Proprio qualcosa del genere, non con l’intervento di sceicchi, ma di avveduti imprenditori locali, è avvenuto invece ad Auvers sur Oise, nell’AUBERGE RAVOUX dove visse Van Gogh dal 20 maggio al 28 luglio 1890, qui approdato alla ricerca del dottor Gachet. Oggi la vecchia locanda fa parte di un complesso tutto dedicato a Van Gogh, completo di sussidi audiovisivi, che conserva però quasi intatte due stanze al primo piano: l’una, vuota e deserta, risparmiata miracolosamente da ogni tentativo di “ricostruzione” e per questo particolarmente emozionante, è quella in cui abitò il pittore olandese, al modesto costo di tre franchi e cinquanta centesimi, per la pensione completa; l’altra, arredata con pochi mobili dell’epoca, è quella dello sconosciuto pittore Anton Hirschig, suo vicino di stanza. Al fondo di una scala scricchiolante, al piano terreno, prospera un ristorante preso d’assalto dai visitatori. Perfettamente ricostruito, oggi l’Auberge Ravoux esibisce una bella sala con boiserie, trompe 1′ oeil, colori rossastri, bancone con bordo di zinco ben lustro. Noi ci siamo goduti un pranzo composto da pressé de lapereau, con lenticchie e composta di cipolle, molto profumato; terrina di canard con pistacchi, saporitissima, all’antica; agnello delle sette ore, un ottimo stracotto gustoso ed umido, con patate aux lardons; mousse al cioccolato nel bacile, morbidissima; una delicata mousse verte al pastis e crema con frutti di bosco; un ottimo brie cremoso che non sapeva come spesso avviene di gesso; bevendo prima un kir freddo e poi a tutto pasto un fresco Lussac St. Emilion in caraffa, schietto e saporito, dal bel colore rosso violetto. Per fortuna la massa dei turisti si arrestò anche quel giorno di settembre tra i santini in vendita e il ristorante, permettendoci di provare una delle più emozionanti esperienze della nostra pur emozionantissima vita.
Il paesino di Auvers sur Oise, pacato e tranquillo nella luce della domenica mattina, si dipanava davanti a noi con le sue case di contadini raggruppate attorno alla chiesa di Notre Dame (XII-XIII sec.), tale e quale oggi come la si vede nel quadro di Van Gogh, con le due strade che si biforcano passando ai lati del tozzo campanile. Dalla chiesa parte la strada che porta al cimitero tra i campi di stoppie gialle sovrastati dai corvi neri gracchianti in uno sconvolgente cielo “impressionista”, dietro di noi solo il passo di due ragazzi. Oltre il muro, tra le tombe, alcune donne vestite di scuro sistemavano fiori o toglievano erbacce. In disparte, all’ombra di due cipressi, due lapidi, abbracciate da una compatta aiuola di edera verde, con due scritte: Vincent Van Gogh 1853-1890 e Théodor Van Gogh 1857-1891.
I1 ristorante OPERA, al numero 5 della Place de l’Opera, ostenta un bell’arredamento Napoleone III autentico, appena restaurato e si avvale di un servizio ineccepibile e cordiale, nonostante la sussiegosa cornice. Può essere piacevole farvi una sosta per una cena un po’ impegnativa, magari dopo spettacolo. Così abbiamo fatto noi e non ce ne siamo pentiti. Dopo un gradevole aperitivo con una coppa di moscato della Corsica, cremoso e profumato, di mirto e fiori, corredato da un amuse gueule di erbe e salmone caramellati, e una zuppetta di asparagi offerta dalla casa, abbiamo affrontato portate dai nomi napoleonicamente complessi come la compote froide de homard breton et queues de langoustines sous presse, jus de ratatouille et crustacées en vinaigrette, ovvero una terrina di aragosta e code di scampi con insalata di verdurine profumate all’aceto e
fumetto di crostacei; è seguita una cote de veau de lait fermier mijoté en casserole amandes et coupons d’olives, gnocchi d’epinard à la brosse, che sarebbe a dire una bistecca di vitello di latte – “ruspante” – e passata in casseruola con mandorle e fette d’oliva, accompagnata da gnocchi di spinaci alla “spatola”; di un ricco carrello di formaggi abbiamo particolarmente apprezzato la tète de moine rapée, molto piccante e dolce; per finire ci è stato offerto un gelato alla vaniglia in salsa di frutti di bosco, che ha preceduto il moelleux et croquant “chocolat pistache “, sontuoso dolce al cioccolato pistacchio. Abbiamo bevuto un semplicissimo Sancerre del 1998, equilibrato e ricco di profumi e un St.Emilion del 1995. Il prezzo, al confronto di tanto splendore e pompa magna, è risultato meno terribile del previsto.
