88 – Dicembre ‘92

1 dicembre 1992

Un vedovo di cittadinanza tedesca, professore dell’arte e una vedova polacca specializzata nel restauro di antiche dorature si incontrano, nel 1989, in contemporanea con la caduta del muro di Berlino, in un mercatino di Danzica e mangiando funghi e visitando tombe hanno l’idea che darà una svolta alla loro vita: quella di istituire un Cimitero della Riconciliazione tedesco-polacca, grazie al quale gli ex residenti tedeschi della zona dei Sudeti potranno finalmente tornare alla loro terra di origine per avervi l’ultima dimora. L’iniziativa ha molto successo, arrivano salme da tutto il mondo e i due guadagnano molto denaro; ma come accade, l’impresa degenera e va in mano ad individui senza scrupoli che pur di far soldi accettano di inumare anche salme provenienti da sepolture precedenti, spedite da parenti presi da una frenesia di traslazione a tutti i costi. Dalla traslazione si passa alla costituzione di case di riposo per anziani in attesa del trapasso ed infine a veri e propri progetti di edilizia turistica e residenziale. I due inorridiscono e si ritirano dalla Società di cui sono stati i fondatori, si sposano e partono per un viaggio verso Napoli nel quale troveranno la morte per un incidente automobilistico. Resteranno sepolti sulle rive del Tirreno e un plico con la loro storia e relativa scrupolosa documentazione giungerà nelle mani dello scrittore, già compagno di scuola del vedovo a cui resterà affidata l’incombenza di trasformare la vicenda in romanzo. Così ci viene proposto l’ultimo libro di Guenter Grass, II richiamo dell’ululone (Feltrinelli, 1992, pagg.207, Lit.30.000). Come risulta chiaro, in questo romanzo la necrofilia dilaga: a partire dalla condizione vedovile prescelta per i due protagonisti. Lo scrittore però riesce a darci atmosfere e a restituirci paesaggi con grande e godibile capacità letteraria. A tutto fa da sfondo il grido dell’ululone in amore, una varietà di rospo dal ventre rosso o giallo che, quando è in amore ulula, come appunto dice il suo nome, facendo risuonare le campagne tedesco-polacche. Il culmine del gusto macabro, e quasi il chiodo a cui la storia sta appesa è una scena emblematica nella quale, in un’antica tomba violata i due protagonisti scattano fotografie ad una mummia attraverso il coperchio della bara divelto e tenuto scostato da un terzo compagno d’avventura. Qui ci sembra che lo scrittore si tradisca e riveli la sua passione personale per quel genere di articolo. Stranamente il finale che pure ha come sfondo incidenti e cimiteri è poco funebre, ma vitale, gaio e poetico. Meno convincente a nostro avviso è tutta la più che implicita dissertazione storico-politica sui destini della Germania nuovamente unita e del mondo in crisi perenne che Grass cerca di propinare al lettore come il vero oggetto della sua riflessione.

Il Saggio sul Juke-Box di Peter Handke (Garzanti, 1992, pagg.85, Lit. 16.500) è un raccontino quanto mai stucchevole, roboante, retorico ed intellettualistico. Uno scrittore gira per la Spagna alla ricerca di vecchi juke-box, che non trova. Tutte le fortunatamente poche pagine sono piene di riflessioni pseudo-filosofiche che ci ricordano molto le riflessioni dei nostri sciocchi amici che nel 1968 amavano andare alla ricerca di robaccia smessa ed osteriacce all’ antica. Anche la descrizione di paesaggi ed ambienti è rinsecchita, senza poesia e priva di sensualità. Ci sembra che questo maestro della letteratura austriaca non abbia saputo andare oltre ai suoi assunti iniziali, quando volle presentarsi come l’ epigono in lingua tedesca del nouveau roman francese.
Oggi non è andato molto lontano ed ha perso anche una certa asciuttezza stilistica che poteva allora sembrare affascinante ai più ingenui.

