88 – Dicembre ‘92

1 dicembre 1992

Alla galleria Fontanella Borghese, nell’ omonima via è in corso una mostra del Nuovo futurismo. Come giustamente dice nella intelligente presentazione al catalogo Stefano Petricca la “torta” è “da gustare sin dalla vetrina”. Le opere esposte sono per lo più ricavate da materie plastiche variamente colorate e stampate. Sono oggetti che potremmo vedere messi in vendita da una Vanna Marchi televisiva tra un detersivo e una linea dimagrante. Gli autori hanno un gusto ironico ed allegro, giocano coi materiali, con se stessi ed anche coi possibili clienti provocando come fa Gian Antonio Abate con la sua “macchina dei sogni”; scherzando come Innocente che titola il suo stellone di plastica rossa “Rock Energy”, citando come Marco Lodola le insegne di Broadway, tuffandosi nel nonsense come fanno Plumcake e Postal con le loro plastiche stampate o so1cate da motivetti decorativi, arieggianti certe tendine da tinello americano. Se è un’arte minore, almeno ci risparmia la presunzione di altre non meno superflue manifestazioni di boria saccente.

Sarà forse perché era un pomeriggio piovigginoso e i due Farfalloni erano umidi ed intirizziti dal freddo; però quello che abbiamo visto alla gallerie del Crac (Centro ricerche Artistiche Cancelleria) in piazza della Cancelleria ci ha messo addosso molta tristezza. Abbiamo trovato, quasi abbandonate in due squallide stanzette, un mucchio di povere cose, che non riuscivamo a percepire come espressioni di una qualsiasi forma di arte. Tutto dava la sensazione del già visto e poi ancora rivisto: triste la pittura di Paola Soldini, dal disegno cattivo e dal brutto colore; presuntuosa la logorrea ripetitiva di Jay Hoffman, neppure originale; come pessima imitazione di pittura ci è parsa quella di Albino Mattioli. Vecchie nel loro barocchismo calligrafico ci sono parse le “tracce” di Nikos Zivas.
Roberto Angelini tenta la strada della scultura, ma non riesce a dare vera tridimensionalità ai suoi lavori e diventa volgare quando affronta argomenti come il “bacio” o il “nudo abbondante”. Siamo usciti un po’ depressi e nella via verso casa abbiamo ritrovato l’antica Roma, che anche sotto la pioggia riesce a comunicare il senso di ciò che è bello e che nessun grigiore invernale riesce ad imbruttire.

87 – Novembre ‘92

1 novembre 1992

È di questi ultimi tempi un attacco che la cultura sta facendo al «filosofese»: Cacciari e Habermas sono gli obiettivi più aggredibili, però insieme al loro linguaggio viene stigmatizzato quello di coloro che parlano e parlano in modo assolutamente incomprensibile. Noi pensiamo che nessuna epoca riuscirà mai a ribellarsi a questi linguaggi insulsi e prolissi:
troppe sono le persone che hanno raggiunto posti di potere non per studio o serietà culturale, ma semplicemente per intrallazzo; quindi costoro vogliono scrivere e parlare, ma, poiché hanno ben poco da dire, fanno come la seppia: si avvolgono in un inchiostro nero e indecifrabile. Siamo molto contenti che sia stato aggredito il filosofese, indecentemente oscuro e dilettantesco; ma ci piacerebbe anche veder attaccato il linguaggio dei più o meno noti critici dell’ arte figurativa, che assemblano parole e concetti che, di fatto, non hanno nesso alcuno con la realtà. Non si capisce nulla di ciò che costoro descrivono, e non si capisce alcunché del loro pensiero: ci sembrano molto simili ai cuochi della ormai defunta nouvelle cuisine che univano tra loro ingredienti totalmente incongrui, nonché disgustosi, contrabbandandoli per geniali trovate culinarie. La filosofia e la cucina si stanno ribellando a questi mistificatori, abbiamo invece l’impressione che l’arte figurativa sia ancora assolutamente vittima degli sproloqui insignificanti ed anche un po’ gratuiti dei critici.
Ci siamo imbattuti in un commento di questo genere sul catalogo della mostra di Alejandro Kokocinsky alla Galleria Interarte di piazza del Pallaro, in cui Domenico Guzzi accorpa grumi di parole, totalmente insignificanti ed anche demenziali, per descrivere, forse, la pittura dell’artista italo-russo-polacco-sudamericano ora operante in Germania, il quale invece avrebbe diritto ad un commento molto più onesto, semplice, diretto e magari anche contestabile. La sua è una pittura valida, il disegno è ben padroneggiato ed i colori sono tenuti sotto controllo, in tutti i suoi quadri c’è un leggero senso di smarrimento, come se egli si sentisse un po’ estraneo al mondo. Il suo è un linguaggio decadente, ma non snervato, la fantasia unisce immagini anche lontane tra loro, costruendo sogni e parlando di desideri inconfessabili. La ricerca di una strada sua propria attraverso una grande quantità di stimoli e di ispirazioni ci sembra sincera, così attraverso il barocco e fino ad oggi si rilegge un percorso che nessun artista può legittimamente ignorare; ma Kokocinsky non si è soffermato su qualche particolare fonte ispiratrice e la sua Musa passa da un angelo a una cupola, da un cavallo alato ad un volto femminile, spesso affollati nello stesso quadro, sprofondati in nebbie luminose o appoggiati su scure superfici, nel tentativo di narrare la storia di un sogno che ogni volta si spezza, andando in frantumi che vale la pena di indugiare a raccogliere.