In una situazione contraddistinta dal riduttivismo più squallido, abbiamo comunque avuto il piacere di imbatterci in un’esperienza di grande valore politico-culturale e professionale, nel ristorante allestito da GIANFRANCO VISSANI. Il cuoco umbro ospita ogni sera nel suo spazio gastronomico un collega di spicco. Prima di tutto, l’ambiente è allestito con una cura che si distacca clamorosamente da tutto il pressapochismo becero ed un po’ unticcio degli altri punti di ristorazione e di rinfresco della Biennale: le tavole sono ben arredate, le stoviglie brillanti, le sedie comode e i bicchieri sono adatti al tipo di vino scelto; il servizio, pur in mani inesperte di giovani forse disorientati, rivela uno sforzo organizzativo davvero notevole. La sola difficoltà è forse costituita dalla rigidità della procedura d’accesso un po’ costrittiva, ma è il meno che ci si possa aspettare in un contesto esterno fin troppo caotico. La serata era affidata alle mani dello chef israeliano Itay Shalev ed il menù era obbligato ed a prezzo fisso (basso). Dapprima è arrivato la zuppa di anguria con menta e feta, poco più che una sfiziosità, ma molto gradevole; sono seguite le scaloppe di fegato grasso con salsa di pera e chutney di melograno, molto saporite e profumate; per secondo piatto un ottimo agnello con verdure allo zafferano e ceci, uno stracotto dal profumo orientale.. La cena è finita con un dessertcapolavoro che si distingueva sul resto per la sua eccellenza: halva con ravioli di lamponi e malabi (una specie di panna cotta) al gusto di rose. Abbiamo bevuto un Orvieto classico superiore, passabile se pure un po’ banale, al quale è seguito un ottimo Dolcetto di Ovada della Cascina Frascara di Paolo Grassi del 1998. E’ la prima volta che dichiariamo di apprezzare Gianfranco Vissani e lo facciamo con piacere anche perché lo abbiamo visto all’opera in una situazione che gli richiedeva una umiltà di certo non comune.
Nella rue de Varenne hanno sede numerosi palazzi istituzionali: dalla Presidenza del Consiglio all’ambasciata italiana e la zona ha un suo compassato sussiego ed è più tranquilla di quelle limitrofe di St Germain, di Montparnasse e degli Invalides. Accanto ad un luogo prestigioso ed impegnativo come l’Arpège, fioriscono alcuni ristorantini di quartiere più o meno gradevoli. Un carattere proprio ha, a nostro avviso, LE PETIT LAURENT, al numero 38 della via in questione; un locale minuscolo, ma molto accogliente, arredato in un gradevole e ingenuo stile neo Luigi XVI. La cucina è gustosa, fresca e trova un giusto equilibrio tra tradizione e novità. Se pure la proposta dei piatti di pesce sia la più ampia, anche i pochi piatti di carne sono ben curati e interessanti. Si apprezza l’accuratezza nei dettagli già dai crostini con la piccola maionese alle erbe fini che accompagnano il tradizionale kir royal, e con la stessa cura sono presentate le entrées: siano la poelée de langoustines sur salade aux fleurs de thym, un’insalata di scampi carnosi, passati nel burro nocciola, molto gradevole e ovviamente profumatissima, con un condimento appena connotato dalla vivacità di un leggero aceto aromatico; oppure il sontuoso foie gras de canard in terrina con quenelles di fichi accompagnato dal caldo e fragrante pane tostato. Ineccepibile il succoso filet de boeuf au foie gras, con tortino dorato e croccante di patate ed un assortimento di legumi; anche le noisettes d’agneau si distinguevano per l’eccellenza della materia prima, tenerissima e molto gustosa e per l’eleganza della presentazione. La scelta dei formaggi dal carrello è ridotta, ma equilibrata; la carta dei dolci è una tentazione ad ampio raggio: noi abbiamo trovato eccellenti gli accoppiamenti di frutta e gelato ed in particolare un dolce di mele al forno e mandorle con una salsa al caramello e gelato alla vaniglia. La carta dei vini offre un limitato numero di buoni crus per ogni regione, a prezzi accettabili, noi abbiamo apprezzato un dorato Gewuertztraminer alsaziano del ‘92, profumato di rosa e biancospino e un Cahors Chateau Chambert dell’ 89, dal buon goudron di liquirizia di legno. Il tutto servito con molto garbo e cortese professionalità, con un conto finale all’altezza del quartiere, ma non eccessivo.
Poco spostato dal porto e vicino alla Croisette, all’ angolo tra la rue Faure e la rue Blanc, il locale di ASTOUX & BRUN si nota per il gran via vai dei camerieri, con maglietta alla marinara, che si muovono per le molteplici sale, su e giù per due piani, e i tavolini fittissimi della terrasse, lungo il profondo marciapiedi. È forse il ristorante di pesce più affollato di Cannes, sempre alla moda, fintamente “democratico” per la sua clientela in cui vengono a trovarsi gomito a gomito ricchi borghesi in smoking, provincialotti in cerca di emozioni, turisti per caso e – nei giorni giusti – moltissimi divi e dive del cinema: tutti fanno finta di niente, anche se non tutti ci riescono benissimo e tutti apprezzano o fanno finta di apprezzare la cucina di pesce, solidamente ancorata alla tradizione e prodigiosamente dignitosa, nonostante il successo e i ritmi infernali.