87 – Novembre ‘92

1 novembre 1992

Il libro di Didier Anzieu, L’epidermide nomade e la pelle psichica (Cortina Editore, 1992, pp.115, Lit. 22.000) esprime le due facce che da sempre la ricerca psicoanalitica presenta: la prima è scientificamente interessante ed intuitivamente profonda; la seconda, baraccona, è quella che fa ritenere che il solo che in materia abbia detto qualcosa di assennato è stato Sigmund Freud. La teoria di Anzieu dell’Io-Pelle, ormai quasi classica, riveste un certo interesse. È quanto mai vicina alla teorizzazione della Gestalt. Per Anzieu ogni ente è circoscritto da un limite, che si esprime attraverso una pelle, ideale e reale, ed un’altra, teoricamente e concretamente emblematica, che è il derma; così come per i gestaltisti ogni assemblaggio di enti si struttura sempre in una “forma”. In questo volume Anzieu ripercorre la sua teoria: la struttura vitale fondamentale, la molecola e poi la cellula e il successivo organismo sono avvolti sa una pellicola che si struttura in due parti: la prima serve a difendere dall’esterno, e la seconda, che poi si suddivide in altri due elementi, è in rapporto con l’interno.
La pelle è significato e significante di tutto; ed è a questo punto quanto mai fecondo l’attacco di Anzieu allo strutturalismo, che mette l’accento esclusivamente sulle condizioni interne, senza tenere conto dell’involucro. Ogni interno è tale perché si oppone ad un esterno e ciò che delimita l’in-sé dal fuori di sé è appunto la pelle, che per l’autore acquista parecchi significati: è la pellicola che insacca l’organismo vivente originario; è il derma dell’essere umano, con pori, vasi, etc.; è un principio ideale che separa l’interno dall’esterno; è un’entità gnoseologica che serve a distinguere il me dal fuori di me; e poi ha addirittura una caratteristica metafisica: è il circoscrivente che esaspera la sua realtà in una presenzialità che trascende il suo essere di confine.
Molto interessante in questa trattazione è il discorso sulla confusione delle due pelli del bambino e della madre da cui dipende anche la concezione fecondissima della supremazia dell’ esperienza tattile su tutte le altre. Poi, come dicevamo, c’è anche l’aspetto baraccone e ridicolo: troviamo qui cumuli di affermazioni grottesche ed insensate, praticamente incomprensibili: divisioni e sottodivisioni che non stanno né in cielo né in terra e che soltanto rivelano che Anzieu non ha il senso del ridicolo.
Questo breve trattatello è comunque abbastanza interessante ove non ci si lasci coinvolgere dalle ingenuità e demenze psicoanalitiche. Il tutto è appeso abbastanza arbitrariamente ad un raccontino totalmente idiota che, secondo noi, è stato redatto da un computer, nel quale si parla prima di un rapporto infantile omosessuale, fantasticato, e poi di uno adolescenziale ed eterosessuale, per giungere alla bizzarria demenziale di un signore che costruisce qualcosa di simile a tappezzerie di Aubusson in pelle umana, il tutto senza alcun senso, o forse noi non lo abbiamo capito.