86 – Ottobre ‘92

1 ottobre 1992

Fino all’altro ieri i due Farfalloni erano assolutamente convinti di non essere razzisti. In un’afosa mattina dell’ottobre romano la nostra certezza è vacillata e di cui siamo profondamente mortificati e domandiamo perdono agli Dèi. Il fatto è che, dopo aver visto la mostra di arte scandinava al Palazzo delle Esposizioni non siamo riusciti a trattenere un’esclamazione all’unisono: «Ma questa è una cultura inferiore!» Inorridiamo noi stessi di ciò che ci è scappato di bocca e lo confessiamo anche per espiare. Subito dopo abbiamo pensato a Grieg e a Sibelius e ci siamo rincuorati, ma non tanto da giustificare le stupidaggini che abbiamo visto offendere le sale, peraltro neppure troppo sacre, del palazzo di via Nazionale e ci siamo rammaricati che le renne e le aurore boreali non abbiano insegnato niente ai moderni rappresentanti dell’ arte di quei paesi. Scherzi a parte, ci sembra che la parte dedicata alle arti visive di questo complesso di iniziative che vorrebbero celebrare la cultura nordica si limiti a portare alla nostra conoscenza esempi soltanto ripetitivi di un percorso artistico già troppo visto ovunque, per di più attraverso pitture o allestimenti decisamente scadenti. Noi speriamo che questi Aspetti dell’esperienza nordica nell’arte,1890-1990 non rendano giustizia alla re alta culturale di un area geografica tanto vasta, la cui realtà non è forse legittimo sintetizzare così brevemente. Un frizzo di interesse ci è venuto dalla scoperta di un quadretto di August Strindberg, Il fiore sulla spiaggia (1892), un olio su lamiera dominato da un azzurro glaciale di cielo e di mare. Perduta poi ci sembra l’occasione di rivendicare l’appartenenza di un artista come Edward Munch ad una precisa area geografica e culturale, limitandone la presenza in mostra ad un Paesaggio del 1919, che, così isolato, non riesce a dare conto di alcun significato artistico, culturale e tanto meno geografico.

È veramente delizioso avere il coraggio di prendere una matita e viaggiare per il mondo, disegnando quello che si vede. Secondo noi la fotografia è un’ arte nobilissima, anche se i giapponesi sono riusciti a farcela odiare; ma resta il fatto che preferiamo i disegni.
Gli appunti con la matita di Kokoschka presi durante I viaggi in Italia tra il 1948 e il 1963 esposti in Campidoglio, sono immaginette commoventi ed esaltanti. Il suo tratto robusto ed incisivo, la sua capacità di osservazione, acuta e profonda, rendono la storia dei suoi viaggi e delle sue riflessioni come meglio non si potrebbe. C’è chi pensa che questo debba essere un privilegio riservato a chi si chiama Kokoschka, o giù di lì; tuttavia noi invitiamo tutti a viaggiare portandosi appresso, magari insieme con la macchina fotografica, un taccuino per disegni, anche se non è detto che finiscano per certo in Campidoglio. Quello che si vede esposto al Palazzo dei Conservatori è solo una parte minima del contenuto di numerosissimi album e i curatori hanno scelto di mettere in mostra soprattutto i disegni ispirati ad opere d’arte e monumenti; ma a fianco di schizzi che rielaborano e riflettono sui Prigioni di Michelangelo capita di vedere abbozzato un cespuglio di Cardi ad indicare che il presente e il paesaggio naturale sono osservati con attenzione da un viaggiatore, sempre pronto a cogliere gli stimoli offerti anche per caso.
L’aver usato soltanto matite colorate dà a tutti i fogli un sapore di rapida impressione e una vivacità senza prosopopea anche nei confronti delle fonti più suggestive della classicità romana e della Magna Grecia o del Rinascimento fiorentino.

85 – Settembre ‘92

1 settembre 1992

La Dodicesima Quadriennale al Palazzo delle Esposizioni di Via Nazionale si intitola quest’anno Profili – Italia 1950-1990, Profili, Dialettica, Situazioni. Sul bel catalogo edito da Carte Segrete si leggono molte dichiarazioni d’intenti e spiegazioni dei criteri che vorrebbero fare di questa edizione una tappa di rinnovamento secondo quanto si legge, la quadriennale non dovrebbe più costituire un punto di arrivo, ma un punto di partenza di altre rassegne continuative nel tempo, in stretta collaborazione con tutte le Regioni ed aperta anche alla partecipazione internazionale, superando i limiti dell’attuale Statuto.
Le idee ci sembrano molto poco chiare ancora ed abbiamo l’impressione che non si vada in nessuna nuova direzione, ma che la selezione sia quest’anno (come sempre e come forse inevitabile) di parte e casuale; e condividiamo il parere di Ugo Attardi che dice: «…questa resta sicuramente Una interessante prima esposizione; che lascia fuori di sé però almeno un’altra grande mostra del meglio dell’arte di questi ultimi anni.» Passeggiando nelle grandi sale abbiamo incontrato una folla di amici e nemici, artisti giovani e vecchi, che hanno di fatto contribuito, nel bene e nel male, a costruire il panorama delle arti figurative di questo ultimo quarantennio; molti altri non li abbiamo visti e ci è dispiaciuto. Noi siamo spesso accusati di essere addirittura faziosi quando esprimiamo il nostro parere. In parte accettiamo la critica, ma ne facciamo un nostro punto di forza: è importante operare delle scelte sempre il più precise possibili, accettando nel contempo, come noi speriamo di fare, il dibattito tra tutte le componenti estetiche e poetiche dell’arte, pronti anche a uscirne accresciuti e a mutare d’avviso.