Ovviamente il piatto più popolare è il plateau di frutti di mare crudi, servito in vari ordini di grandezza fino ad essere una smisurata montagna di ostriche, granchi, lumache, gamberi, cozze, cicale etc. inerpicate su chili di ghiaccio tritato: dato il gran smercio, i prodotti sono tutti freschi, la qualità è soddisfacente e la grande varietà rende anche l’impresa divertente. Per chi non s’accontenta dei frutti di mare crudi ci sono piatti come la padellata di St. Jacques sul letto di insalata e asparagi, cucinata con piglio un po’ troppo rustico, ma resa gustosa dal buon olio di Provenza. Il branzino al vapore è un’alternativa delicata per gli inappetenti, se pure non di altissimo livello, mentre sono decisamente più aggressivi i gambas, carnosi e profumati, alla griglia o al pernod. Qualche dolce serve a spegnere l’eccessivo gusto di pesce, oltre alle tradizionali mousse di cioccolato, gelati, e crème brulée, abbiamo trovato gradevole la framboisière, di lamponi e chantilly.
La carta dei vini non è specialmente curata: meglio evitare il bianco della casa, un innocuo, ma acquoso Cótes de Provence, mentre il rosato Bandol è più saporito e salmastro. Meglio ancora lo Chablis, Domaine Clotilde, 1 ° cru, del 1997 che si fa apprezzare per la sua struttura solida e il profumo di limonaria.
Il prezzo di tanta allegra confusione non è eccessivo neppure considerando un cambio disastroso come quello della lira col franco.
Vorremmo consigliare una visita ad un ristorante un po’ anomalo, al di fuori del quadro festivaliero, che non pare essere notato dalle guide, ma che serve un pesce di inarrivabile freschezza, cucinato con sapiente intelligenza. FRED L’ECAILLER è anche una rivendita di pesce, fatta sul banco, in Place de l’Etang alla Pointe Croisette, verso il limite ovest della penisola. La sala del ristorante è genericamente allestita alla “marinara”, ma si avvale di un servizio cordiale e di provata serietà professionale (non sperate di avere la bouillabaisse se quel giorno non si sono pescati i pesci giusti). Noi abbiamo goduto di una sosta che è incominciata con un fresco e profumato kir che ci ha ben disposto a gustare una fragrante frittura di lattarini e calamari, semplicemente perfetta, e lo diciamo non per caso: il pesce sembrava aver appena sfiorato l’olio bollente di cui aveva fatto in tempo ad assorbire solo il profumo con cui arricchire il proprio sapore. La delicata carne del san Pietro e dell’orata al forno, non era mortificata ma esaltata dal connubio con le patate al leggero profumo di zafferano. La tradizione della mousse al cioccolato ci è stata offerta in una versione di inusitata e succulenta sontuosità e leggerezza. Persino il buon bianco secco della casa, servito in caraffa, eccelleva per l’equilibrio dei profumi di pesca-noce e di fragola con la vena salmastra. Il conto è rimasto nei limiti di una accettabile correttezza nel rapporto con la qualità.
Cannes è una città bellissima per il clima, per la sua splendida posizione, per un entroterra raggiungibilissimo ed ancora godibile, nonostante l’affollamento residenziale, per qualche pezzo di architettura di inizio secolo e per quel piccolo gioiello circoscritto rappresentato dal Suquet. Il villaggio di origine medioevale, è arrampicato sul Mont Chevalier in cima al quale sorgono una chiesa del XVI secolo e una torre risalente all’XI. Ora il Suquet è un’area privilegiata che si tenta di preservare, anche con lo stratagemma dell’isola pedonale che ha però lo svantaggio di ridurlo a mercatino turistico, un po’ come è successo a Montmartre, di cui evoca, in piccolo, l’atmosfera. In un tale contesto poche sembrerebbero essere le speranze che nei ristorantini civettuoli e “tipici” che affollano la via principale si possa mangiare in modo dignitoso, eppure il miracolo accade, almeno a LE RELAIS DES SEMAILLES, al numero 9 della rue St. Antoine. Il locale si articola in una serie di salette e stretti corridoi ricavati tra mura di pietra viva, arredati con ingenua pretenziosità, con qualche tocco di classe e qualche banalità pseudofolcloristica, ma con un risultato complessivamente gradevole; i tavoli sono apparecchiati con cura e il servizio è estremamente cortese e professionale. La cucina è d’impostazione provenzale, con concessioni alle novità e alla fantasia del cuoco. Noi abbiamo apprezzato in apertura gli asparagi verdi con la razza “sfilacciata”, legati tra loro da un fondo bianco di pollo, inaspettatamente appropriato; il roti de foie gras de canard ci è parso una puntuale e gustosa esecuzione di un classico. Una scoperta è stata quella del pagre (un pesce locale parente umile dell’orata) accompagnato dalle cipolle e dai piccoli carciofi viola: un abbinamento ideale della cucina di mare con quella dell’orto. La volaille de Challans è una pollastrella arrosto ruspante dalle carni sode che il cuoco ha saputo esaltare con una vivace salsa a base di tartufo estivo; il magret di anatra con miele al rosmarino era appetitoso e profumato. Anche se la carne di vitello della Costa Azzurra non è eccelsa, pure il filetto di bue accompagnato da una perfetta salsa béarnaise, era sufficientemente morbido e ricco di succhi. Con i dolci la cucina non ha perso il suo smalto: perfetto il nougat ghiacciato al miele, esaltante il fondant al cioccolato caldo, appena una scivolata sullo zabaglione troppo liquido che accompagnava le saporite fragole!
