78 – Dicembre ‘91

dicembre , 1991

Marina e l’altro si intitola lo spettacolo che finalmente è andato in scena anche a Roma, al teatro Flaiano, che Pamela Villoresi interprete e regista, ha già portato sulle scene di molti teatri italiani, dopo il debutto al festival di Asti, la scorsa estate. Il testo di Valeria Moretti costruisce una breve vicenda estrapolando dai diari della poetessa russa Marina Cvetaeva, segnata da un destino tragico di grandezza e follia, nella cornice desolante di una Russia appena emergente dalla rivoluzione d’ottobre, incapace di riconoscere una funzione alla poesia. Ma non bastano certo le rivoluzioni a fermare le ragioni della poesia: nella miseria più degradante Marina scrive con un carboncino e con le unghie ei suoi versi sull’intonaco delle pareti della sua soffitta. Sono versi di un lirismo allucinato ed accorato, che colpiscono a tratti con lancinanti bagliori di verità. L’autrice del copione ha isolato un momento molto particolare di una vita tutta fuori dagli schemi: una sera un ladro irrompe nella stamberga e nella vita di Marina, che lo accoglie sorpresa e capace di sorprenderlo.
L’incontro è quello tra due mondi completamente estranei fino ad allora; entrambi in qualche modo marginali, come possono esserlo in una neonata società bolscevica quelli di un ladro e di una poetessa. L’autrice ha l’intelligenza di non esaltare la follia come un valore assoluto, ma riesce a farne percepire la dolorosa inevitabilità e il disperato squallore. Nella costruzione di un gioco sottile e anche sensuale si snoda un abbozzo di storia amorosa senza possibilità di futuro, anzi quasi sopraffatta dai ricordi di un passato che nella donna si affaccia con prepotente violenza, fino a prevalere sulla realtà presente. Un passato intriso di gioie e di dolori.
Pamela Villoresi sa dosare gli ingredienti della sua recitazione con grande intelligenza, nella mimica, nelle impostazioni della voce, capace di momenti di rarefatto virtuosismo che sfociano in travolgenti onda te di passione e di lirismo, in bilico tra i deliri della mente e le furie dei sensi.
Bruno Armando non è soltanto «l’altro», ma riesce con la sua recitazione controllata e pure mai ovvia a contrapporre un uomo tremendamente vivo e vero, col suo stupore e la sua pesante carnalità che risulta più vicina alla poesia di quanto il personaggio stesso non immagini. La Villoresi dimostra anche polso registico nel tenere sempre tutto sotto controllo. La scena efficacissima di Nanà Cecchi si giova anche del contributo di buoni effetti di luce orchestrati da Cristiano Pogany e dell’eccellente commento musicale di Luciano Vavolo, presenza costante e filo conduttore.