Di questi tempi sono molto di moda le «leghe», che indubbiamente esprimono parte dell’insofferenza di molti italiani per il malgoverno che per troppo tempo ha guidato il nostro Paese. Ma vi è mai stato un buon governo?
Nel farnetichio delirante dei capi leghisti si esprime anche tutto il qualunquismo volgare degli imbelli, degli insipienti e degli invidiosi. Ormai avere la impudenza di tuonare dalla Milano corrotta dei politici ed imprenditori milanesi contro i camorristi e i mafiosi della politica nel centro-sud è patetico e ridicolo. D’Azeglio e Cavour, che forse erano quasi onesti, o forse così c’illudiamo che possa essere stato, basandoci sulle frottole dei nostri antichi libri di scuola, sono morti da tempo. In parte è vero che il sud ha succhiato troppe delle energie economiche del nord, però con grande gioia degli industriali nelle cui tasche molto restava. E anche vero che dal sud si è trasferito al nord un tipo di delinquenza presuntuosa, casareccia e brutale; ma altrettanto male è sceso dal nord verso il sud. Tutti lo sappiamo ormai che il brigantaggio meridionale è stato voluto dalla collusione tra i re sabaudi e gli industriali. Qui vogliamo stigmatizzare quanta volgarità proveniente dal nord si sia riversata su tutto il resto d’Italia.
Roma, ad esempio, ne è stata scempiata. Re e regine di origine subalpina o mittel-europea hanno massacrato la meravigliosa opera di Mascherino, quel Quirinale che oggi ostenta sale addobbate secondo un gusto più vicino alla volgarità di un tabarin di lusso che non a una reggia resa tale dalla grandezza di talenti come Guido Reni. Pensiamo poi ai delitti ambientali perpetrati con la costruzione dei lungotevere. Dopo circa un secolo ancora inorridiamo se ricordiamo lo sventramento di gioielli come l’area di piazza Venezia, per dare spazio alla costruzione del bonario architetto Sacconi: il mausoleo per Vittorio Emanuele non è forse neppure così brutto come troppi dicono, ma certo sarebbe stato meglio costruirlo sul lido di Ostia, per far salire o scendere dalle scalinate Wanda Osiris. Ancora ci sentiamo male se pensiamo alla costruzione dei corsi e dei quartieri piemontesizzanti che hanno tagliato a pezzi palazzi barocchi ed antiche chiese. Non sono forse tutti questi delitti irreparabili?
Riusciranno mai gli ex signori del nord a risarcire Roma di tanto scempio? A loro attenuante si può solo ricordare che ancora l’altro ieri sono stati politici e maneggioni di tutt’Italia che hanno continuato ad aggravare le cose e a distruggere borghi antichi per celebrare una «conciliazione» che sarebbe stato meglio lasciar cadere nell’oblio. Il cinquecentesco Palazzo Regis, opera presunta di Sangallo il Giovane, per sua disgrazia si è trovato sulla traiettoria di uno di questi corsi: corso Vittorio Emanuele, per cui si ebbe l’idea di appiccicare sul palazzo mutilato una facciata tozza e disarmonica in un mal orecchiato stile rinascimentale, ma lasciando per fortuna intatto il resto. Dal 1948 ospita il Museo Barracco, collezione non vasta ma interessante e di gusto grandemente raffinato, di arte egiziana, assira, greca è etrusca e romana, messa insieme dal suo fondatore con particolare felicità di risultati. L’attuale sistemazione del Museo è frutto di un lavoro durato all’incirca dal 1979 al 1990, ma solo da pochissimo la visita della collezione è nuovamente consentita al pubblico dopo prolungatissimi e quasi continui periodi di chiusura, per cui non ci par vero di parlare di un piccolo patrimonio che una volta tanto è stato restituito ai cittadini che di norma sono solo espropriati. Come abbiamo già detto – tutto il palazzetto, noto anche come La Farnesina dei Baullari, è un gioiello: il cortile è sobrio ed elegante; dalle finestre sulle scale si possono veder suggestivi panorami romani. Ci sembra di poter dire che questo un museo a misura d’uomo: poche sale accoglienti invece del solito affastellamento insulso e burocratico che rendono in genere invivibili i musei di tutto il mondo. I piccoli e grandi tesori della scultura antica (sono per lo più statue) si mostrano, quasi impudichi per la loro bellezza e un po’ sfrontati: ci si può girare intorno Con calma, senza subire l’aggressione di turisti beceri e di guardiani troppo scortesi. La statua acefala di Apollo accoglie per prima il visitatore già sotto il portico, sul mezzanino stanno due statue anch’esse acefale di Una fanciulla in atto di versare l’acqua da un vaso e una Musa. Al primo piano ci Sono esempi dell’arte egizia, sumera, assira, etrusca e cipriota; due teste: una in granito nero di Ramesse II da giovane e una in diorite nera di un uomo «barbato», si fanno ammirare a lungo per la suggestione delle fisionomie e la ricchezza dei dettagli; ma non meno impressionante è la statua del corpulento Dio Bes: un nano mostruoso, accovacciato sulle gambe, in atto di mostrare la lingua, opera egiziana di epoca romana proveniente da una villa di Colonna. Tutte commoventi le sculture del secondo piano, per lo più greche: ricordiamo alla rinfusa un Ercole, copia da Policleto, un busto di Marsia, da Mirone, la statua di Narciso, purtroppo decapitata, la dolce testa di Alessandro Magno, leggermente reclinata, la cagna ferita, replicata da un originale di Lisippo. Inoltre in teche ad ogni piano vasetti, statuette votive, sigilli e amuleti. Si possono ammirare alcuni frammenti di mosaici romani e medioevali.
Insomma un piccolo, raccolto mondo di cose che parlano di un passato molto lontano con discrezione e confidenza, senza gridare, a due passi dal grande e chiassoso traffico di corso Vittorio.

