84 – Giugno ‘92

giugno , 1992

Monsignor Filippo Perrelli (Napoli 1704-1789) fu un prelato bizzarro, sciocco e grottesco: l’arguzia dei napoletani si appropriò delle sue castronerie, le deformò, altre ne inventò e di bocca in bocca il popolo raccontava questi aneddoti che rivelavano la presunzione, l’ignoranza e l’ingenuità del presule.
La gente comune poi sovrappose alla sua figura quella di un altro Monsignor Perrelli, suo nipote Pietro, che egli pure andava in giro per Napoli a dire e fare scempiaggini. Or son tre secoli che a Napoli i nonni raccontano ai nipoti le stramberie di Monsignor Perrelli e per un certo periodo venne addirittura stampato in città un giornale umoristico che si intitolava appunto «Monsignor Perrelli».
Lamberto Lambertini, richiamandosi alla tradizione popolare e agli scritti di Croce e Dumas, ha costruito un testo I fantasmi di Monsignor Perrelli quanto mai gustoso e teatralmente efficace, andato in scena al Teatro Vittoria. Ecco che vediamo il Monsignore che cerca di educare le sue due cavalle a non mangiare, tenendole a digiuno, ma queste con sua somma disperazione gli muoiono di fame proprio quando hanno appena dimostrato di saper vivere senza foraggio alcuno.
Ancora lo vediamo convinto che la luna e il sole lo aspettino all’osservatorio astronomico per dare il via ad una eclisse; ad un certo punto si preoccupa vivamente per essere rimasto ingravidato, e così via. Gli fa da contrappunto sapido e continuo la sua domestica Meneca, astuta e credulona ad un tempo, bigotta e blasfema quanto basta.
Peppe Barra, nei panni della Perpetua è stato realmente insuperabile: espressivissimo e grottesco; talvolta capace di calarsi nei toni di una ingenuità disarmante, pronto a trasformarli improvviso in una graffiante e lasciva ironia. Il suo non è per niente un personaggio en travesti, ma il risultato di una ricerca psicologica, drammatica e poetica, sul personaggio della serva di canonica. Un vertice lo ha toccato nel monologo che ha improvvisato col pubblico, come gli attori della commedia dell’arte o solo i grandissimi dell’avanspettacolo sapevano fare. Patrizio Trampetti è stato capace di fare un controcanto autonomo creando un personaggio a tutto tondo, ricco di una sua originalità fatta anche di una recitazione astuta e paradossale. Insieme con Savio Riccardi lo stesso Trampetti ha costruito le musiche originali eseguite dal vivo che hanno un peso determinante nella riuscita dello spettacolo e sono di eccellente fattura, sapendo unire un buon stile rococò alla migliore tradizione della canzone napoletana più classica. Completano il brillante spettacolo le scene di Aldo Cristini e i costumi di Annalisa Giacci.

Il millenovecento, più o meno a partire dal grande Pirandello, ha fatto venire alla moda un tipo di teatro che noi chiamiamo della «lite». Gli stupendi battibecchi angosciati dei «sei personaggi» o di «così è se vi pare» sono però piombati in mano di scrittori di infima categoria, espressi attraverso testi pieni zeppi di rabbiosi sproloquio Non solo si rimane lontanissimo dalle sublimi disperazioni apocalittiche della tragedia classica o anche di Marlowe o di Shakespeare; ma in queste opere tutti i personaggi litigano sempre immersi in una rissosità schiamazzante, stantia e noiosa. Ad accentuare l’effetto sgradevole contribuiscono certo molto i registi con poche idee, i quali pensano di trovare soluzioni teatrali di effetto drammatico soltanto perché obbligano gli attori ad urlare a pieni polmoni le battute. Un esempio tipico di questo teatro è Nella solitudine dei campi di cotone di Bernard Marie Koltès, messo in scena a Roma al Teatro dei Satiri qualche tempo fa, tradotto dal francese da Ferdinando Bruni. L’autore vorrebbe richiamarsi a grandi modelli come Artaud, Ionesco o Beckett, tanto per citarne soltanto tre; ma invece il suo copione risulta di una miseria intellettuale assurda. I due unici personaggi: un venditore ed un compratore, in lunghissimi e stupidi monologhi usano il trucchetto di capovolgere sempre i proverbi; già noi non amiamo questi esemplari di idiozia popolare, ma dobbiamo convenire che capovolti risultano ancora più insulsi; ad esempio, il motto «L’abito non fa il monaco», in una lunga sezione del demenziale testo è capovolta in «Il monaco non fa l’abito» e poi anche in «L’abito fa il monaco». Se l’obiettivo fossero solo questi giochetti sui proverbi, ci si potrebbe anche divertire, ma queste ridicolaggini pretendono di esprimersi con frasi seriose e giri interminabili di parole sull’ipotetico rapporto fra l’uomo e il vestito, con chissà quali intenzioni simboliche. Tutto il copione è infarcito di squallidi filosofemi, ad ogni passo sbuca una vena di preteso erotismo omosessuale buono tutt’al più ad emozionare qualche checca immalinconita. Non contribuisce certo a rendere lo scritto accettabile la scenografia di Arnaldo Pomodoro di una volgarità povera ed insopportabile: la scena deborda, occupando più di mezza platea, con l’unico risultato positivo di far sembrare la sala meno vuota di quanto sia in realtà, eccezion fatta per pochi sparuti intellettuali del sottobosco romano che quindi alla fine dello spettacolo si spellano le mani, in applausi estatici. Inoltre infastidiva il pubblico e danneggiava gli attori una scultura aerea e mobile che un rumorosissimo argano faceva abbassare ed alzare per tutta la durata dello spettacolo. Ancora una volta dobbiamo dire male della regia di Cherif che sembra non avere nemmeno letto il testo né aver assistito ad una prova, tanto irrilevante è il suo contributo; ma temiamo che invece il risultato fosse voluto. I costumi di Romeo Gigli si richiamavano ad un trovarobato genericamente da discoteca. Le musiche di Gaslini, frutto di un onesto lavoro risultavano assolutamente pleonastiche nel loro modernismo un po’ fuori moda.
Molto buona abbiamo trovato invece la performance dei due attori Pino Micol e Massimo Belli, o almeno questa è stata la nostra impressione. Micol, il «dealer» si è servito di tutte le sfumature interpretative possibili ad un attore: intenso, violento, drammatico, appassionato e, ovviamente, arrabbiatissimo; ma pensiamo che avrebbe ottenuto lo stesso risultato anche leggendo il menu di un ristorante macrobiotica. Bravo anche il «cliente» Belli, forse un po’ meno fantasmagorico ed istrionico del compagno, ma quanto mai corretto nel gesto e nella parola, ovviamente arrabbiatissimo anche lui.