86 – Ottobre ‘92

ottobre , 1992

A noi piace pochissimo il teatro di Pirandello: lo troviamo sovraccarico di liti e discussioni piccolo-borghesi. Oggi frasi del tipo: «sono stata tua, sono nel fango», «sei stata mia» non contano più nulla. Mentre gli stupendi squassamenti emotivi della mitologia antica che fanno parte del nostro inconscio sociale ci coinvolgono, invece poco ci importa dei tradimenti della signora De Rossi o dei tormenti del ragionier Bianchi.
Questo è il preconcetto che si frappone tra noi e Pirandello anche se non escludiamo che tra trecento anni qualcuno potrà trovare interesse a certe stupidissime storie. Secondo noi il difetto principale del suo teatro è comunque 1′assoluta mancanza di poesia: la sua scrittura scenica si risolve in un’accozzaglia di dialoghi squallidamente realistici, infarciti di una filosofia che ormai è venuta a noia: la filosofia del «così è se vi pare». In genere tutti i personaggi delle sue scipitissime storie si pongono il problema del: «chi sono, chi sei, io sono io ma anche te e tu potresti essere me» e vanno in giro in cerca di un autore che, purtroppo, trovano sempre.
Prima di affrontare il commento al Vestire gli ignudi messo in scena al teatro del Vascello da Marco Parodi, per l’interpretazione di Manuela Kustermann e Paolo Graziosi, ci viene di fare una considerazione: qualche tempo fa abbiamo letto l’osservazione di un critico letterario che ribadiva come tutti i romanzieri non facciano in fondo che scrivere sempre lo stesso romanzo.
Ciò vale secondo noi anche per gli autori di teatro che finiscono per scrivere anche loro sempre la stessa commedia; a maggior ragione ciò è vero per Pirandello nelle cui commedie si ripete sempre lo stesso meccanismo: per un’ora e mezzo annoia mortalmente gli spettatori con discussioni da tinello per poi alla fine, col suo gioco della verità, giungere a costruire «chiacchiere» che, tutto sommato, un pochino coinvolgono davvero. In questa opera invece si può indovinare il tentativo di liberarsi dal solito schema, affidando all’istitutrice Ersilia Drei il compito di enunciare una verità condivisa anche dall’autore. La povera donna, preda tra gli artigli di un console spietato, vittima di un fidanzato traditore e di uno scrittore cinico, vuole finalmente indossare un «abitino dignitoso», anche a costo della vita. La sua verità pare piuttosto semplice: la bambina che custodiva è morta per una sua distrazione di cui si assume la colpa; però il padrone, il fidanzato opportunista e lo scrittore pruriginoso le ruotano attorno raccontando le loro esplicite menzogne nel tentativo di difendersi dalle quali la donna finisce per rivelarsi uguale ai suoi persecutori, ignobile e disonesta come loro e la sua ammissione di vittima di una passione che la travolse solo coi sensi ma dalla quale rifuggiva con la ragione appare falsa. Nonostante Pirandello cerchi di trovare in lei la sua eroina, lo spettatore non può fare a meno di vederne tutta la desolazione che rende la presunta vittima non migliore dei suoi aguzzini. E’ vero che un grande scrittore può coinvolgere chi legge pur raccontando le peripezie di una farfalla, mentre Pirandello annoia lo spettatore che assiste ai suoi drammi borghesi. Noi non riusciamo a capire perché grandi e piccoli attori e grandi e piccoli registi si ostinino a metterlo in scena; tanto che pensiamo che il torto sia nostro e che il siciliano sia meglio di quanto noi crediamo. Quest’ultimo allestimento ci è sembrato comunque particolarmente poco felice: la regia di Parodi era inesistente e lasciava gli attori seguire i loro deliri, indipendentemente gli uni dagli altri, in una scenografia firmata da Sergio Tramonti miserabile e scostante. Le musiche di Germano Mazzocchetti riuscivano ad essere allo stesso tempo insulse e sgradevoli, andando da melodiuzze di accordéon di Montmartre, a melopee orientaleggianti più adeguate ad accompagnare una danza del ventre che i contorcimenti tutti cerebrali dei personaggi.
Nella loro totale mancanza di coordinamento gli interpreti sono stati tutto sommato capaci di esprimere una professionlità più che dignitosa: Manuela Kustermann, platinatissima e curiosamente perfetta per un personaggio di Tennessee Williams, si è prodigata fino a strapparsi le viscere, ma non è riuscita ugualmente a commuovere, forse proprio per la risibilità del personaggio di Ersilia. Paolo Graziosi ha prodotto con grevità azzeccatissima un console Grotti banalmente apprezzabile. Paolo Poiret ha onestamente lavorato riuscendo a rendere dovutamente antipatica la figura dello scrittore Nota. Paolo Musio si è doverosamente limitato a colorire di ottusa stupidità il giqvane fidanzato Laspiga. Marco Prosperini ha: dato al giornalista Cantavalle i toni ignobili e cialtroni che ci si attendeva. Un piccolo gioiello di efficacia è stata Simona Guarini, una insopportabile padrona di casa impicciona, forse solo un po’ monocorde. Il pochissimo pubblico ci è parso, come noi, sufficientemente annoiato.