84 – Giugno ‘92

1 giugno 1992

Passeggiata-Promenade si intitola la personale di Sergio Ceccotti allo Studio S-Arte Contemporanea di via della Penna 59. Nato a Roma nel 1935 l’artista ha però scelto come sua altra città d’elezione Parigi, di qui ha origine il titolo bilingue che allude ai due soggetti delle opere esposte: Roma e Parigi, due città che anche noi amiamo e che in qualche modo hanno anche per noi significati paralleli; di qui il dovere di confessare il grande struggimento che la doppia evocazione ha destato in noi. La prima cosa che abitualmente si sente dire davanti alle opere di Ceccotti è che sarebbero quadri realisti o iper-realisti. Questo è però vero solo nel significato migliore, in quanto Ceccotti cerca davvero di cogliere una realtà.
La realtà che egli coglie non si limita comunque mai al riferimento o alla trascrizione di puri e semplici dati e neppure indulge ad una troppo facile narrativa di tipo aneddotica. Ceccotti ci dà la sua realtà di due città molto simili e molto diverse fra loro e la sua capacità di comunicazione riesce a trasmettere quella ricchezza di significati a chi osserva con attenzione. Per fare ciò il pittore usa un linguaggio molto preciso: i colori caldi, rossi, ocra, il verde degli alberi e l’azzurro luminoso dei cieli rendono le atmosfere di Roma, colte nelle diverse luci del giorno o della notte; mentre invece l’aria di Parigi si traduce in limpidezze algide e cristalline imbevute di blu più o meno chiari in cui squillano nette macchie di rosso o di bianco, oppure nell’ombrosità notturna dei canali o delle piazzette alberate. Il disegno è sempre accuratissimo e pronto nel riprendere quei motivi architettonici di portali sormontati da centauri a Roma o affiancati da cariatidi nel palazzotto parigino della Sécurité sociale. Di Roma Ceccotti coglie i due aspetti apparentemente contraddittori ma che risultano poi omologhi della monumentalità di un passato imperiale e remoto e della imborghesita pigrizia dell’urbanistica piemontese. Di Parigi la vastità delle prospettive, la grandiosità dei ponti e dei monumenti quali la Conciergerie vengono messe a contrasto con la pacatezza intima di un inverno tra le stradine di Montmartre e la desolatezza estraniata di una stazione di metropolitana, affollata di personaggi chiusi in emblematici isolamenti individuali. Una cosa ci ha incuriosito molto: le due città sembrano nelle tele di Ceccotti assolutamente e surrealisticamente linde, mentre ci pare che tra le altre cose abbiano in comune anche grossi problemi di nettezza urbana!

Tutta l’arte in ogni sua forma è sempre fascinosa. Noi siamo così sensibili alle sue suggestioni che persino nel campo figurativo ci ostiniamo ad avventurarci anche nei linguaggi dell’informale, del concettuale e così via. Usciamo quasi sempre delusi da questi tentativi, però talvolta in uno scarabocchio o nell’uso particolare di un materiale troviamo qualche cosa che ci colpisce. La scultura è una forma espressiva che caratteristiche ben precise e talvolta entusiasmanti: la tridimensionalità la rende particolarmente vivace e continuamente nuova. Girare intorno ad una statua, osservare dal basso verso l’alto il rilievo di un frontone affacciano alla mente serie di prospettive, luci ed ombre, tanto che si ha la sensazione di scolpire con lo scultore. Quando poi questi sa usare con gusto e sensualità i suoi materiali si aggiunge anche il piacere del tatto. Noi suggeriamo un giochetto: provate ad avvicinarvi ad una scultura evitando di guardarla prima nel suo insieme, ma arrivate tanto vicino da poterne solo fissare o toccare un piccolo particolare; da quel punto provate prima ad immaginarvi l’opera nel suo insieme e solo dopo guardatela; secondo noi se la scultura è riuscita voi avrete immaginato senza dubbio qualcosa di molto vicino al risultato complessivo, ma allo stesso tempo avrete la gioia di scoprirne anche mille aspetti assolutamente inimmaginabili. Tutto questo noi lo abbiamo sperimentato davanti alle sculture di Carlo Venturi esposte alla Galleria Incontro d’Arte di via del Vantaggio 17.
L’opera più significativa tra quelle esposte è ispirata al ciclo mitologico del dio orfico di origine orientale Fanes o Fanète che lo scultore rappresenta in gruppo marmoreo in cui il busto e la testa del Dio affiorano tra le teste di quattro cavalli in una intenzione di allontanamento dal mondo. Il marmo giallo di Numidia è il nobile materiale che Venturi plasma, incide e disegna, articolandolo in una ricchezza narrativa che sintetizza in un’opera un intero ciclo epico. Ora il marmo è levigato e si offre morbido alla carezza della mano, ora è inasprito in superficie grezza che frena il gesto, ancora poi sono i mille gerogliflici di un discorso tatuato che si diffonde dal capo fino allo sterno della figura divina, che ha la possenza e l’erotica sensualità di un auriga platonico. In marmo nero del Belgio, misto al bianco marmo pario o ancora al giallo di Numidia sono alcune altre opere raffiguranti astronomi isolati sulle cime di minuscole piramidi o scale elicoidali intere o spezzate con intenzioni dichiaratamente simboliche, ma con lo stesso amoroso rapporto con le figure e la materia. O diventano l’imponente madre orientale, che allatta il figlio e il cui corpo unisce al gesto protettivo una minacciosa sensazione di incombenza, che rammenta quella della Grandi Madri di tutte le mitologie.