Abbiamo voluto ancora una volta mettere a prova i vini locali di Provenza di cui sempre diffidiamo, ma abbiamo avuto motivo di ricrederci con il Chateau St. Roseline riserva speciale che abbiamo provato sia nella versione in bianco, piacevolmente salmastro e profumato di salvia, sia in rosso dal bouquet vivace e morbido al palato. Il prezzo è risultato prevedibilmente elevato, ma ne è valsa la pena.
Al numero 68 della Salita del Grillo, là dove per anni operò un famoso ristorante emiliano, si è trasferito da qualche tempo il PAPOK, antica insegna specializzata in cucina di mare, che ha dato nuova freschezza all’ambiente che risulta più luminoso e ingentilito, sia pure con qualche indecisione tra il vecchio e il nuovo nell’arredamento. Non è indecisa invece la cucina che offre piatti molto sapidi, di tradizione e persino di originale invenzione. I calamari con radicchio, sono un buon piatto di apertura col delicato contrasto dolce-amaro, mentre decisamente grintosa è la bruschetta alle vongole, servite – chissà perché- col guscio. I cavatelli con zucchine e calamari e le linguine con vongole, spinaci e pomodorini sono due primi piatti che appagano il commensale per la qualità della pasta di entrambi e per la ricchezza dei sapori, il secondo caratterizzato dalla stimolante presenza del peperoncino. L’orata in crosta di patate è un piatto addirittura raffinato, eseguito con maestria, mentre soprattutto curiosa risulta la comunque gradevole composta di pesce con fumetto di pesce: filetto di spigola, pescatrice, gamberi e scampi in un denso e profumato brodetto. Consigliamo di sperimentare almeno una volta il dolce di melanzane, ricotta, cioccolato con scorzetta d’arancia candita, in ogni caso anche la crème brulée, servita tra due cialde croccanti, è ottima. La lista dei vini non è vasta, ma offre qualche buona bottiglia non banale come il serico bianco Coda di Volpe, anno 1997, di Marianna (un produttore della zona di Avellino), perfetto sui piatti menzionati sopra. Simpatico anche il Fragolino offerto con il dessert. Il servizio è corretto e simpatico ed il prezzo non è alto per un ristorante di buon pesce.
Sull’isola di S. Louis, a fianco dell’omonima chiesa, in un antico edificio ha sede la MAISON BERTHILLON, gelateria e pasticceria tra le più famose di Parigi. La fama non è usurpata: in un ambiente piacevole e vecchiotto, con bei legni e specchi luccicanti, si offrono delizie di ogni genere, ma in modo particolare gelati di insuperabile bontà. Tutti i gusti sono buoni da capogiro, cremosi, saporiti e vaporosi, sia nella versione più semplice sia nelle più elaborate composizioni, ricche di creme, liquori, panne, sciroppi e frutti. Le ricette vanno da quelle più classiche come la pera Belle Hélène o il caffè Liegeois a barocche creazioni come la coppa del Gourmet. Rimarchevole la qualità della crema Chantilly, sempre freschissima e profumata. Un luogo che fa perdere la testa non solo ai bambini, ma anche agli adulti, come dimostrano le lunghe code di francesi e stranieri in fila per ore lungo lo stretto marciapiedi per avere il loro cornet con un assaggio di Paradiso.
Agli inizi del Novecento, il padre dell’attrice francese Jeanne Moreau aprì in Pigalle e precisamente al numero 3 della rue Mansart un ristorante che tuttora esiste col nome de LA CLOCHE D’OR. Il servizio incomincia al calar del sole e va avanti fino alle prime luci dell’alba e ne godono soprattutto gli «operatori» del quartiere: artisti, lenoni e belle di giorno e di notte e solo relativamente pochi turisti. Benché – date le premesse che lo propongono come un luogo in cui i clienti abituali si trovano soprattutto per fare quattro chiacchiere tra di loro – non ci si aspetterebbero particolari prestazioni gastronomiche, la sorpresa è invece quella di una cucina tradizionale di ottimo livello. Ineccepibili soprattutto i piatti di carne: ricordiamo tra i tanti il mignon di porco ai sette profumi, raffinatissimo, accompagnato da una superba fricassea di verdure; oppure la tartare tagliata al coltello, dai forti sapori, tuttavia equilibratissimi; anche il
succulento confit de canard, morbido e croccante, steso su di un letto di patate saltate all’aglio. L’ile flottant è il dessert che preferiamo, anche se ormai neppure qui si trovano i confetti rosa che una volta lo caratterizzavano, ma è ottimo anche il fondant
al cioccolato nero: una morbida e deliziosa fetta di torta immersa in una delicata e freschissima crema. La carta dei vini è ben rappresentativa dei migliori territori nazionali, con buone etichette a prezzo accessibile. Vale un discorso a parte ed una visita apposta la Cote de boeuf a la moelle, servita per due persone: è un piatto regale e succulento che unisce imponenza e delizia con una porzione gigantesca di carne che è bene comandare saignante se si vuole il punto di cottura perfetta, con la crosta croccante che avvolge una carne delicata e dolcissima, servita in compagnia di un osso ripieno di profumato midollo. Un’esperienza intensamente parigina ad un prezzo ragionevole.
