87 – Novembre ‘92

novembre , 1992

È di questi ultimi tempi un attacco che la cultura sta facendo al «filosofese»: Cacciari e Habermas sono gli obiettivi più aggredibili, però insieme al loro linguaggio viene stigmatizzato quello di coloro che parlano e parlano in modo assolutamente incomprensibile. Noi pensiamo che nessuna epoca riuscirà mai a ribellarsi a questi linguaggi insulsi e prolissi:
troppe sono le persone che hanno raggiunto posti di potere non per studio o serietà culturale, ma semplicemente per intrallazzo; quindi costoro vogliono scrivere e parlare, ma, poiché hanno ben poco da dire, fanno come la seppia: si avvolgono in un inchiostro nero e indecifrabile. Siamo molto contenti che sia stato aggredito il filosofese, indecentemente oscuro e dilettantesco; ma ci piacerebbe anche veder attaccato il linguaggio dei più o meno noti critici dell’ arte figurativa, che assemblano parole e concetti che, di fatto, non hanno nesso alcuno con la realtà. Non si capisce nulla di ciò che costoro descrivono, e non si capisce alcunché del loro pensiero: ci sembrano molto simili ai cuochi della ormai defunta nouvelle cuisine che univano tra loro ingredienti totalmente incongrui, nonché disgustosi, contrabbandandoli per geniali trovate culinarie. La filosofia e la cucina si stanno ribellando a questi mistificatori, abbiamo invece l’impressione che l’arte figurativa sia ancora assolutamente vittima degli sproloqui insignificanti ed anche un po’ gratuiti dei critici.
Ci siamo imbattuti in un commento di questo genere sul catalogo della mostra di Alejandro Kokocinsky alla Galleria Interarte di piazza del Pallaro, in cui Domenico Guzzi accorpa grumi di parole, totalmente insignificanti ed anche demenziali, per descrivere, forse, la pittura dell’artista italo-russo-polacco-sudamericano ora operante in Germania, il quale invece avrebbe diritto ad un commento molto più onesto, semplice, diretto e magari anche contestabile. La sua è una pittura valida, il disegno è ben padroneggiato ed i colori sono tenuti sotto controllo, in tutti i suoi quadri c’è un leggero senso di smarrimento, come se egli si sentisse un po’ estraneo al mondo. Il suo è un linguaggio decadente, ma non snervato, la fantasia unisce immagini anche lontane tra loro, costruendo sogni e parlando di desideri inconfessabili. La ricerca di una strada sua propria attraverso una grande quantità di stimoli e di ispirazioni ci sembra sincera, così attraverso il barocco e fino ad oggi si rilegge un percorso che nessun artista può legittimamente ignorare; ma Kokocinsky non si è soffermato su qualche particolare fonte ispiratrice e la sua Musa passa da un angelo a una cupola, da un cavallo alato ad un volto femminile, spesso affollati nello stesso quadro, sprofondati in nebbie luminose o appoggiati su scure superfici, nel tentativo di narrare la storia di un sogno che ogni volta si spezza, andando in frantumi che vale la pena di indugiare a raccogliere.