83 – Maggio ‘92

1 maggio 1992

Il disegno è una forma espressiva che molti considerano minore: si raccontano aneddoti, più o meno veritieri, di grandi artisti che hanno tracciato qualche linea su tovaglioli di ristorante che poi sono in seguito stati incorniciati dagli astuti osti; divenuti preziose e rare opere su cui i critici sproloquiano tuttora. C’è anche un bel verso di Garcia Lorca che definisce il ramarro «goccia di coccodrillo»; così forse il disegno è il ghiribizzo di un artista rilassato, o una omeopatica dose di fantasia d’arte.
Indubbiamente comunque il disegno è una tecnica artistica autonoma e peculiare: non è paragonabile al frutto del meditato lavoro di affresco o di pittura al cavalletto ed ha la caratteristica di non costare materialmente quasi niente all’artista; ma forse proprio per questo è più aggressivo ed impudico. Guardare un disegno è come coglier di sorpresa il suo autore nudo: e la nudità è sempre rivelatrice ed impietosa. Raffaello da Urbino, a quanto si sa, era un bel ragazzo, anche se un po’ effeminato; nei suoi disegni lo scopriamo quanto mai indifeso, ma proprio per questo ci accorgiamo di quanto la sua grandezza sia superiore a quella dei contemporanei. Sulla carta le linee disegnate da lui si stendono fluide: una palpebra, un omero, un capitello vengono colti all’improvviso, come di sorpresa. L’immagine e l’autore appaiono allo stesso modo privi di paludamenti e di armi per difendersi. Raffaello è stato uno dei più grandi artisti che l’umanità abbia avuto e questo lo sanno tutti: la Madonna della seggiola, gli affreschi delle stanze vaticane, la Trasfigurazione, sono opere che anche se andassero oggi perdute resterebbero stampate nitidamente nell’inconscio sociale di tutti i popoli. Proprio per questo è fondamentale cercare di avvicinarsi con temerarietà anche un po’ voyeuristica ai suoi disegni. E un po’ come se si ascoltasse l’artista stesso abbandonarsi ad un gioco di libere associazioni sul divano dello psicoanalista. Ed ancora una volta, si scoprirà quanto egli sia geniale, tracotante e coraggioso. Ecco materializzarsi sulla carta le figurette di uomini nudi, emergenti dai fogli di incerto colore, soli e inginocchiati, oppure in gruppi di combattenti che si fronteggiano; giovani vestiti in groppa a cavalli addobbati coi finimenti di parata; santi o prelati in atto di preghiera; fanciullini alati; Annunciazioni e Sacre Famiglie; Madonne col Bambino. A volte lo stesso soggetto appare ripetuto sul foglio in diverse prospettive, immutato o con varianti, oppure uno stesso nudo virile appare su più fogli in diverse positure. Le variazioni sul tema della Deposizione e della Trasfigurazione passano da Raffaello agli altri autori e poi sono riprese da lui medesimo. Le sanguigne bellissime della Loggia di Psiche moltiplicano i soggetti mitologici e profani. Provenienti dalle fatiche delle logge del Vaticano arrivano sotto gli occhi i disegni del Passaggio del Mar Rosso e della consegna delle Tavole della Legge a Mosé o le scene della battaglia di Ponte Milvio, tra Costantino e Massenzio. L’universo delle figure disegnate racchiude tutto quanto è stato possibile esprimere della cultura di un’epoca, filtrato dalla sensibilità di un Genio, giunto a noi con la frammentazione di un sogno. La mostra organizzata a Villa Medici dall’Accademia di Francia: Raffaello e i suoi è tutta da gustare senza lasciarsi inquinare dal bisogno di fare dietrologie.
Raffaello piace così, come questa rassegna lo propone, con un montaggio semplice, senza eccessivi scrupoli critici. È piacevole, osservando i disegni, ripescare nella memoria le grandi opere di cui sono preparazione o sviluppo. Molte cose sfuggono per ignoranza o smemoratezza, ma anche questo è bene che avvenga. È una gioia per il pensiero e per il ricordo lasciarsi andare e scoprire le proprie debolezze, smascherare qualche personale presunzione. È piacevole anche confrontare la grandezza di un genio con i più semplici sforzi dei suoi collaboratori e contemporanei. Chissà perché la Divinità ha voluto attraverso qualcuno parlare in modo più esplicito?

82 – Aprile ‘92

1 aprile 1992

Il gigantesco palazzo chiamato di S. Michele a Ripa è un coacervo di costruzioni barocche, opere di C. Fontana di Fuga e del Forti, che proprio perché nate in momenti diversi e destinate a specifiche funzioni non rappresentano un caso di omogeneità architettonica. Il complesso però, fin che fu lasciato a se stesso, sia pure in un deplorevole abbandono, conservava un certo fascino. Dopo che sono intervenuti i restauri recentissimi e addirittura ancora in corso e gli ambienti sono stati consegnati agli uffici del Ministero dei Beni Culturali si è imposta un’atmosfera desolantemente burocratica, fatta di incuria e di menefreghismo. Proprio l’immensità del tutto rende quegli edifici disponibili ad ospitare mostre più o meno significative di arte figurativa o di quant’altro si ritenga degno di esposizione, vi si tengono anche convegni, concerti e spettacoli. Aggirandoci per portici e saloni abbiamo avuto modo di visitare tre mostre che ci hanno variamente interessato. La rassegna più imponente è quella delle tele di Valeria Costa, pittrice piuttosto misteriosa e riservata, di cui sappiamo solo che è sorella del regista Orazio e che in quest’anno festeggerà i cinquant’anni di matrimonio. Volutamente tutti i circa centocinquanta quadri sono esposti senza date di riferimento, volendo forse dare una visione globale e sintetica del lavoro di una vita, come suggerisce anche il titolo. Pittura compagna di viaggio. Il viaggio della Valeria Costa è lungo nel tempo e ampio negli orizzonti: si va da saggi di bella pittura novecentesca, con assonanze che ricordano Donghi o Casorati, in ritratti e scene di gruppo, ad un decorativismo selvaggio di ispirazione africana, coloratissimo e lampeggiante. Una serie di acrilici monocromi recupera un fauvismo narrativo che ha per soggetto una vicenda umana ossessionata da una sorta di persecuzione, che inizia con la cacciata dal paradiso terrestre e si ripete in una serie di agguati cui invano si tenta di sfuggire in inutili nascondigli. Il tema dell’angoscia è quello che più reiteratamente colpisce chi osserva, un po’ disorientato, i risultati di una produzione fecondissima e disordinata, sostenuta però con buona padronanza delle tecniche dell’arte.