LE DIX VINS è un bistrot al numero 57 della rue Falguière, dietro Montparnasse, dove in un ambiente abbastanza piccolo si possono bere vini al bicchiere e mangiare buoni piatti, scelti tra quelli segnati col gesso bianco sulla lavagna. Sono preparazioni tradizionali che arrivano a comporre un menu soddisfacente al prezzo di cento franchi, senza il vino: steak, fricassea di funghi o di cape sante, suprème di tacchinella, assortimento di formaggi o dolci semplici come le pere in salsa di vaniglia e cioccolato o la crème brulée; il tutto cucinato con arte. Vogliamo però segnalare l’eccezionalità di una splendida tète de veau in salsa ravigotte perché incarna l’idea di quella che
dovrebbe essere una vera terrina, ben diversa dalle masse confuse di ingredienti triturati e gelati che vengono servite generalmente nei ristoranti della Francia e del mondo. È un piatto che da solo vale tutto un pranzo: grossi e morbidi pezzettoni di carne, profumati e saporitissimi, accompagnati da una ciotola di salsa, servita a parte, una delizia dei sensi, anche se significa un apporto di colesterolo che può bastare per sei mesi. L’ accuratissima scelta dei vini proposti ogni giorno, anch’essi sulla lavagna, ne rivela una conoscenza magistrale ed una mano eccezionalmente felice negli abbinamenti. Noi abbiamo ancora presenti le sensazioni procurateci da una bottiglia di Montagny I ° Crus, un bianco della Cote d’ Or, servito ad una temperatura giustamente fredda, ma che in bocca porta il calore del sole; non meno emozionante la degustazione del rosso Terre de Solence del 1996 un vino della Costa del Ventoux, morbido e profumatissimo di frutti di bosco. Va segnalata la cortesia del servizio, svolto con rapidità ed efficienza anche nelle ore di maggiore affollamento, da due giovanotti ed una cordiale giovane «ostessa».
LE CLOS DES CANELLES, in rue Quatre Septembre, vicino alla Borsa è un posto molto gradevole, con una certa eleganza e il comfort di tavoli spaziosi e ben distanziati, con molto verde naturale, inserito nel color salmone delle pareti. La carta è ricca, interessante, con piatti originali, ma senza bizzarrie, preparati con impeccabile professionalità. A noi è capitata l’avventura di essere soli, a sera tardi, nel locale deserto, poiché la clientela è costituita prevalentemente da uomini d’affari che, all’ora di pranzo, si ritrovano in folla, per quelle che da noi vengono dette, con un certo malvezzo “colazioni di lavoro”. Abbiamo cominciato con un Kir, corretto anche se non fatto col Bourgogne Aligoté. Deliziosa l’insalata tiepida di opulenta quaglia con castagne e arricchita di due uova di quaglia al tegamino; splendido lo stinco di agnello ai quaranta spicchi d’aglio (li abbiamo contati), ovviamente “in camicia”. Fragrante il brick (sottile sfoglia fritta di origine maghrebina) ripieno di formaggio di capra con scalogno e interessantissima la carta dei dolci che non abbiamo avuto la forza di affrontare. Abbiamo bevuto prima uno splendente e saporitissimo bianco Sancerre e poi un giovane ma robusto Syrah, rosso rubino, profumato di prugna e frutti di bosco, scegliendoli da una carta dei vini ben distribuita per regioni e costi. Per un quadro complessivamente più che soddisfacente, si paga un prezzo molto ragionevole.
Ci sono voluti più di due anni per assemblare con due milioni e mezzo di bulloni i quindicimila pezzi che compongono i trecento metri della torre che l’ingegner Eiffel aveva progettato per l’esposizione universale del 1889, destinata ad essere smontata poco dopo ed invece diventata il simbolo permanente di Parigi, discusso ed odiato da molti e fra gli altri detestato da Verlaine che era disposto a qualunque deviazione pur di non passare nei paraggi ed essere costretto a vederla. Il ristorante JULES VERNE è collocato al secondo piano della torre, a 123 metri di altezza: vi si accede dal pilastro sud con un ascensore riservato e ci si ritrova in un ambiente di molte pretese, tutto arredato in nero, con grandi vetrate che consentono di godere a trecentosessanta gradi della vista di Parigi, lusso esterno che si aggiunge al lusso dell’interno. Qui opera da anni un grande chef di nome Alain Reix che ne ha fatto un vero punto di riferimento per l’alta cucina parigina a cui si accede soltanto dopo mesi di paziente attesa. I piatti proposti sono addirittura in grado di condurre al delirio chi li gusta ed allo stesso tempo hanno un’intrinseca impronta genialmente delirante che deriva dalla scelta di esaltare di ogni piatto gli ingredienti secondari, talvolta umili, rispetto all’elemento principale che è di sua natura sempre nobilissimo.
