78 – Dicembre ‘91

dicembre , 1991

La mostra Il lavoro dell’uomo nella pittura da Goya a Kandinskij, ospitata nello spazio espositivo del Braccio di Carlo Magno, proprio sul lato sinistro della stessa Basilica di San Pietro, vuole celebrare il centenario della promulgazione dell’enciclica di Leone XIII «Rerum Novarum». La rassegna curata da Giovanni Carandente costituisce un’occasione di grande interesse per l’ampiezza e profondità con cui viene trattato il tema proposto. Le opere provengono dai più famosi musei del mondo e sono suddivise per grandi argomenti: «Secolo di vapore e d’elettricità»; «Lavoro: realtà, allegoria, simbolo»; «Motivo religioso»; «La questione sociale» ed inoltre una sezione monografica è dedicata a quello che viene definito «Un artista del lavoro: Costantin Meunier». Diremo subito che una cosa ci ha colpito e che non crediamo sia dovuta alle scelte dei curatori, ma proprio ad una concezione che evidentemente deve appartenere all’inconscio sociale di un’intera epoca e che quindi gli artisti non hanno che potuto riflettere nelle loro opere: il lavoro è visto come una realtà indissolubilmente legata alla sofferenza e alla miseria. Contrariamente a quanto la retorica otto e novecentesca ha tentato di farci credere, quella del lavoro è per l’uomo una maledizione e nella maggior parte dei casi non solo non «nobilita» l’uomo, ma lo umilia. Non riesce a mitigare questa sensazione neppure l’aspetto religioso colto in molti interventi: troppo anche qui, infatti, il concetto di carità cristiana pare confondersi con quello di «elemosina». Tutto questo ovviamente non esclude l’alto valore poetico di molte opere, che sanno dare emozioni e che anche sono documenti vitalissimi di una realtà molto complessa, storica ed artistica.
Giovanni Fattori ed Antonio Fontanesi, Francesco Paolo Michetti e Antonio Leto sono quattro pittori italiani che scelgono come argomento il lavoro dei campi e nella diversità degli stili personali rendono bene l’idea di cosa fosse il lavoro per i pittori italiani di fine Ottocento: una festa di colori, il fascino dei corpi possenti degli animali, l’ammirazione per il ritmo contenuto nei gesti di chi semina o raccoglie.
Un argomento che ha acquisito oggi una nuova attualità e già allora ampiamente trattato è quello dell’emigrazione: argomento cupo nel segno semplicissimo di un belga come Eugène Laermans invece trattato forse con compiacimento retorico e pittorico da Raffaello Gambogi, con ricchezza di dettagli, una tavolozza ricca di effetti coloristici, in un insistito gioco di luci ed ombre. È questa una buona opportunità per rivedere L’acquaiola di Francisco Goya, i Due contadini che piantano patate di Vincent Van Gogh, un Picasso del 1909, timidamente cubista e ancora molto descrittivo: Fabbrica a Horta de Ebro. Si affollano altri grandi nomi: Daumier, Corot, Millet e via dicendo, fino al Kandinskij fauve del 1908-1909.
Personalmente abbiamo apprezzato le molte tele di Costantin Meunier: nelle sue opere’ di grande formato c’è molta retorica sicuramente, ma abbiamo ammirato l’intento di cogliere un mondo come quello della miniera nei suoi molti aspetti, seguendo la gente nei pozzi, entrando con loro in chiesa, cercando di rendere la grande sproporzione tra la fatica e l’uomo che deve compierla, in un mondo dove gli impianti sono giganteschi e la figura di chi lavora ne viene inghiottita come in una bolgia infernale, in cui il colore è sempre una vampata nel buio o qualche macchia nel grigiore generale. Forse sulla tela non appare così pesante e rigida quella linea che invece fu sua nelle sculture e che irrimediabilmente lo fa accostare ai «realismi» di regime che le dittature di tutto il mondo vollero come emblema di una falsa esaltazione del lavoro e dei lavoratori.

La pittura di Roberto Gasperini si presenta con le sue figurazioni che si manifestano attraverso una serie di velature; tecnica consueta per il Novecento, ma originale in questo suo mondo. Non sono le velature soltanto un artificio tecnico difficile da controllare, sovrappongono anche momenti estetici e spirituali diversi, se pur adeguatamente armonizzati. Il primo impatto desta ammirati sensi di pulizia compositiva; indugiando si scopre però la sovrapposizione di atmosfere sensuali ed anche un po’ morbose. Ancora si ritrova diffusa l’inquietudine che trapela come residuo della travagliata ricerca tecnico-formale del passato e che ora risulta ben controllata. Non è facile capire se Gasperini preferisce nascondersi od esibirsi; la sua arte è indubbiamente efficace e persino accattivante nel suo essere pittura di un solitario che fantastica quasi senza pudore, sulle opere degli altri artisti del suo tempo. Questa allo Studio S di via della Penna 56 è la prima mostra romana del quarantenne artista toscano, che a lungo ha lavorato nella solitudine della sua terra pisana, dalla quale ha senz’altro ereditato qualche ossessione, felicemente oggi trasformatasi in prodotto artistico. Diciamo ossessione perché tale ci sembra essere il fondamento primo dei simboli tanto spesso ritornanti in queste tele dell’ultimo periodo. Non solo quelli più clamorosamente evidenti per la loro gridata incongruità: il vulcanico cono fumigante, le uova in instabile equilibrio, l’affollarsi di nerastri o variopinti uccelli dai becchi troppo aguzzi, le teste manichino dalle chiome sfuggenti in perpendicolarità elettrizzate; ma quelle più fondamentali: vogliamo dire le asimmetrie, le obliquità, le pendenze che accentuano sempre la precarietà delle posizioni, l’indeterminatezza della separazione tra gli interni e gli esterni. Tutti elementi questi inquietanti, ma che risultano poi energicamente dominati, sottomessi al colore e alla luce, al velo, che non li nasconde, ma ne suggerisce il possibile senso, il solo che possono e debbono avere in quanto espressioni della capacità del fare dell’artista, maturo e consapevole, non ancora fortunatamente disincantato.