Di origine slava, ebrea, figlia di un rabbino morto nei lager nazisti, Eva Fischer, ha maturato la sua esperienza artistica in una dimensione europea, con soggiorni a Parigi, Londra e Madrid, ma ha scelto Roma come città d’elezione e punto di riferimento stabile. I non molti quadri di quest’ultimo allestimento comprendono un periodo ampio della sua produzione, all’interno della quale noi preferiamo senza incertezze un filone figurativo che esprime gustose annotazioni paesaggistiche ed ambientali, ci piacciono i suoi mercati, le marine, i ruderi, ed anche le danzatrici, per le atmosfere che ci restituiscono, malinconiche spesso, per i colori impastati e filtrati di luci e di ombre, per un disegno che forse perché facile, cattura una certa simpatia. Al fianco di questo ci lasciano perplessi i ripetuti tentativi informali, che ancor oggi, non ci paiono essere riusciti ad indicare una scelta nuova, sufficientemente autonoma od originale.

Claudia Petrone è una scultrice che sente profondo il fascino per i simboli. Così le opere qui radunate affrontano temi come la lotta, la speranza e l’infinito. Sono mani bronzee, che reggono sfere marmoree, piani di cristallo o drappeggi di fiberglass, oppure ammassi bronzei di piccole forme umane, che ci fanno pensare al pullulare delle figuri ne gotiche sui portali di antiche cattedrali, schiacciate tra blocchi di marmo o di ferro, che di volta in volta stanno a significare momenti diversi della lotta contro un terremoto planetario. L’artista riesce a padroneggiare bene i suoi materiali: bronzo, marmo e ferro hanno funzioni specifiche, le patine e i colori evidenziano di volta in volta atmosfere diverse, alleggerendo o appesantendo i volumi e le forme, evidenziandone sempre la posizione nello spazio, anche percepite nella loro umana realtà.

81 – Marzo ‘92

1 marzo 1992

Gli imbrattatele al mondo sono tanti; ed è anche giusta permettere loro in qualche modo di esprimersi. Certo che vedere che si spendano tanti saldi e per di più scoprire che è stato scempiato (per fortuna salo momentaneamente) uno spazio cinquecentesco, come quello del Chiostra di S. Maria sopra Minerva, spezzando i suoi ritmi architettonici e rovinandone l’atmosfera, fa veramente dispiacere. Non una delle tantissime opere esposte alla mostra organizzata per il Fiar International Prize, realizzate da artisti under 30 provenienti dai più diversi paesi del mondo è degna di essere vista. Perché allora parliamo di quest’operazione pseudo-culturale?
Semplicemente per denunciare come si sprechino somme ingenti che potrebbero senz’altro essere meglio impiegate, per esempio nella tutela del patrimonio artistico. Le opere, premiate e non, poco si differenziano le une dalle altre. Pastrocchi di pseudo-arte figurativa, formale, astratta, concettuale e via dicendo si affollano, senza rivelare neppure una qualunque velleità di ricerca, ma piuttosto adagiate in un qualunquismo tradizionalista. Non riusciamo neppure a capire perché i padri domenicani che reggono questo splendido complesso monumentale abbiano accettato di prostituirsi fino a questo punto: noi speriamo che non sia stato per danaro, ma soprattutto per distrazione. Una operazione demenziale, così delirante come questa patrocinata dal Gruppo IRI Finmeccanica, può solo essere stigmatizzata e non se ne può dire di più.

