82 – Aprile ‘92

aprile , 1992

Il gigantesco palazzo chiamato di S. Michele a Ripa è un coacervo di costruzioni barocche, opere di C. Fontana di Fuga e del Forti, che proprio perché nate in momenti diversi e destinate a specifiche funzioni non rappresentano un caso di omogeneità architettonica. Il complesso però, fin che fu lasciato a se stesso, sia pure in un deplorevole abbandono, conservava un certo fascino. Dopo che sono intervenuti i restauri recentissimi e addirittura ancora in corso e gli ambienti sono stati consegnati agli uffici del Ministero dei Beni Culturali si è imposta un’atmosfera desolantemente burocratica, fatta di incuria e di menefreghismo. Proprio l’immensità del tutto rende quegli edifici disponibili ad ospitare mostre più o meno significative di arte figurativa o di quant’altro si ritenga degno di esposizione, vi si tengono anche convegni, concerti e spettacoli. Aggirandoci per portici e saloni abbiamo avuto modo di visitare tre mostre che ci hanno variamente interessato. La rassegna più imponente è quella delle tele di Valeria Costa, pittrice piuttosto misteriosa e riservata, di cui sappiamo solo che è sorella del regista Orazio e che in quest’anno festeggerà i cinquant’anni di matrimonio. Volutamente tutti i circa centocinquanta quadri sono esposti senza date di riferimento, volendo forse dare una visione globale e sintetica del lavoro di una vita, come suggerisce anche il titolo. Pittura compagna di viaggio. Il viaggio della Valeria Costa è lungo nel tempo e ampio negli orizzonti: si va da saggi di bella pittura novecentesca, con assonanze che ricordano Donghi o Casorati, in ritratti e scene di gruppo, ad un decorativismo selvaggio di ispirazione africana, coloratissimo e lampeggiante. Una serie di acrilici monocromi recupera un fauvismo narrativo che ha per soggetto una vicenda umana ossessionata da una sorta di persecuzione, che inizia con la cacciata dal paradiso terrestre e si ripete in una serie di agguati cui invano si tenta di sfuggire in inutili nascondigli. Il tema dell’angoscia è quello che più reiteratamente colpisce chi osserva, un po’ disorientato, i risultati di una produzione fecondissima e disordinata, sostenuta però con buona padronanza delle tecniche dell’arte.

Di origine slava, ebrea, figlia di un rabbino morto nei lager nazisti, Eva Fischer, ha maturato la sua esperienza artistica in una dimensione europea, con soggiorni a Parigi, Londra e Madrid, ma ha scelto Roma come città d’elezione e punto di riferimento stabile. I non molti quadri di quest’ultimo allestimento comprendono un periodo ampio della sua produzione, all’interno della quale noi preferiamo senza incertezze un filone figurativo che esprime gustose annotazioni paesaggistiche ed ambientali, ci piacciono i suoi mercati, le marine, i ruderi, ed anche le danzatrici, per le atmosfere che ci restituiscono, malinconiche spesso, per i colori impastati e filtrati di luci e di ombre, per un disegno che forse perché facile, cattura una certa simpatia. Al fianco di questo ci lasciano perplessi i ripetuti tentativi informali, che ancor oggi, non ci paiono essere riusciti ad indicare una scelta nuova, sufficientemente autonoma od originale.

Claudia Petrone è una scultrice che sente profondo il fascino per i simboli. Così le opere qui radunate affrontano temi come la lotta, la speranza e l’infinito. Sono mani bronzee, che reggono sfere marmoree, piani di cristallo o drappeggi di fiberglass, oppure ammassi bronzei di piccole forme umane, che ci fanno pensare al pullulare delle figuri ne gotiche sui portali di antiche cattedrali, schiacciate tra blocchi di marmo o di ferro, che di volta in volta stanno a significare momenti diversi della lotta contro un terremoto planetario. L’artista riesce a padroneggiare bene i suoi materiali: bronzo, marmo e ferro hanno funzioni specifiche, le patine e i colori evidenziano di volta in volta atmosfere diverse, alleggerendo o appesantendo i volumi e le forme, evidenziandone sempre la posizione nello spazio, anche percepite nella loro umana realtà.