo, esprime giochi della mente ed ambiguità surreali; sotto le sue mani la realtà si trasfigura, assumendo forme inconsuete.
Al teatro Flaiano è andato in scena un suo testo: La famiglia Mastinu; un’opera che in sé non è né bella né brutta, soprattutto è satura di un convenzionalismo antiborghese, ovvio e scontato. In una famiglia squallida, in cui nessuno ha rapporto con gli altri, la vecchia nonna muore e tutti si divertono finalmente un poco nell’adempimento dei rituali convenzionali; ma, passata l’euforia momentanea, tutto riprende monotonamente uguale, in attesa della prossima funerea occasione. Il copione ha il pregio di essere costruito in modo di offrire molte possibilità teatrali a chi sia capace di sfruttarle. La realizzazione del Teatro della Tosse ha saputo cogliere l’occasione’ anche per il determinante contributo della scenografia di Emanuele Luzzati che, parodiando i moduli grafici saviniani, ha preparato un terreno fertile e ricco di connotazioni psicologiche. La regia di Egisto Marcucci ha guidato tutta la compagnia con estrema sapienza: il ritmo era inappuntabile, le invenzioni continue, la gestualità appropriata; tutto ha fatto sì che lo spettacolo risultasse estremamente godibile. Gli attori sono stati bravissimi, eroici anche nella loro capacità di emergere, facendole proprie, dalle pesanti maschere di gomma che mutavano in mostri gli esseri umani; la loro bravura rendeva accettabile un genere di teatro che, preso in sé, non andrebbe al di là di una passabile routine.
I nomi da ricordare sono: Enrico Campanati, Aldo Amoroso, Carla Peirolero, Francesca Corso, Dario Manera, Bruno Cereseto, Gaddo Bagnoli, Giulia Del Monte, Veronica Rocca, Daniele Sulewic, Nicholas Brandon, Lorenzo Anelli, Giuliano Fossati, Enrica Carini. Le gradevoli musiche erano di Bruno Coli.
Noi siamo arrivati in teatro molto presto e ci siamo messi ad ascoltare le chiacchiere del pubblico in attesa; forse era una serata particolare, però abbiamo solo sentito le idiozie banali che venivano poi stigmatizzate dalla vicenda scenica: ci trovavamo in mezzo ad un mucchio di borghesi imbecilli, persino inconsapevoli di essere l’oggetto biasimato dall’autore, appagati per di più dall’impressione di partecipare ad un rito che li caratterizzava fortemente come «intellettuali». Uscendo ci siamo detti con terrore: «E noi?»