Quando ci siamo arrivati, la sera di San Silvestro, abbiamo avuto l’esperienza che segue:
L’amuse bouche di uova di quaglia sul crostino di fegato di anatra accoppiato impeccabilmente con il Kir fatto con Aligoté e Cassis. Il foie gras de canard au torchon, épices douces à l’écorce d’orange, originale per un sentore leggero come un’eco che ricorda la castagna e cremosissimo, è esaltato dal profumo d’arancia; noi lo abbiamo abbinato con un Vouvray Moelleux del 1976, un vino della regione della Loira, le cui uve quasi macerate danno questo morbido liquore, dorato e sontuoso, fruttato di cotogna e moscato che lo rendono non meno adatto al fegato del giustamente celebrato Sauternes.
La marinata di coquilles Saint-Jacques aux truffes, salade frisée aux artichauts, quasi perfetta, malgrado un eccesso di prezzemolo fresco nel piatto, proponeva in modo evidente il predominio del tartufo che invece forse avrebbe dovuto essere solo di cornice alla leggerezza impalpabile delle capesante.
L’homard en bouillon de poule au cèpes ripresentava il rapporto inverso rispetto alla tradizione tra i porcini trionfanti e l’umiltà dell’aragosta passata nel brodo di gallina.
Il dos de bar aux pommes écrasées et caviar Sévruga fortunatamente non cadeva nella trappola di mettere in evidenza le patate schiacciate e trovava un bell’equilibrio tra le uova di storione e il branzino.
Sui tre piatti di pesce abbiamo ritenuto giusto soffermarci su un Puligny Montrachet del 1993, un bianco di Borgogna di ottima stoffa, dal profumo di mela, biancospino e un leggero sentore umido di bosco.
Il filetto di cerva poelé, con la composta salata ai fruits d’hiver si presentava come un piatto all’antica, stracotto, forse servito più freddo del consentito, il che contribuiva a falsare i rapporti tra i vari elementi del contorno di frutta. Non abbiamo avuto la mano felice con un Margaux del 1988, un Bordeaux rosso la cui etichetta abbiamo letto forse con distrazione, soprattutto caratterizzato da un forte e amaro goudron.
Il formaggio bianco e cremoso:Vacherin à la cuillère, salade de mache, saporito e fresco è stato il preludio di una ganache pralinée, sablée au beurre demi-sel, autentico coup de théatre dello chef: soffice cioccolata e mandorle aeree, incorniciate da un biscotto cosparso di sale, come elemento fondamentale che per contrasto esaltava ogni sfumatura del dolce.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare in un ambiente così pretenzioso, il servizio si distingue per una cortesia quasi affettuosa, mentre è invece assolutamente prevedibile il conto addirittura astronomico!
La sera del 31 ottobre Parigi è una città percorsa da bande frenetiche di vampiri ed altri mostri che, alla luce delle candele ammiccanti dalle zucche gialle, festeggiano la ritrovata festa celtica di Halloween che la moda americaneggiante ha riportato in auge anche nel continente di origine. È comprensibile che in tanta bagarre non sia facile trovare un posto in cui cenare tranquillamente, perciò anche a noi è toccata una lunga attesa di un tavolo che pur era stato riservato, in un pigia pigia festoso, ma un poco scomodo al bar del BARACANE, un ristorantino tranquillo, appena defilato da piace de la Bastille, al numero 38 di rue des Tournelles. Il fastidio è però stato ricompensato dalla gentilezza del servizio e dalla qualità della cucina, che pur lavorava in condizioni di eccezionale pressione.
Il buon Kir alla pesca, fresco e giustamente frizzante, ci ha alleviato la fatica dell’attesa e con le entrée è sopraggiunta anche la serenità, ben motivata da una eccellente salade de gésier et coeur de canard: una gustosa composizione di cuore d’anatra e frattaglie su di un fresco letto di indivia; non meno gradevole la terrine maison et foie gras, arricchita dalla dolce e fondente composta di cipolle. I piatti di forza sono stati una rumsteak à la bordolaise, spessa e succosa, accompagnata da fragranti patate arrosto all’aglio e un eccellente cassoulet, ricco e caldissimo, in cui ciascuno degli ingredienti: salsiccie, anatra, cotica e fagioli si amalgamava in un impasto di impeccabile morbidezza ricco di sapori. Un vero peccato che il pane servito fosse pessimo: asciutto e molle allo stesso tempo. Per tutto il pasto ci ha tenuto compagnia un ottimo Médoc del 1993 dalla stoffa serica, con buon corpo e goudron, profumato di erbe e con un lieve sentore di formaggio che lo rendeva singolare. La torta basca e il fondant al cioccolato hanno chiuso correttamente un’esperienza tanto più confortante in quanto anche contenuta nel prezzo. Dopo il dolce, un buon bicchiere di Armagnac della casa ci ha ridato la dose di energia necessaria ad affrontare il carnevale un poco funesto dilagante per le strade.