86 – Ottobre ‘92

1 ottobre 1992

Nel 1992, come tutti sanno, ricorre il bicentenario della nascita di Gioacchino Rossini. Pur senza averlo consapevolmente scelto ci siamo trovati in mano molte pubblicazioni più o meno celebrative del grande musicista pesarese. Noi adoriamo la sua musica, teatrale e non, e pur senza tentare apologie vorremmo parlare di due pubblicazioni che lo riguardano. Il volume di Adriano Bassi, Gioacchino Rossini (Franco Muzzio Editore, 1992, pagg. 295, Lit. 30.000) è un’opera che può tornare molto utile ai non musicisti che desiderassero affrontare la conoscenza della musica di Rossini. La scrittura è semplice, talvolta quasi sciatta: pianamente l’autore cerca di raccontare di Rossini tutto quello che si dovrebbe sapere; ma la sua analisi musicale non risulta molto approfondita ed egli si avvale continuamente e bisogna dire proficuamente di citazioni, che rimpinguano le sue pochissime personali argomentazioni e finiscono col dare un buon panorama dell’ opinione critica intorno a Rossini nell’ultimo secolo e mezzo. Questa scelta permette quindi di venire a conoscenza di opinioni non solo ovvie intorno al musicista e al significato della sua musica.
L’argomento generale è suddiviso in capitoli che rappresentano quasi dei dipartimenti. Si va dalla «Vita» a «L’uomo Rossini», il terzo capitolo affronta la sua «Evoluzione e personalità musicale» per passare nel successivo alla «Produzione musicale»; seguono alcuni «Medaglioni» che mettono a confronto il Cigno di Pesaro con colleghi quali Wagner, Beethoven, Berlioz, von Weber e persino Satie. Dopo aver passato in rassegna le «Opinioni della critica del tempo» l’ autore ci porta a conoscenza di quello che «Dicono di lui» critici e musicisti di oggi.
Concludono il lavoro alcune «Lettere dal fronte musicale» e una rassegna di «Voci rossiniane e cantanti celebri tra il 1700 e il 1900». Buona la bibliografia e discreta la discografia essenziale.
Un solo grande difetto noi riscontriamo nel complesso: un tentativo psicologistico di affrontare la musica e il musicista con il quale non siamo per niente d’accordo. Minor difetto, ma ingeneratore di confusione, è il modo in cui sono riassunte le trame dei libretti delle opere rossiniane: già le vicende librettistiche sono di per sé insensate, ma qui se ne fa una sintesi quasi scriteriata.

La raccolta delle Lettere di Rossini, curata da Enrico Castiglione (Edizioni Logos, 1992, pagg.327, Lit.25.000) è la riproposizione moderna dell’ edizione fiorentina del 1902 a cura di G. Mazzatinti e F. e G. Manis, che noi ammettiamo di non avere mai letta se non frammentariamente nella letteratura rossiniana che vi ha fatto così spesso ricorso. La lettura di queste poco più di trecento epistole ci ha procurato molta sofferenza e una profonda delusione. Da queste lettere emerge un Rossini non soltanto quasi analfabeta, ignorante e volgare, ma anche totalmente incompetente nel giudizio musicale. Parla della sua arte come farebbe un musicista dilettante ad orecchio, sembra non conoscere il contrappunto, la melodia e l’armonia, ma soprattutto sembra non sapere nulla di composizione. Il pesarese risulta dal suo carteggio una persona viscida e melliflua, che sa trattare solo di raccomandazioni mafiose, problemi di cassa spicciola, oltre che di tortellini, tartufi ed olive. Dopo tale disperante lettura ci siamo immersi con rabbia nell’ascolto della Donna del lago, del Barbiere di Siviglia, del Guglielmo Tell, dello Stabat Mater e dei Péchés de vieillèsse.
Così Rossini, nel nostro cuore, è risorto, intatto, perfetto e stupendo: originalissimo e splendido contrappuntista, autore di melodie inarrivabili, armonizzate come meglio non si potrebbe immaginare, ed anche orchestratore sublime. Per noi questo è Rossini e le sue lettere sarebbe meglio averle buttate nella spazzatura. Quello che non riusciamo a recuperare è il «tartufismo» di Castiglione che ha l’empio coraggio o meglio la vigliaccheria di paragonare queste letteracce alle splendide pagine dell’epistolario di Mozart.

