39 – Giugno ‘99

giugno , 1999

In una situazione contraddistinta dal riduttivismo più squallido, abbiamo comunque avuto il piacere di imbatterci in un’esperienza di grande valore politico-culturale e professionale, nel ristorante allestito da GIANFRANCO VISSANI. Il cuoco umbro ospita ogni sera nel suo spazio gastronomico un collega di spicco. Prima di tutto, l’ambiente è allestito con una cura che si distacca clamorosamente da tutto il pressapochismo becero ed un po’ unticcio degli altri punti di ristorazione e di rinfresco della Biennale: le tavole sono ben arredate, le stoviglie brillanti, le sedie comode e i bicchieri sono adatti al tipo di vino scelto; il servizio, pur in mani inesperte di giovani forse disorientati, rivela uno sforzo organizzativo davvero notevole. La sola difficoltà è forse costituita dalla rigidità della procedura d’accesso un po’ costrittiva, ma è il meno che ci si possa aspettare in un contesto esterno fin troppo caotico. La serata era affidata alle mani dello chef israeliano Itay Shalev ed il menù era obbligato ed a prezzo fisso (basso). Dapprima è arrivato la zuppa di anguria con menta e feta, poco più che una sfiziosità, ma molto gradevole; sono seguite le scaloppe di fegato grasso con salsa di pera e chutney di melograno, molto saporite e profumate; per secondo piatto un ottimo agnello con verdure allo zafferano e ceci, uno stracotto dal profumo orientale.. La cena è finita con un dessertcapolavoro che si distingueva sul resto per la sua eccellenza: halva con ravioli di lamponi e malabi (una specie di panna cotta) al gusto di rose. Abbiamo bevuto un Orvieto classico superiore, passabile se pure un po’ banale, al quale è seguito un ottimo Dolcetto di Ovada della Cascina Frascara di Paolo Grassi del 1998. E’ la prima volta che dichiariamo di apprezzare Gianfranco Vissani e lo facciamo con piacere anche perché lo abbiamo visto all’opera in una situazione che gli richiedeva una umiltà di certo non comune.

Nella rue de Varenne hanno sede numerosi palazzi istituzionali: dalla Presidenza del Consiglio all’ambasciata italiana e la zona ha un suo compassato sussiego ed è più tranquilla di quelle limitrofe di St Germain, di Montparnasse e degli Invalides. Accanto ad un luogo prestigioso ed impegnativo come l’Arpège, fioriscono alcuni ristorantini di quartiere più o meno gradevoli. Un carattere proprio ha, a nostro avviso, LE PETIT LAURENT, al numero 38 della via in questione; un locale minuscolo, ma molto accogliente, arredato in un gradevole e ingenuo stile neo Luigi XVI. La cucina è gustosa, fresca e trova un giusto equilibrio tra tradizione e novità. Se pure la proposta dei piatti di pesce sia la più ampia, anche i pochi piatti di carne sono ben curati e interessanti. Si apprezza l’accuratezza nei dettagli già dai crostini con la piccola maionese alle erbe fini che accompagnano il tradizionale kir royal, e con la stessa cura sono presentate le entrées: siano la poelée de langoustines sur salade aux fleurs de thym, un’insalata di scampi carnosi, passati nel burro nocciola, molto gradevole e ovviamente profumatissima, con un condimento appena connotato dalla vivacità di un leggero aceto aromatico; oppure il sontuoso foie gras de canard in terrina con quenelles di fichi accompagnato dal caldo e fragrante pane tostato. Ineccepibile il succoso filet de boeuf au foie gras, con tortino dorato e croccante di patate ed un assortimento di legumi; anche le noisettes d’agneau si distinguevano per l’eccellenza della materia prima, tenerissima e molto gustosa e per l’eleganza della presentazione. La scelta dei formaggi dal carrello è ridotta, ma equilibrata; la carta dei dolci è una tentazione ad ampio raggio: noi abbiamo trovato eccellenti gli accoppiamenti di frutta e gelato ed in particolare un dolce di mele al forno e mandorle con una salsa al caramello e gelato alla vaniglia. La carta dei vini offre un limitato numero di buoni crus per ogni regione, a prezzi accettabili, noi abbiamo apprezzato un dorato Gewuertztraminer alsaziano del ‘92, profumato di rosa e biancospino e un Cahors Chateau Chambert dell’ 89, dal buon goudron di liquirizia di legno. Il tutto servito con molto garbo e cortese professionalità, con un conto finale all’altezza del quartiere, ma non eccessivo.