Al numero 16 di rue des Archives, in pieno quartiere del Marais, si trova un ristorantino cinese: CHEZ TSOU, non pretenzioso, sempre iper-affollato e fumoso, caratterizzato però da un servizio sorridente e garbato. I cibi sono buoni, appena pronti e non stantii. Se è vero che la cucina cinese spicca per l’eccellenza delle fritture, in questo localino l’arte di friggere tocca il vertice. A cominciare dall’assortimento di antipasti caldi che sono un capolavoro di fragranza, composto di chele di granchio, involtini primavera, pesce e pasta fritta. Le preparazioni sono tutte quelle della cucina tradizionale cinese nei suoi settori: pesce, pollame, maiale e manzo, oltre che la serie delle preparazioni a vapore. Noi consigliamo soprattutto l’anatra laccata, servita semplicemente senza il rituale delle crèpes ed erba cipollina, ma che qui consiste in una grande porzione di carne ben tagliata, succosa e profumata che si sposa benissimo coll’ottimo riso alla cantonese o in bianco. L’ aperitivo, come in quasi tutti i ristoranti cinesi, è una sorta di bicchiere d’acqua profumata e i vini, pur francesi, sono sempliciotti, ma noi ricordiamo di esserci imbattuti in una bottiglia di Nuit de Chine, coproduzione franco-cinese, particolarmente adatta all’abbinamento coi piatti orientali. In questi ultimi tempi è subentrato un vino che si dice sia prodotto in Cina, dall’altrettanto turistico nome Great Wall, che però non ci piace, perché è acidulo sia nella versione in bianco sia in rosso; meglio allora la birra cinese, fresca e allegra benché molto leggera. I dessert sono quelli tradizionali ed il prezzo è molto contenuto.
Peter van Laer è il capostipite dei Bamboccianti, pittori di genere, per lo più olandesi, che operarono a Roma nel XVII secolo, e che ci hanno lasciato deliziosi piccoli capolavori, disseminati nei musei del mondo. David van Laer è invece un cuoco dei nostri giorni, di origini fiamminghe, che in omaggio all’antico omonimo ha chiamato LE BAMBOCHE, il suo ristorante parigino di rue de Babylone, un ambiente piccolo e accogliente dai colori fiammanti. Benché non si tratti di quadri, anche i suoi piatti sono deliziosi piccoli capolavori. Di quello che abbiamo gustato della sua cucina ricordiamo soprattutto una inimitabile anatra selvatica con fichi arrostiti e contorno di funghi di bosco, superbo piatto in cui il gusto sapido dell’anatra, soda e cotta a puntino, ben viene esaltato dal contrasto con il dolce del frutto e dal profumo dei funghi che sempre lo chef (che ha per essi una vera propensione) cuoce in modo magistrale. Un gioiellino è anche il gateau de foie blond au porto et champignons, una aerea, ma saporitissima spuma di fegato, resa sontuosa dalla ricchezza della salsa al Porto; una monumentale ghiottoneria è il civet de gibier: un piatto di selvaggina frollata alla perfezione e contornata di salsa di cipolle e funghi, che si fonde in bocca. Vale la pena per i più coraggiosi di affrontare la selezione di formaggi gustosissimi, proposta a fine pasto, mentre per gli altri basterà il fondant ai tre cioccolati per raggiungere il paradiso. La cantina è di ottimo livello, anche con buone bottiglie a prezzi ragionevoli. Finalmente ci siamo trovati di fronte uno chef che non stordisce il palato con mille tipi di pane tutti dal diverso sapore, ma propone il suo pane ben cotto in due versioni dall’inizio alla fine del pasto. L’arte si sa non ha prezzo, ma qui il prezzo è equo. Dal mese di novembre il cuoco sposterà baracca e burattini al 9 bis di Boulevard de Montparnasse dove prenderà il nuovo nome di LE MAXENCE.
Sappiamo quanto sia importante per il turista evitare certi spiacevoli incidenti – al momento della scelta di un ristorante – che rischiano di rovinare parte della vacanza.
Un bistro che noi troviamo accogliente è vicinissimo all’Arco di Trionfo: esattamente al numero 1 della avenue des Ternes. Il posto si chiama LE BOUQUET DES TERNES (il bouquet – letteralmente mazzo di fiori, che appare nell’insegna – è anche il nome di una varietà, più grossa, del gamberetto noto con l’appellativo di crévette) ed è di una eleganza non pacchiana, arredato con comode sedie e tavoli non troppo addossati gli uni agli altri (almeno rispetto alle abitudini correnti); il servizio è cortese, attento; il bancone delle ostriche, messo come sempre all’esterno, è ricco ed allettante. Chi non voglia godersi una delle tante possibili versioni del plateau di frutti di mare ed ostriche, freschissimi ed opulenti, serviti sul troneggiante piatto di metallo, colmo di ghiaccio, può scegliere tra molte proposte di pesce e di carne. Ottima è la fricassèe de langoustines dal sapore davvero “alto”; ma chi ama l’entrecóte, può scegliere tra tagli di carne che vanno dai duecento grammi al chilo, col midollo profumatissimo, cotti al punto desiderato. Gli altri suggerimenti della carta sono molteplici e ad un livello sempre soddisfacente; ma per il déssert noi consigliamo la stupefacente assiette gourmande du patissier, che raduna in un sol piatto, di proporzioni inusitate, le, meraviglie di una pasticceria fantasiosa e fragrante! La carta dei vini consente di scegliere alcune buone bottiglie a prezzi accettabili, tra le quali un Sancerre, 1996, di un bel colore bianco-dorato, profumato di albicocca e biancospino e dalla serica morbidezza; oppure un semplice, ma gustoso Saint Nicolas de Bourgueil, un rosso ugualmente giovane, servito un po’ fresco. Il prezzo può parere sostenuto, ma in parte ciò è dovuto al cambio troppo sfavorevole, oltre che al fatto di essere in una zona chic e comunque è adeguato alla concorrenza.
