82 – Aprile ‘92

aprile , 1992

La cena delle beffe è l’opera certamente più nota di Sem Benelli, autore dannunziano, morto nel 1947. Il testo apparve per la prima volta sui palcoscenici del Teatro Argentina di Roma, nel 1909. Da allora fu replicato infinite volte, in Italia e all’estero, e conobbe anche trasposizioni cinematografiche tra le quali noi stessi ricordiamo quella famosa interpretata da Amedeo Nazzari e Clara Calamai. È questo un genere teatrale crepuscolare-borghese e «neogotico» che fu molto in voga a cavallo tra gli ultimi due secoli. Il verso – l’endecasillabo – è drammatico, forte, ma ben tornito. La lingua toscana, nella sua stralunatezza serve molto bene a costruire un’atmosfera storicizzante, sebbene un po’ fasulla. Nulla è corretto dal punto di vista strettamente filologico, però riesce a dare l’illusione di portare lo spettatore nella Firenze quattrocentesca, all’epoca di Lorenzo de’ Medici. Si mescolano aspetti, umoristici, grotteschi e tragici in un continuo avvicendarsi ben ritmato, fino alla conclusione tutta in «nero».
La storia è quella della beffa che Giannetto gioca ai due fratelli Neri e Gabriello Chiaramontesi, i quali a lungo lo hanno oppresso facendolo oggetto di scherno ed umiliazione a causa del suo aspetto fisico e rubandogli la donna: Ginevra. La vendetta di Giannetto inizia col falso pretesto di una cena di riconciliazione, nel corso della quale Giannetto induce lo spavaldo Neri a sfidare lo stesso Magnifico, e a fingersi pazzo per meglio riuscire allo scopo.
Mentre Neri è tenuto in ceppi proprio a causa di questa presunta pazzia, Giannetto, indossando gli abiti di lui, ma va a letto con Ginevra. Fingendo poi di accorrere in suo aiuto, Giannetto fa liberare Neri, ma gli organizza un secondo e più tremendo trabocchetto: attira cioè nel letto di Ginevra il fratello Gabriello al quale ha ceduto i suoi propri abiti. Neri, credendo di compiere l’ultima vendetta si troverà così di fronte alla disperata scoperta di avere ucciso suo fratello al fianco di Ginevra. La beffa è in tal modo completata. L’azione drammatica che Benelli propone conserva una certa efficacia intrinseca, ma vero è che oggi diventa quanto mai difficile proporre una lettura plausibile od originale.
Non ha infatti l’elevatezza artistica che rende alcune opere immortali e richiede quindi un faticoso lavoro che sia capace di eliminare gli spessi strati di polvere che la ricoprono. Riccardo Vannuccini, in veste di regista, ha tentato di dame una lettura «psicoanalitica» ( anche se non sappiamo quanto consapevolmente: di fatto questa scienza permea la nostra lettura di ogni evento quotidiano o straordinario e determina gli orientamenti del nostro inconscio sociale). Emblematicamente viene qui espressa una lettura dell’opera in chiave sado-masochistica; ma quello che va perduto è l’unitarietà che il testo originale possedeva. Vannuccini anche come attore costruisce per sé un personaggio disarticolato, grottesco, stratosferico, esageratamente espressionista: succhia la sofferenza e masochisticamente alla fine esplode per rimanere vittima del proprio godimento. Lando Buzzanca interpreta il suo Neri in modo realistico, violento: «… chi non beve con me peste lo colga!», tutto una brutale esplosione di istinti, risultando così credibilissimo e godibile, ma completamente avulso dal contesto in cui il regista non è riuscito ad includerlo. Tutti gli altri attori che abbiamo visto sulla scena del Ghione, ma soprattutto Milly D’Abbraccio nel ruolo di Ginevra, arrancano e sciabattano, senza riuscire a costruire personaggi sopportabili. Le scene e i costumi di Marco Passeri alludono, in economia, al futurismo e quasi citano De Pero, senza riuscire ad essere più che inevitabili. La colonna sonora è ancora di Vannuccini.