85 – Settembre ‘92

1 settembre 1992

In questi mesi estivi abbiamo letto moltissimo, ma soprattutto saggistica e classici e non possiamo qui recensire Montaigne o Bion. Per fortuna, nelle ore più calde, sotto i lecci, abbiamo spesso cercato il refrigerio della narrativa più recente: i premi letterari e le case editrici sono pronte a fornire sempre nuove occasioni. Un’ operazione editoriale di cui non abbiamo capito il senso quella che ha posto tra i libri più chiacchierati quello di Marcello Venturoli, Io, Saffo (Newton Compton, 1992 pagg. 206, Lit. 20.000). Nel libro è la grande poetessa ellenica stessa a raccontare in prima persona la propria vita: dai palpiti sessuali e poetici dell’ adolescenza, fino agli sdilinquimenti bacchici e alla retorica dell’ultimo banchetto in casa di A1ceo. Il solo filo conduttore che vi abbiamo ritrovato stato quello della lascivia: sfregamenti ed esibizioni continue di parti anatomiche femminili si sommano a scene di bagni, con unguenti, veli e profumi, e su tutto, come il prezzemolo sparso ovunque, un laidume pseudo-poetico arcaicheggiante. Il linguaggio malamente carpito a D’Annunzio, le elucubrazioni estetizzanti e di pretesa sensualità non interessano e la noia e il fastidio invadono chi legge, dalla prima all’ultima pagina. Secondo noi questo romanzetto è da buttare senza riserve. Per fortuna Saffo è tanto grande che neppure libelli simili riescono a sminuirla. La donnicciola che blatera in prima persona e si dimena, non sappiamo se sia l’autore, ma di certo non è Saffo.

Tra i vincitori degli immancabili premi letterari che affollano l’estate della nostra penisola Luigi Malerba con il suo romanzo Le pietre volanti (Rizzoli, 1992 pagg. 272, Lit. 30.000) ha ben meritato l’alloro viareggino.
Si tratta di un ampio racconto che inizia sulle soglie del duemila, ma non è fantascientifico. Un anziano e famosissimo pittore italiano, in cui adombrata la figura reale dell’artista Fabrizio Clerici (1913), milanese di nascita, ripercorre come in un diario i punti salienti della sua lunga vita: il presente-futuro tra le montagne svizzere fa da continuo contrappunto ad episodi del passato. Conosciamo i ricordi dell’infanzia, i segreti di famiglia, il fratellastro amico. Sottilmente, in una traccia di apparente tranquillità artistico-borghese, si insinua un filone «giallo»: la scomparsa non scomparsa del padre, il tentativo, quasi un atto mancato, di uccidere la cognata, la morte del fratello. Tutti avvenimenti raccontati con pungente e malinconica ironia. Anche il rapporto con le cose è minuziosamente riferito, gli esseri inanimati sono percepiti con sensibilità esasperata. Un filone importante della narrazione è quello che si riferisce alla vicenda estetica ed artistica:
con queste «pietre volanti» che giganteggiano, rendendo qui addirittura esibita l’identità tra il protagonista del romanzo e il pittore realmente vivente. Lo scrittore Malerba riesce a distillare alcuni umori delle tele di Clerici, si rivela capace di andare oltre le immagini e la sua parola si fa pittura. Affascinanti anche alcune riflessioni sul significato dell’arte, sull’ignoto che incombe, sullo smarrimento e sul quotidiano. La sensualità domina impercettibile e tenacissima ogni passaggio dell’ opera, sia quando si riferisce esplicitamente alla tensione sessuale, sia e ancor meglio con allusioni indirette ed insistenti che danno colore a tutta l’atmosfera in cui si sviluppa la vicenda. Un libro avvincente e tutto fruibile con profitto.

Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo (Mondadori, 1992, pagg.175, Lit. 28.000) è stato il deludente vincitore del Premio Strega. Questo autore non è mai stato amato da noi: troviamo il suo stile rileccato ed estetizzante, di una lussuria esibita, eccessivamente vischiosa. Le immagini che vorrebbero essere raffinate risultano per lo più ridicole. Queste sono le pecche anche di quest’ultima fatica dello scrittore siciliano.
La vicenda oscilla tra scene demoniache ed episodi a luci rosse: un tipico baronetto siculo si trova coinvolto in riti blasfemi e libidinosi. Un po’ di droga condisce gli aneddoti più piccanti, in cui è coinvolto marginalmente anche un giovanotto fondamentalmente sano e riflessivo che, giustamente decide di andarsene da quello scenario impossibile, scappando come emigrante ed esule verso incerti lidi. L’esilità dell’ opera non ci permette di indugiarvi sopra oltre.