LA CHOPE D’ALSACE è una birreria alsaziana, situata nel cuore di St. Germain, sulla piazza del Carrefour de l’ Odéon, vicino al famoso omonimo teatro d’Europa, già diretto anche da Strehler. Venirci per cena, oppure a pranzo può essere un’esperienza disorientante, ma che ben rende l’idea di quale possa essere la concezione della gastronomia in una fredda regione del nord della Francia. Le porzioni dei piatti sono enormi, ed in molti di essi si trovano accostati ingredienti che per calorie e grassi potrebbero sostentare una squadra di spaccalegna: antipasti come la terrina di magret de canard avec confiture d’oignon, ovvero tre enormi trance d’anatra, condite da un tegamino di dolcissima squisita marmellata di cipolla rossa che deliziano il palato quanto saziano; ma anche purtroppo un pesantissimo e stolido paté in crosta, freddo ed indigesto. Il coniglio in fricassea, non sgradevole se pure di allevamento, troneggia su colline di tagliatelle, cavolfiori, fave e salsiccie; l’enorme porzione di stinco di porco, morbido e saporitissimo quasi scompare tra mucchi di patate arrosto e pancetta a dadini. Giustamente si ha bisogno dei ghiacciati sorbetti di frutta, per superare la sensazione di leggera oppressione e stordimento che coglie alla fine di un tale pasto. Chi arrivasse qui entro il trentun marzo, vi troverà, come in altri diciotto locali di Parigi quest’anno, la cosiddetta bière de mars, fresca bevanda, guizzante, allegra e saporita, che va giù come niente, e che costituisce l’equivalente per le birre di quello che è il vino novello per i rossi. Anche qui la posizione ultra centrale influisce sul prezzo che sale un pochino.
Snobisticamente noi non ci saremmo mai seduti ai troppo turistici tavoli di MA BOURGOGNE, che invitano alla sosta sotto i portici della suggestiva Place des Vosges, il cui fascino seicentesco suggella di nobiltà il vicino quartiere del Marais, con le memorie regali di Luigi XIII e Anna d’Austria e le aure letterarie di Madame de Sevigné e Victor Hugo che vi abitò a lungo; ma un giorno l’ora e la stanchezza ci hanno fatto cedere. Il ristorante è sì affollatissimo di turisti, ma vi si può sedere all’aperto, sia d’estate, per godere il fresco dei giardini di fronte, sia d’inverno, riscaldati da potenti radiatori. Il repertorio – offerto a prezzi decisamente accettabili – è quello della cucina tipica parigina, oltre che borgognona ovviamente: lumache di superba e sontuosa prelibatezza, una tartare al coltello davvero insolita per la ricchezza dei gusti e dei profumi: il resto è un seguito di salsicce, choucroute, steak, entrecôte, e tournedos, accompagnati da montagne di passabili patate fritte, a cui ci si può accostare senza troppo temere; per finire con una torta di mele come la tradizionalissima tarte Tatin, tiepida, qui cucinata come la faceva un tempo la nonna.
I gamberi di fiume stanno scomparendo anche dai ristoranti di Parigi, ma è ancora possibile gustarli in qualche ristorante di pesce: noi li abbiamo trovati eccellenti alla rue du Rocher, (all’ VIII, ma già vicino a St. Lazare) dove apre i battenti LE VIN ET LA MAREE che offre anche buoni piatti di stoccafisso in un contesto arioso e gradevole dai
costi non proibitivi.
Se non vi spaventa arrivare in metropolitana fino alla Porte d’ Ivry, nel XIII arrondissement e di lì riuscite a raggiungere a piedi il numero 159 della rue Chateau des Rentiers, attraversando plaghe piuttosto ostili, varcata la soglia del ristorante cinese LA MER DE CHINE, vi troverete in un luogo forse non troppo accogliente a prima vista, ma pulitissimo, dove vi sarà possibile assaggiare a pochissimo prezzo una cucina in cui nulla vi è di precotto, e che prepara due piatti assolutamente inediti di cui uno consiste nelle lingue di anatra, prelibatezza da mandarini, condita di deliziosi aromi. La sera in cui i due Farfalloni si sedettero a quel tavolo, davanti a tante lingue in ogni piatto ebbero l’intuizione delle ragioni per cui ci sono al mondo tante anatre mute. L’ altro piatto ve lo riveleremo il prossimo Natale.