83 – Maggio ‘92

maggio , 1992

Un addio al teatro è sempre un evento che chiama commozione e partecipazione. Mario Carotenuto è stato per anni un attore sempre efficacemente presente sulla scena italiana, oltre che sullo schermo. Il teatro di prosa gli ha offerto la possibilità di dimostrare le sue qualità di attore, meglio di quanto non abbia fatto il cinema, anche se in entrambe le situazioni si è pensato di usarlo come «carattere». Per la sua recita finale Carotenuto ha voluto essere protagonista assoluto di un testo che più classico e teatrale non si potrebbe. Il Burbero benefico di Carlo Goldoni. Ma forse l’abitudine lo ha tradito un poco: infatti il rimaneggiamento del testo e dell’ambientazione voluti da lui medesimo e realizzati da Roberto Lerici hanno finito col trasformare il personaggio goldoniano appunto in un «carattere», per altro bello e commovente, della commedia dialettale romanesca. Il bravo attore cavalca la situazione come meglio non si potrebbe, ma nel ruolo di regista non sa offrire appigli ad una compagnia che risulta completamente disorientata e inadeguata, schiacciata dalla grandezza stessa del protagonista. Le scene e i costumi di Santi Migneco e le scarnissime musiche di Armando Trovajoli hanno accentuato l’impressione di festicciola tra «noantri», forse resa un po’ malinconica dalla scarsa affluenza del pubblico che, però, ancora una volta, convinto dalla qualità, ha coperto il suo beniamino di applausi e di simpatia.

Il Teatro Testoni e lo Stabile di Trieste hanno presentato alla Cometa Scacco Pazzo un testo di Vittorio Franceschi, nato, pare, da una collaborazione con Alessandro Haber che ne ha avuto l’idea. I due attori lo hanno allestito insieme, con la regia di Nanni Loy e la partecipazione di Monica Scattini, nel ruolo della protagonista femminile. Lo spunto drammatico dovrebbe venire dal tentativo di rendere sulla scena – ancora una volta – un caso clinico. Antonio è un maturo giovanottone che è impazzito, regredendo fino alle fasi di una prima remota infanzia, in seguito ad un incidente d’auto avvenuto il giorno delle sue nozze nel quale inoltre ha trovato la morte la sposa. Il fratello Valerio, che era, in quella tragica situazione, al volante, non sa liberarsi da quello che gli antichi testi definirebbero «senso di colpa» e rinuncia ad ogni prospettiva di vita autonoma dedicandosi totalmente al malato. La sua vita è però divenuta particolarmente faticosa perché lo psicotico pretende da lui che sostenga tutti i ruoli famigliari tali quali erano nella lontanissima infanzia. Così Valerio ha sempre a portata di mano una parrucca e un grembiule per interpretare il personaggio della mamma, un cappellaccio che gli dà l’autorità del babbo, inoltre deve essere se stesso e si trova anche a dover fare i conti con il bianco velo di nozze della compianta. Per quanto massacrante la cosa funziona fino a che a Valerio non viene in mente di presentare allo sciroccato fratello la propria fidanzata: Marianna. Come vuole il più trito dei luoghi comuni, tra la donna e il folle si stabilisce una sorta di alleanza degli innocenti e i due ne fanno patire di ogni colore a Valerio, colpevole di essere abiettamente «normale». Anche l’alleanza tra le due figure «deboli» del dramma viene però meno, dopo che il bambinaccio tenta di stuprare la ragazza. Il finale lascia la situazione come era all’inizio: con tutte le carte ancora in gioco e una speranza forse in più e forse in meno. Spunti teatrali un testo siffatto ne offre moltissimi; ma quasi tutti, a nostro avviso, di pessima qualità. La figura del matto è come al solito fasullamente poetica, scientificamente scorretta e troppo intrisa di sentimentalismi e «clownerie». Il gioco dei continui travestimenti dovrebbe dare pretesti virtuosistici, ma finisce con l’ingenerare il tedio. Il personaggio della melensa suffragetta è desolantemente e antipaticamente convenzionale. I tre attori, appena sfiorati da un accenno di regia, sono inutilmente bravi. Vittorio Franceschi che al mestier di attore vuole unire, con pieno diritto, quello di autore non dovrebbe pretendersi anche luminare della scienza psichiatrica. Le scene e i costumi di Sergio D’Osmo ricostruivano con realismo un ambiente che non poteva avere alcunché di realistico.