Sebastiano Vassalli col suo Marco e Mattio (Einaudi, 1992, pagg. 314, Lit. 32.000) ha tenuto un posto di rilievo nel panorama letterario di questa stagione estiva, pur senza mietere troppi effimeri allori. Noi apprezziamo questo scrittore dalla prosa ben costruita ed efficace. Ci piacciono molto anche le sue manzoniane personali riflessioni sulla vita e sul mondo, di ieri e di oggi. Predilige, il nostro scrittore, raccontare storie tremende che ci turbano e ci danno un po’ di raccapriccio soprattutto quando sono insistiti certi aspetti troppo grandguignoleschi. Ci si potrebbe obiettare che così è la vita e particolarmente orrendi certi suoi aspetti dovevano esserlo un tempo, tra inquisitori, banditi, esorcisti e stregoni. Vassalli in quest’opera rende con belle pagine di poesia certi ambienti naturali delle valli venete tra Feltre, Belluno e Venezia e della Val di Soldo in particolare. Poetici sono anche lunghi intermezzi sospesi tra sogno e realtà, così che quello che potrebbe sembrare assurdo se fosse riportato come verità assoluta, diventa più che accettabile se suggerisce la realtà di un sogno. Anche questa storia, come le altre, oltre che essere avvincente di per sé ha il pregio di venire ben collocata su di un preciso sfondo storico, reso con documentata attenzione. I personaggi sono scolpiti a tutto tondo ed hanno forse solo una caratteristica inquietante: una capacità quasi ossessiva di impressionare la mente di chi legge.
Nel romanzo si contrappongono due figure: Mattio un bel ragazzo, calzolaio ed omosessuale, che intraprende un’avventura esaltante e disperata, su cui lentamente la storia e la miseria, unite ad una tipica malattia del tempo (siamo tra sette ed ottocento): la pellagra, agiscono distruggendogli l’anima, il corpo e la psiche. Si crede il nuovo Gesù e finisce col crocifiggersi. Portato a morire nel manicomio sull’isola di San Servolo a Venezia, lascia l’eco di un richiamo lacerante nel quale è forse racchiusa per il mondo una speranza nuova di redenzione. Marco un mago-scienziato di origine tedesca, assassino e perverso che impersona l’ Anticristo.
Perseguitato da un sogno terribile, alla fine si troverà anche lui nello stesso manicomio, dove un abbraccio unirà per un momento i due eterni antagonisti, confondendo ancora una volta tra di loro il bene ed il male.

84 – Giugno ‘92

1 giugno 1992

L’ultima opera lasciataci da Padre David Maria Turoldo si intitola Mie notti con Qohelet (Garzanti 1992, pagg. 109 Lit. 15.000). Queste poesie sono cariche di una poeticità intensa e di una profonda religiosità;. Talvolta sono versi semplici quasi scoperti, talaltra oscuri e misteriosi. In una notte di pioggia l’anima dolente pensa in attesa dell’alba. L’indagine filosofica, apparentemente smarrita, sottintende il vagare del pensiero nell’ombra; però la ragione è umana e soprasensibile allo stesso tempo, non si può ridurre al meccanicismo illuministico e neppure all’arroganza di certa theologia perennis: la ragione c’é , ma non si sa che cosa sia e a che possa servire.
Tutta la poesia di Turoldo, quella malinconica, che parla del dolore, quello tuonante contro la miseria e l’ingiustizia sociale, quella astuta che si insinua e gioca col non detto, quella ambigua che volutamente vuol far credere il contrario di ciò che intende; tutta la sua poesia ha fatto sempre riferimento in modo più o meno esplicito all’Antico e Nuovo Testamento.
Questo volume si articola in tre momenti: nel primo vediamo il poeta contrapporsi a Qohelet (l’Ecclesiaste, l’oratore, il cui nome dà il titolo ad uno dei rotoli biblici) il quale esalta tutto il diritto alla sua scettica fede; fatto si nemico degli uomini che vuole rendere consapevoli della generale inutilità di ogni cosa che non sia la resa incondizionata e riluttante alla fede stessa.
Turoldo è meno scoperto e più insicuro di Qohelet, la sua fede deve essere kierkegaardianamente conquistata istante per istante: la morte incombe, misteriosa e seducente.
La seconda parte fa riferimento al biblico Cantico dei Cantici. Tutti conoscono lo splendore di quella pagina sublime la cui sensualità, amore, speranza, disperazione ed entusiasmo, dardeggiano sui versi di Turoldo tutto l’antico splendore. «Non dirmi delle tue tenerezze,/ non dirmi dei suoi occhi come colombe/ lungo ruscelli di acque;/ delle sue labbra voraci,/ dei suoi denti bagnati nel latte;/ e le sue gambe colonne d’alabastro/ su piedestalli d’oro, non dirmi/ non dirmi del suo corpo divino…» (pag.50). L’ultima sezione fa riferimento al libro di Giobbe: è un tenero canto alla speranza. La vita è piena di fatiche e di sofferenza; il mondo opprime i deboli, li umilia e li deride. Cristo stesso è smarrito di fronte all’incomprensibilità del suo destino, o forse alla sua assoluta semplicità. Turoldo disperato e sereno è in attesa.

