87 – Novembre ‘92

novembre , 1992

Il teatro boulevardier è diventato a Parigi ed in Francia, con Courteline, Labiche e Feydeau, un vero e proprio genere, di grande efficacia spettacolare, se pure un po’ ripetitivo. Comunque, quando queste commedie ad intrigo e ricche di colpi di scena sono manipolate da veri talenti teatrali, il risultato è esteticamente ottimo, oltre che commercialmente redditizio. Il meglio di sé queste opere lo esprimono recitate in francese nel loro ambiente originario, però sono validissime anche fruite in altre lingue e sotto altri cieli, quando traduzione e recitazione sono buone. Andrè Roussin, autore francese morto a Parigi nel 1987, fu ottimo scrittore di questo genere: lieve, arguto, teatralissimo, e perfino delicatamente «impegnato». La compagnia PRO.SA. ha messo in scena al Teatro Nazionale di via De Pretis La cicogna si diverte (Lorsque l’enfant parâit). Di questo testo potremmo dire quello che dicevano gli antichi delle opere satiriche: castigat ridendo mores. Noi assistendo a questo spettacolo ci siamo resi conto di quanto la situazione psichica e morale degli italiani sia critica e di quanto siamo oppressi da una realtà cupa, angosciosa e disperata.
Lo dimostra la reazione del pubblico a questa commediola che, con abilità e simpatia, prende una decisa posizione antiabortista: le situazioni sono esilaranti e ben congegnate, gli attori bravissimi, eppure gli spettatori, maschi e femmine, giovani e vecchi, ridono a denti stretti. Effettivamente sentirsi immersi in una società di assassini, anche se la denuncia è fatta in modo lieve e ridanciano, mette tutti a disagio. In una tranquilla casa borghese la moglie attempata di un anziano ministro, già madre di due figli in età di matrimonio, scopre con disappunto di essere nuovamente incinta. La cosa, come è comprensibile, sconvolge già di per sé la vita del piccolo nucleo famigliare, ma lo sconvolgimento aumenta perché sia la figlia fidanzata, sia la fidanzata del figlio si trovano ad essere nello stesso momento a loro volta incinte.
A questo punto si crea il conflitto che è anche il nucleo del soggetto teatrale: il marito, politico famoso come anti-abortista e ministro impegnato in difesa della famiglia, si trova a dover scegliere tra i propri principi e la propria rispettabilità. Un figlio eccessivamente tardivo che arriva contemporaneamente a due nipotini nati fuori dal matrimonio lo distruggerebbe politicamente, coprendolo di vergogna e di ridicolo, d’altro canto un triplice aborto significherebbe la rinuncia ai propri principi e la compartecipazione ad un omicidio multiplo. Ovviamente questo genere teatrale riesce sempre ad evitare che le cose diventino drammatiche e tutto si risolve addirittura con tante cicogne e con il recupero di un altro figlio, a suo tempo rinnegato, insieme con i peccati di gioventù.
La regia di Ennio Coltorti governa con mano sicura il carosello continuo di situazioni divertenti, lasciando però affiorare quanto è dovuto la serietà dell’ assunto. Paolo Ferrari è piacevolissimo sempre, sia quando gioca col suo personaggio, sia quando ammicca allusivamente agli spettatori restii a recepire la questione di fondo. Valeria Valeri è perfettamente nella parte, senza sforzo. Marco Bolognesi e Maria Cristina Heller sono due figli d’oggi, quasi sempre plausibili, malgrado la fatica di cancellare i trent’anni che sono passati dalla stesura del testo ad oggi. Giuseppe Pertile ha buon gioco nel mettere a fuoco un nonnetto terribile di quelli sempre attuali e sempre superati di cui il teatro e la vita sono pieni. Gli altri sono Aurora Trampus, Salvatore Chiodi e Silvia Irene Lippi. Le scene di’ Gianfranco Padovani, i costumi di Silvia Morucci e le musiche di Luciano e Maurizio Francisci completano in modo ideale questo quadretto che poi, in fondo in fondo, tanto frivolo non è.