La vecchia signora Venable ha fatto rinchiudere in una clinica per malati di mente la giovane nipote Catherine, la quale dopo essere stata l’unica testimone della tragica morte del figlio rischia ora di comprometterne la reputazione raccontando una sgradevole verità. Secondo la ragazza infatti il giovane Sebastian sarebbe morto vittima di un torbido episodio di cannibalismo in qualche modo provocato da una morbosa smania di autodistruzione del ragazzo preda di incontrollabili impulsi omosessuali e masochistici. Di questa sgradevole verità fa parte anche la constatazione che Sebastian si era sempre servito della figura della madre come esca e schermo femminile per i suoi approcci perversi e che solo nell’ultima estate aveva preferito affidare il ruolo alla giovane cugina, poiché l’età aveva fatto perdere alla signora Venable ogni sensuale attrattiva. Per tenere nascosto tutto questo e proteggere la reputazione del tanto degenere figlio la signora ricatta il fratello e la madre della ragazza con la promessa di generose eredità e giunge persino a tentare di corrompere un giovane scienziato, lo psichiatra dottor Cukrowicz, promettendo gli la creazione di una fondazione per la ricerca scientifica dotata di amplissimi mezzi economici. Sarà sufficiente che i tre diano il permesso e collaborino ad un intervento di lobotomia frontale che cancellerà per sempre dal cervello di Catherine l’imbarazzante ricordo.
Come si vede dal semplice racconto di una simile trama Improvvisamente l’estate scorsa, opera di Tennessee Williams del 1958, è carica di tinte fosche, ambigue e perverse. Tutto è delitto ed anche la giovane ragazza, apparentemente vittima, è inserita più o meno consapevolmente in questi giochi raccapriccianti. Influenze mitologico-psicoanalitiche sono gettate a piene mani: sensi di colpa e auto-distruttività; incesti e cupidigie hanno sullo sfondo un ribaltamento drammatico e grottesco della «orgia totemica». Sproloqui di questo genere si potrebbero tentare indefinitamente a cercare di rendere conto di quanto appare sulla scena. Indubbiamente però la scrittura di Williams è sempre sicura ed efficace, anche se troppo spesso ridondante; ma in ogni caso è assolutamente impossibile tentarne una lettura in chiave edificante e proporne un’interpretazione da filodrammatica di parrocchia. Questo fondamentale errore è stato fatto invece dalla compagnia Nuova Scena che ha messo il testo in scena al teatro Valle con la regia di Cherif e nella traduzione di Masolino D’Amico. Il ruolo della vecchia signora era sostenuto da una Alida Valli sospirosa come la gozzaniana Nonna Speranza e tutti gli altri: Giovanni Visentin, Anna Goel, Carlo de Mejo, Lorella Semi e Anna Zaneva bisbigliavano muovendosi come ectoplasmi sulla fantasmesca scena di Tobia Ercolino. Soltano Raffaella Azim, nel personaggio di Catherine inizia improvvisamente a strillare infrangendo il muro di sopore da cui gli spettatori si trovano avvolti: ma tutti si ricompongono subito, si sa quella è una matta.
Se tanto impercettibile strisciare, accompagnato dai flebili sospiri musicali concepiti da Bruno De Franceschi, era inteso rappresentare un mondo di torbide e sotterranee passioni ha completamente sbagliato l’obiettivo: l’inconscio mondo delle pulsioni più segrete non è mai soporifero, anzi.

I Farfalloni sono veramente stufi della miriade di teatrucoli minuscoli, maleodoranti, scomodi, troppo freddi o troppo caldi che infestano la capitale. L’Abaco in lungotevere Mellini 33 è uno di questi e per di più sbeffeggia lo spettatore spacciandosi anche per un «café théatre» il che significa semplicemente offrire all’ingresso un bicchierozzo di prosecco caldo e acido. Dopo, appollaiato scomodissimamente, pigiato in un corridoio affollato come un autobus nell’ora di punta, il malcapitato potrà tentare di sbirciare ciò che avviene su una piccolissima scena. Noi abbiamo avuto la deprimente esperienza di assistere ad una rappresentazione dello spettacolo di Elena Pandolfi e Caro la Silvestrelli Noi che siamo fidanzate III (Il riciclo – ovvero che cosa fare se baciandolo diventa rospo). Le due autrici, registe ed attrici sono damigelle non certo di eccelsa bravura, però, risultavano protagoniste di una eccezionale performance interpretativa, al confronto dell’insulsaggine complessiva del loro testo e della loro pochezza registica. Noi due, è fin troppo risaputo, non siamo grandi estimatori dell’acuzie femminile, però ci sentiamo in dovere di proclamare che le donne. non sono così cretine, insulse e banali come costoro vorrebbero farci credere attraverso un copione che oltretutto non ha neppure il coraggio di dichiararsi femminista. Le confessioni delle due attricette nel salone del parrucchiere di Cinecittà non hanno per altro la plausibilità di uno spaccato realistico tratto dalle rubriche di corrispondenza dei settimanali femminili, come l’assunto vorrebbe. Peggiorano la situazione due canzonacce musicate da Alberto Giraldi, le coreografie di Carolina Giudice e le scene e costumi di Annalisa Caruso. Sono coinvolte le voci di Sergio Zecca e Alessandro Spadorcia con la gentile collaborazione di Toni Garrani. Un pregio indiscutibile è la fulminea brevità del tutto.