Maddalena Crippa è una «giovane» attrice di indubbio talento: duttile ed aggressiva, sensuale e fantasiosa, sa anche però essere drammatica e grottesca, fino a dimostrare capacità autenticamente comiche. Tutte queste sue doti riesce ad esprimerle anche nella messa in scena di un testo scritto forse su misura per lei da Luigi Spagnol: La lavatrice. Tutte le qualità dell’attrice vengono però sprecate dall’autore con un copione volgare e sciatto, banale come una farsa in giallo, che neppure un pizzico di pirandellismo di quart’ordine riesce a nobilitare. La lavatrice non lancia nessun messaggio, ma soltanto qualche inessenziale spernacchio. Davanti ad un giudice istruttore si trovano tre donne: Wanda la prostituta, Beatrice sua sorella e Pia, figlia di costei ed ex novizia. Devono rendere conto della scomparsa di tale Giorgio Pecchioni, protettore di una e forse seduttore delle altre due. Dalle deposizioni delle tre donne emerge un intreccio piuttosto sordido di interessi e di libidini, di cui l’uomo è oggetto e anche motore. Tutti e tre i racconti hanno il loro perno in un enigmatico elemento: la lavatrice in cui sembrano confluire e disperdersi le ultime tracce dell’uomo, forse fatto a pezzi e «lavato» per fame scomparire le tracce, a parte qualche resto forse dato in pasto all’infernale gatto di casa: Sangenesio. In questi «forse» vorrebbe stare il sale della commedia, ma sono ipotesi che non interesserebbero a nessuno se i tre personaggi che le propongono non fossero tre meravigliose interpretazioni della Crippa, ma meglio sarebbe dire quattro, poiché la brava attrice miagola con efficacia anche il ruolo di Sangenesio. Saltando da un personaggio all’altro ci dà saggi di recitazione realistica e surreale allo stesso tempo, molto ben amalgamati fra loro. È la sua una performance che coinvolge anche l’aspetto fisico, che senza eccessive truccature o travestimenti sa trasformarsi completamente ad esprimere tre diversissimi aspetti dell’abiezione umana e del carattere femminile.
La voce (fuori campo) di Roberto Mantovani svolge bene il suo ufficio, che ci pare anche quello di non togliere spazio alla degna protagonista; riconosciamogli quindi i meriti di bravura ed umiltà. Le scene sono realizzate con la collaborazione di Marcello Cava e gli indovinatissimi costumi sono dovuti alla perizia teatrale di Anna Maria Heinreich.

Al Teatro Politecnico, nel corso della rassegna « Vetrina Italiana», a cura di Mario Prosperi, è andato in scena un testo di Giuseppe Contarino: Trappola per una rondine, con la regia di Ezio M. Caserta, nell’allestimento del Teatro Scientifico di Verona. Un copione dilettantesco e una regia inqualificabile sono riusciti a sbatacchiare a tal punto i poveri attori, forse non così cani come sembravano, fino a costringerci ad una sensazione terribile di vergogna. Poiché i ma1capitati interpreti sono venuti a ringraziare a trenta centimetri da noi siamo stati costretti, vigliaccamente ad applaudire, ma forse anche per semplice carità cristiana. L’arte sarebbe in grado di trasfigurare qualunque cosa, anche le teorie scientifiche, enunciandole a modo suo, stravolgenodole e persino, perché no, tradendole. Però non si può prendere il più squallido manualetto di psicologia e sceneggiare, malamente, il capito letto intitolato: «anoressia mentale». Ecco allora una madre persa nei suoi narcisistici sogni di attrice, un padre vittima ed eccessivamente perbenista, da cui non può essere nata che una figlia vendicativa e anoressica. Tutto finisce bene perché la madre, superato il narcisismo, dimostra che l’amore può tutto: sfruttando le sue doti artistiche si finge malata terminale a causa di un tumore cerebrale, coinvolgendo nella recita anche l’ignaro e palpitante consorte, tanto che di fronte al crescere della disperazione la figlia finisce in cucina a cucinare un bel pollo che la famigliola consumerà liberata dall’incubo di due mali in una volta, quello vero e quello finto. Non si sa bene perché la scelta del regista sia quella di rendere la drammaticità delle situazioni obbligando gli interpreti a pronunciare le parole una ogni dieci minuti. La chiave di lettura vorrebbe essere addirittura iper-realistica; ma il risultato è quello di una totale assurdità, che mortifica tutti: attori e pubblico.
Forse una certa capacità professionale ci è parsa evidente in Annalisa Foà, quando, per le esigenze del ruolo, recita alcune battute di Pirandello, con arguzia e capacità parodistica. Gli altri di cui non vogliamo dire, erano: Andrea Bosic, Isabella Caserta, Giorgio Speri e Roberto Vandelli. Le musiche di repertorio erano scelte da Aldo Piubello e le scene realizzate da Giorgio Tarocco su idea del regista.