Il Neo-classicismo è un’espressione artistica molto coerente ed inscritta in un’epoca precisa; in effetti coincide con il trionfo di Napoleone. Però ogni epoca della storia occidentale, per qualche aspetto, si è voluta richiamare alla c1assicità: sgangheratamente lo fece l’epoca degli Ottoni; un po’ rozzamente l’Umanesimo e il Rinascimento; con bizzarra stravaganza il Barocco; in modo piuttosto volgare la nascente repubblica statunitense; con infantile protervia lo fecero il nazismo e il fascismo. Chissà ancora per quanto colonne corinzie e frontoni biancastri imperverseranno al mondo. Noi detestiamo quella orribile cosetta, dalle proporzioni sgangherate che fingono un’euritmia inverosimile, che è il tempietto del Bramante nel cortile di S. Pietro in Montorio, il quale se pure è un’aberrazione è splendido in confronto di quanto altro i neo-classici hanno fatto. Seconda noi soltanto il Barocco ha potuto legittimare l’estetismo per cui ha voluto richiamarsi all’antica Ellade, tradendola ed imitandola, con allegria, sensualità e disperazione. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona pur ce l’avevano nell’anima un frammento di quell’antica bellezza, e forse proprio per questo nel loro tempo il coloratissimo Partenone esplose. Una fra le tante fantasie sull’antichità classica è quella che in epoca imperiale animò l’opera di Antonia Canova, artista di indubbie, straordinarie capacità tecniche, ma abissalmente lontana dall’Ellade. Le statue degli antichi greci erano variopinte come le statuine del presepio napoletano, perciò diversissime dai biancastri monumenti da cimitero borghese realizzati dal Canova. Noi ci siamo avventurati un mattino nelle sale di Palazzo Ruspali, dove la Fondazione Memmo ha allestito, meritoriamente, questa significativa mostra di Canova all’Ermitage, raccogliendo gran parte di quanto le vicende storiche hanno racchiuso per secoli in quel Museo russo e lì siamo stati travolti da orde di ragazzetti delle scuole medie superiori ed inferiori, giovani totalmente disinteressati a qualunque casa che non fosse l’opportunità di comportarsi in moda becero schiamazzando scioccamente e toccandosi reciprocamente il sedere, mentre professorini con la voce in falsetto e professoresse arrochite parlavano agli inevitabili due secchioni, ornamento di .ogni classe, di «tensioni ascensionali» e «ricerca della purezza classica». In quella raccapricciante bolgia però Canova ci ha per l’ennesima volta vinto. La sua è un’arte che ha comunque un significato: produce opere cimiteriali, di esasperata sensualità un po’ troppo effeminata, ma ricca di intense esplosioni drammatiche. Il marmo acquista una consistenza di cera; è quasi unto; i gesti talvolta eccessivi, sono in altri momenti profondamente tragici. La fisicità femminile viene stravolta in una stilizzazione quasi astratta, liquida e fredda.
Il corpo maschile esplode invece in una sensualità ricca di toni caldi, profondamente concreti in una carnalità eroticamente emozionante. Quello che vogliamo dire è che il Canova più sincero e più riuscito non è quello decantato dalla critica romantica e novecentesca, sintetizzabile in un’aulica esaltazione di una bellezza tanto idealizzata da non corrispondere più ad alcun canone e meno che mai a quelli classici; ma è a nostro avviso ravvisabile nel coinvolgimento drammatico che lo prende e ci prende davanti alle figure maschili, alle prese con tutta la gamma dei sentimenti umani: il dolore di Orfeo, la sensualità maliziosa dell’Amorino alato, l’abbandono di Amore sulle spalle di Psiche, la sicumera seduttoria di Paride e persino la volitiva forza dei tratti del volto nel Ritratto di Napoleone, in cui neppure l’intento celebrativo riesce a sopraffare il bisogno di verità. Chiediamo scusa se non sproloquiamo anche sulle Tre Grazie, sulla Maddalena, sulla Danzatrice, su Elena e su Ebe, ma l’abbiamo appena detto, su queste pur bellissime sculture già troppo fiato è stato sprecato e non sempre a proposito. A complemento della mostra strettamente canoviana è esposta nelle sale del museo anche la Collezione Farsetti, ampia raccolta di terrecotte di piccole o medie dimensioni, spesso lavori preparatori di opere successivamente realizzate in scala monumentale, rintracciabili oggi in chiese e musei, firmate da autori quali Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Algardi, Stefano Maderno ed altri maestri italiani del XVII e XVIII secolo.

79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92

1 gennaio 1992

Le Mille e una Notte è il titolo di una raccolta di novelle, stratificate nel tempo della tradizione islamica, unificate dall’uso della lingua araba. Anche la cultura occidentale ha sempre sentito il fascino di questi racconti fantasiosi, sensuali, ironici e terribili. Basti in proposito pensare a Rimskij Korsakov o Pasolini. Ciò che l’occidente ha però di rado colto in queste saghe orientali è l’odio furibondo per la donna che in esse la cultura araba ha sempre espresso. In effetti nucleo e pretesto di queste narrazioni sono le astuzie escogitate da Sherazade per evitare di essere uccisa dal re persiano Shariyhar, misogino e persecutore delle donne dopo che ha conosciuto il tradimento della prima moglie. Ogni notte la fanciulla riesce a tenere avvinto coi suoi racconti l’uomo che, desideroso ogni volta di sapere come la storia andrà a finire, rinvia l’esecuzione all’alba successiva. Quella di Sherazade non è però una vittoria per amore, nonostante l’astuzia femminile permetta il finale hollywoodiano col fastoso matrimonio di prammatica. Ovviamente dietro alla misoginia così sbandierata si nasconde anche il fascino per la donna. Ugualmente è accaduto a Marco Rossati che in questa bellissima mostra alla Galleria Apollodoro di piazza Mignanelli esplicita, tela dopo tela, tutto l’orrore e la fascinazione che, come maschio, prova per la femmina che è anche in lui, oltre che per le donne del mondo circostante. Questo si intuisce anche dalla scelta che il pittore ha operato di non «illustrare» il racconto stesso, ma di riscriverlo a modo suo. Noi qui cederemo alla tentazione, che è quasi una sua proposta di identificare l’artista col navigatore che a bordo della sua barca sfiora i palazzi emergenti dall’acqua, guardando altrove per non restare vittima del fascino di «grazie» e «cariatidi» affacciantesi dalla «torre», languide bagnanti nella «darsena» o naufraghe terrificate dalla «loggia» sprofondante nel mare agitato. Rossati sfoga la sensualità nella pienezza dei colori, nella moltiplicazione delle architetture indiane e rinascimentali ad un tempo, nella carnosità di forme muliebri clamorosamente eccessive, nella costruzione di macchine fantastiche, che diventano «veicolo arcano» del mistero. Amina, Fathuma, Zobeida ed Aladino sono i fanciulli e le fanciulle seducenti col loro misterioso corredo di specchi, cetre, maschere e lampade dorate. Il «Grande tappeto volante» infine si leva col suo carico fantasioso sospeso tra il cielo e la terra, misteri non risolti, racconti interminati ed interminabili.

