34 – Dicembre ‘98

dicembre , 1998

Ci sono voluti più di due anni per assemblare con due milioni e mezzo di bulloni i quindicimila pezzi che compongono i trecento metri della torre che l’ingegner Eiffel aveva progettato per l’esposizione universale del 1889, destinata ad essere smontata poco dopo ed invece diventata il simbolo permanente di Parigi, discusso ed odiato da molti e fra gli altri detestato da Verlaine che era disposto a qualunque deviazione pur di non passare nei paraggi ed essere costretto a vederla. Il ristorante JULES VERNE è collocato al secondo piano della torre, a 123 metri di altezza: vi si accede dal pilastro sud con un ascensore riservato e ci si ritrova in un ambiente di molte pretese, tutto arredato in nero, con grandi vetrate che consentono di godere a trecentosessanta gradi della vista di Parigi, lusso esterno che si aggiunge al lusso dell’interno. Qui opera da anni un grande chef di nome Alain Reix che ne ha fatto un vero punto di riferimento per l’alta cucina parigina a cui si accede soltanto dopo mesi di paziente attesa. I piatti proposti sono addirittura in grado di condurre al delirio chi li gusta ed allo stesso tempo hanno un’intrinseca impronta genialmente delirante che deriva dalla scelta di esaltare di ogni piatto gli ingredienti secondari, talvolta umili, rispetto all’elemento principale che è di sua natura sempre nobilissimo.
Quando ci siamo arrivati, la sera di San Silvestro, abbiamo avuto l’esperienza che segue:
L’amuse bouche di uova di quaglia sul crostino di fegato di anatra accoppiato impeccabilmente con il Kir fatto con Aligoté e Cassis. Il foie gras de canard au torchon, épices douces à l’écorce d’orange, originale per un sentore leggero come un’eco che ricorda la castagna e cremosissimo, è esaltato dal profumo d’arancia; noi lo abbiamo abbinato con un Vouvray Moelleux del 1976, un vino della regione della Loira, le cui uve quasi macerate danno questo morbido liquore, dorato e sontuoso, fruttato di cotogna e moscato che lo rendono non meno adatto al fegato del giustamente celebrato Sauternes.
La marinata di coquilles Saint-Jacques aux truffes, salade frisée aux artichauts, quasi perfetta, malgrado un eccesso di prezzemolo fresco nel piatto, proponeva in modo evidente il predominio del tartufo che invece forse avrebbe dovuto essere solo di cornice alla leggerezza impalpabile delle capesante.
L’homard en bouillon de poule au cèpes ripresentava il rapporto inverso rispetto alla tradizione tra i porcini trionfanti e l’umiltà dell’aragosta passata nel brodo di gallina.
Il dos de bar aux pommes écrasées et caviar Sévruga fortunatamente non cadeva nella trappola di mettere in evidenza le patate schiacciate e trovava un bell’equilibrio tra le uova di storione e il branzino.
Sui tre piatti di pesce abbiamo ritenuto giusto soffermarci su un Puligny Montrachet del 1993, un bianco di Borgogna di ottima stoffa, dal profumo di mela, biancospino e un leggero sentore umido di bosco.
Il filetto di cerva poelé, con la composta salata ai fruits d’hiver si presentava come un piatto all’antica, stracotto, forse servito più freddo del consentito, il che contribuiva a falsare i rapporti tra i vari elementi del contorno di frutta. Non abbiamo avuto la mano felice con un Margaux del 1988, un Bordeaux rosso la cui etichetta abbiamo letto forse con distrazione, soprattutto caratterizzato da un forte e amaro goudron.
Il formaggio bianco e cremoso:Vacherin à la cuillère, salade de mache, saporito e fresco è stato il preludio di una ganache pralinée, sablée au beurre demi-sel, autentico coup de théatre dello chef: soffice cioccolata e mandorle aeree, incorniciate da un biscotto cosparso di sale, come elemento fondamentale che per contrasto esaltava ogni sfumatura del dolce.
Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare in un ambiente così pretenzioso, il servizio si distingue per una cortesia quasi affettuosa, mentre è invece assolutamente prevedibile il conto addirittura astronomico!