81 – Marzo ‘92

marzo , 1992

Gli imbrattatele al mondo sono tanti; ed è anche giusta permettere loro in qualche modo di esprimersi. Certo che vedere che si spendano tanti saldi e per di più scoprire che è stato scempiato (per fortuna salo momentaneamente) uno spazio cinquecentesco, come quello del Chiostra di S. Maria sopra Minerva, spezzando i suoi ritmi architettonici e rovinandone l’atmosfera, fa veramente dispiacere. Non una delle tantissime opere esposte alla mostra organizzata per il Fiar International Prize, realizzate da artisti under 30 provenienti dai più diversi paesi del mondo è degna di essere vista. Perché allora parliamo di quest’operazione pseudo-culturale?
Semplicemente per denunciare come si sprechino somme ingenti che potrebbero senz’altro essere meglio impiegate, per esempio nella tutela del patrimonio artistico. Le opere, premiate e non, poco si differenziano le une dalle altre. Pastrocchi di pseudo-arte figurativa, formale, astratta, concettuale e via dicendo si affollano, senza rivelare neppure una qualunque velleità di ricerca, ma piuttosto adagiate in un qualunquismo tradizionalista. Non riusciamo neppure a capire perché i padri domenicani che reggono questo splendido complesso monumentale abbiano accettato di prostituirsi fino a questo punto: noi speriamo che non sia stato per danaro, ma soprattutto per distrazione. Una operazione demenziale, così delirante come questa patrocinata dal Gruppo IRI Finmeccanica, può solo essere stigmatizzata e non se ne può dire di più.

Il Neo-classicismo è un’espressione artistica molto coerente ed inscritta in un’epoca precisa; in effetti coincide con il trionfo di Napoleone. Però ogni epoca della storia occidentale, per qualche aspetto, si è voluta richiamare alla c1assicità: sgangheratamente lo fece l’epoca degli Ottoni; un po’ rozzamente l’Umanesimo e il Rinascimento; con bizzarra stravaganza il Barocco; in modo piuttosto volgare la nascente repubblica statunitense; con infantile protervia lo fecero il nazismo e il fascismo. Chissà ancora per quanto colonne corinzie e frontoni biancastri imperverseranno al mondo. Noi detestiamo quella orribile cosetta, dalle proporzioni sgangherate che fingono un’euritmia inverosimile, che è il tempietto del Bramante nel cortile di S. Pietro in Montorio, il quale se pure è un’aberrazione è splendido in confronto di quanto altro i neo-classici hanno fatto. Seconda noi soltanto il Barocco ha potuto legittimare l’estetismo per cui ha voluto richiamarsi all’antica Ellade, tradendola ed imitandola, con allegria, sensualità e disperazione. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona pur ce l’avevano nell’anima un frammento di quell’antica bellezza, e forse proprio per questo nel loro tempo il coloratissimo Partenone esplose. Una fra le tante fantasie sull’antichità classica è quella che in epoca imperiale animò l’opera di Antonia Canova, artista di indubbie, straordinarie capacità tecniche, ma abissalmente lontana dall’Ellade. Le statue degli antichi greci erano variopinte come le statuine del presepio napoletano, perciò diversissime dai biancastri monumenti da cimitero borghese realizzati dal Canova. Noi ci siamo avventurati un mattino nelle sale di Palazzo Ruspali, dove la Fondazione Memmo ha allestito, meritoriamente, questa significativa mostra di Canova all’Ermitage, raccogliendo gran parte di quanto le vicende storiche hanno racchiuso per secoli in quel Museo russo e lì siamo stati travolti da orde di ragazzetti delle scuole medie superiori ed inferiori, giovani totalmente disinteressati a qualunque casa che non fosse l’opportunità di comportarsi in moda becero schiamazzando scioccamente e toccandosi reciprocamente il sedere, mentre professorini con la voce in falsetto e professoresse arrochite parlavano agli inevitabili due secchioni, ornamento di .ogni classe, di «tensioni ascensionali» e «ricerca della purezza classica». In quella raccapricciante bolgia però Canova ci ha per l’ennesima volta vinto. La sua è un’arte che ha comunque un significato: produce opere cimiteriali, di esasperata sensualità un po’ troppo effeminata, ma ricca di intense esplosioni drammatiche. Il marmo acquista una consistenza di cera; è quasi unto; i gesti talvolta eccessivi, sono in altri momenti profondamente tragici. La fisicità femminile viene stravolta in una stilizzazione quasi astratta, liquida e fredda.
Il corpo maschile esplode invece in una sensualità ricca di toni caldi, profondamente concreti in una carnalità eroticamente emozionante. Quello che vogliamo dire è che il Canova più sincero e più riuscito non è quello decantato dalla critica romantica e novecentesca, sintetizzabile in un’aulica esaltazione di una bellezza tanto idealizzata da non corrispondere più ad alcun canone e meno che mai a quelli classici; ma è a nostro avviso ravvisabile nel coinvolgimento drammatico che lo prende e ci prende davanti alle figure maschili, alle prese con tutta la gamma dei sentimenti umani: il dolore di Orfeo, la sensualità maliziosa dell’Amorino alato, l’abbandono di Amore sulle spalle di Psiche, la sicumera seduttoria di Paride e persino la volitiva forza dei tratti del volto nel Ritratto di Napoleone, in cui neppure l’intento celebrativo riesce a sopraffare il bisogno di verità. Chiediamo scusa se non sproloquiamo anche sulle Tre Grazie, sulla Maddalena, sulla Danzatrice, su Elena e su Ebe, ma l’abbiamo appena detto, su queste pur bellissime sculture già troppo fiato è stato sprecato e non sempre a proposito. A complemento della mostra strettamente canoviana è esposta nelle sale del museo anche la Collezione Farsetti, ampia raccolta di terrecotte di piccole o medie dimensioni, spesso lavori preparatori di opere successivamente realizzate in scala monumentale, rintracciabili oggi in chiese e musei, firmate da autori quali Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Algardi, Stefano Maderno ed altri maestri italiani del XVII e XVIII secolo.