78 – Dicembre ‘91

1 dicembre 1991

La mostra Il lavoro dell’uomo nella pittura da Goya a Kandinskij, ospitata nello spazio espositivo del Braccio di Carlo Magno, proprio sul lato sinistro della stessa Basilica di San Pietro, vuole celebrare il centenario della promulgazione dell’enciclica di Leone XIII «Rerum Novarum». La rassegna curata da Giovanni Carandente costituisce un’occasione di grande interesse per l’ampiezza e profondità con cui viene trattato il tema proposto. Le opere provengono dai più famosi musei del mondo e sono suddivise per grandi argomenti: «Secolo di vapore e d’elettricità»; «Lavoro: realtà, allegoria, simbolo»; «Motivo religioso»; «La questione sociale» ed inoltre una sezione monografica è dedicata a quello che viene definito «Un artista del lavoro: Costantin Meunier». Diremo subito che una cosa ci ha colpito e che non crediamo sia dovuta alle scelte dei curatori, ma proprio ad una concezione che evidentemente deve appartenere all’inconscio sociale di un’intera epoca e che quindi gli artisti non hanno che potuto riflettere nelle loro opere: il lavoro è visto come una realtà indissolubilmente legata alla sofferenza e alla miseria. Contrariamente a quanto la retorica otto e novecentesca ha tentato di farci credere, quella del lavoro è per l’uomo una maledizione e nella maggior parte dei casi non solo non «nobilita» l’uomo, ma lo umilia. Non riesce a mitigare questa sensazione neppure l’aspetto religioso colto in molti interventi: troppo anche qui, infatti, il concetto di carità cristiana pare confondersi con quello di «elemosina». Tutto questo ovviamente non esclude l’alto valore poetico di molte opere, che sanno dare emozioni e che anche sono documenti vitalissimi di una realtà molto complessa, storica ed artistica.
Giovanni Fattori ed Antonio Fontanesi, Francesco Paolo Michetti e Antonio Leto sono quattro pittori italiani che scelgono come argomento il lavoro dei campi e nella diversità degli stili personali rendono bene l’idea di cosa fosse il lavoro per i pittori italiani di fine Ottocento: una festa di colori, il fascino dei corpi possenti degli animali, l’ammirazione per il ritmo contenuto nei gesti di chi semina o raccoglie.
Un argomento che ha acquisito oggi una nuova attualità e già allora ampiamente trattato è quello dell’emigrazione: argomento cupo nel segno semplicissimo di un belga come Eugène Laermans invece trattato forse con compiacimento retorico e pittorico da Raffaello Gambogi, con ricchezza di dettagli, una tavolozza ricca di effetti coloristici, in un insistito gioco di luci ed ombre. È questa una buona opportunità per rivedere L’acquaiola di Francisco Goya, i Due contadini che piantano patate di Vincent Van Gogh, un Picasso del 1909, timidamente cubista e ancora molto descrittivo: Fabbrica a Horta de Ebro. Si affollano altri grandi nomi: Daumier, Corot, Millet e via dicendo, fino al Kandinskij fauve del 1908-1909.
Personalmente abbiamo apprezzato le molte tele di Costantin Meunier: nelle sue opere’ di grande formato c’è molta retorica sicuramente, ma abbiamo ammirato l’intento di cogliere un mondo come quello della miniera nei suoi molti aspetti, seguendo la gente nei pozzi, entrando con loro in chiesa, cercando di rendere la grande sproporzione tra la fatica e l’uomo che deve compierla, in un mondo dove gli impianti sono giganteschi e la figura di chi lavora ne viene inghiottita come in una bolgia infernale, in cui il colore è sempre una vampata nel buio o qualche macchia nel grigiore generale. Forse sulla tela non appare così pesante e rigida quella linea che invece fu sua nelle sculture e che irrimediabilmente lo fa accostare ai «realismi» di regime che le dittature di tutto il mondo vollero come emblema di una falsa esaltazione del lavoro e dei lavoratori.

La pittura di Roberto Gasperini si presenta con le sue figurazioni che si manifestano attraverso una serie di velature; tecnica consueta per il Novecento, ma originale in questo suo mondo. Non sono le velature soltanto un artificio tecnico difficile da controllare, sovrappongono anche momenti estetici e spirituali diversi, se pur adeguatamente armonizzati. Il primo impatto desta ammirati sensi di pulizia compositiva; indugiando si scopre però la sovrapposizione di atmosfere sensuali ed anche un po’ morbose. Ancora si ritrova diffusa l’inquietudine che trapela come residuo della travagliata ricerca tecnico-formale del passato e che ora risulta ben controllata. Non è facile capire se Gasperini preferisce nascondersi od esibirsi; la sua arte è indubbiamente efficace e persino accattivante nel suo essere pittura di un solitario che fantastica quasi senza pudore, sulle opere degli altri artisti del suo tempo. Questa allo Studio S di via della Penna 56 è la prima mostra romana del quarantenne artista toscano, che a lungo ha lavorato nella solitudine della sua terra pisana, dalla quale ha senz’altro ereditato qualche ossessione, felicemente oggi trasformatasi in prodotto artistico. Diciamo ossessione perché tale ci sembra essere il fondamento primo dei simboli tanto spesso ritornanti in queste tele dell’ultimo periodo. Non solo quelli più clamorosamente evidenti per la loro gridata incongruità: il vulcanico cono fumigante, le uova in instabile equilibrio, l’affollarsi di nerastri o variopinti uccelli dai becchi troppo aguzzi, le teste manichino dalle chiome sfuggenti in perpendicolarità elettrizzate; ma quelle più fondamentali: vogliamo dire le asimmetrie, le obliquità, le pendenze che accentuano sempre la precarietà delle posizioni, l’indeterminatezza della separazione tra gli interni e gli esterni. Tutti elementi questi inquietanti, ma che risultano poi energicamente dominati, sottomessi al colore e alla luce, al velo, che non li nasconde, ma ne suggerisce il possibile senso, il solo che possono e debbono avere in quanto espressioni della capacità del fare dell’artista, maturo e consapevole, non ancora fortunatamente disincantato.