Al Teatro Belli, in Piazza Sant’ Apollonia, nel cuore di Trastevere, è andato in scena Ladies’ Night, ovvero: I signori della notte, di Anthony Mc Carten e Stephen Sinc1air, nell’adattamento e con la regia di Roberto Marafante. Lo spettacolo appare nel suo insieme un po’ dissociato, con un effetto molto vicino a quello della maionese «impazzita», in cui gli ingredienti, invece di amalgamarsi, se ne vanno ciascuno per conto suo. Di fatto, la grande trovata è quella di proporre al pubblico romano un vero e proprio spettacolo di spogliarello «maschile» e su questo ha lavorato con grande successo la campagna promozionale, che è infatti riuscita a riempire il teatro di uomini e donne ansiosi di «vedere» gli uomini che si spogliano. La dissociazione sta nel fatto di aver voluto in qualche modo mascherare l’operazione costruendola intorno ad un pretesto teatrale. Così si deve pazientare un intero noiosissimo primo tempo, in cui cinque giovanotti che non sanno recitare e una donnetta che sa recitare ancora meno si contorcono dibattuti da improbabilissime problematiche etico-esistenziali, prima di decidersi a debuttare con uno spettacolo di strip-tease che li toglierà (beata ingenuità) dalla squallida vita di borgata lanciandoli nell’empireo mondano, in un tripudio di luci e di martini cocktail. Purtroppo tutto questo è realizzato sotto l’insegna del più sfacciato dilettantismo: il regista, e forse anche Rosa Fumetto, hanno ben poca conoscenza della tecnica spogliarellistica (ricordiamo di passaggio che il re del Crazy Horse, la mente pensante, fu il signor Alain Bernardin) e commettono quindi l’errore fatale, che toglie al tutto l’unico significato possibile; infatti dichiarano brutalmente fin dall ‘inizio che «l’uccello» non si dovrà vedere. Ora tutti sanno che è proprio la speranza – inconscia fino a un certo punto – di vedere quello che non si potrebbe vedere («uccello» o «passera» che sia) a mantenere viva l’attenzione dello spettatore per un genere che, al di fuori di un’illusione, ben poco di concreto ha da offrire. Perduta quindi l’illusione resta la realtà non esaltante, di un passabile spettacolino di cabaret, mezzo travestito e mezzo svstito, nella più vetusta e turistica tradizione di Pigalle. Lo spogliarello in sé di quattro dei cinque ragazzi (l’altro si veste in lamé e tacchi alti) è pregevolissimo; i quattro sono molto belli nella diversità dei loro gradevoli corpi: dal culturistico all’atletico, passando attraverso il tipo «in forma», e sanno muoversi con bella sensualità che strappa veri urletti, mal mascherati dall’ironia auto-difensiva di spettatori e spettatrici. Se un consiglio si può loro dare, è quello di correggere un’impostazione «femminile» che loro non appartiene e che non sappiamo se provenga dall’influenza del regista o della Fumetto. Speriamo di vedere presto al neon i nomi di Alberto Alemanno, Carlo Conversi, Giorgio Podo, Angelo Sorino e Bruno Verdirosi. Assolutamente incapace ci è parsa Rosa Fumetto: bruttissima e senza alcuna grazia, con una recitazione a metà tra la caricatura del nazista ubriaco e la casalinga scocciata. Bruttissime ci sono parse le musiche siderali di Tito Schipa Junior.
Come facciamo spesso, ci piace annotare anche qualcosa del comportamento del pubblico: c’erano dietro di noi due coppie eterosessuali e nel buio sentivamo i respiri dei due ragazzi farsi un po’ ansanti nella contemplazione dei bei giovanotti; ma non sappiamo perché sono rimasti poi ironicamente silenziosi e senza applaudire i maschietti venuti alla ribalta a fine spettacolo e sono invece andati in delirio spellandosi le mani e urlando a gran voce all’ apparizione di quella Rosa Fumetto della cui presenza non sembravano fino ad allora essersi neppure accorti!