82 – Aprile ‘92

1 aprile 1992

Il libro di Giulio Castelli, Il Leviatano negligente (Acropoli, 1992, pagg. 181, Lit. 23.000), è stato da noi letto tutto d’un fiato. In questi giorni di campagna elettorale, in cui i discorsi fumosi si sovrappongono alle ambiguità, trovarci di fronte a pagine di analisi così lucida, chiara, scientificamente fondata, fatta di concetti esposti senza falsi pudori, ci ha fatto l’effetto di una boccata d’ossigeno. L’autore partendo dalla constatazione che, oggi, nel nostro paese il potere si auto perpetua e si autoalimenta avendo perso il benché minimo senso della sua funzione giunge ad analizzare le mille situazioni perverse che nel Palazzo, nel mondo economico, in quello criminale si moltiplicano con la complicità di una sottoborghesia ormai vinta e nociva, che si compiace del disastro che contribuisce nel suo piccolo a creare. Senza parere, Castelli è padrone di una sottile ed arguta vena letteraria che rende disarmantemente efficace quello che scrive. Certo la situazione italiana è facilmente stigmatizzabile tanto è tragica; ma il nostro scrittore, che pure pare sempre sull’orlo della depressione di fronte al disastro incombente, riesce tuttavia a portare a termine il suo compito di denuncia e a stimolare in chi legge il senso autocritico, oltre che critico. Per evitare che: «Caduto, infatti, lo sbarramento etico posto dagli ideali politici, il personale che si è aggregato intorno al ‘Palazzo’, motivato soltanto dalla convenienza, dall’utile e dall’arricchimento, è già pronto a servire un padrone – che grazie alle enormi risorse di denaro rese disponibili dai traffici criminali – può pagare meglio e più presto». Forse non sentivamo parole così chiare di denuncia dopo che il destino ha messo a tacere la voce di P.P. Pasolini.

Una fame da morire, di Gianna Schelotto (Mondadori, 1992, pagg. 197, Lit. 29.000) è un libriccino che racconta due storielle: la prima è quella di un caso di bulimia, la seconda un caso di anoressia mentale. Noi cerchiamo sempre di non dare giudizi del tipo: quest’opera è un esempio di letteratura maschile o femminile limitandoci a dire se ci piace oppure no; ma questa volta ci troviamo di fronte ad un susseguirsi di pagine di zuccherosissima letteratura tutta al femminile; infatti sono zeppe di sensibilità, buoni sentimenti e pettegolezzi, espressi, bisogna dire attraverso una scrittura accattivante, sciolta e persino capace di catturare l’attenzione di chi legge.
Questo anche se alla fine è inevitabile un senso di nausea, ovviamente anche perché fin troppo vi si parla di cibo e di vomito.

81 – Marzo ‘92

1 marzo 1992

Federico ed Isabella hanno problemi di coppia, per questo cadono nelle grinfie di Vittorio Gassman, sessuologo sporcaccione, che non li aiuta certo a risolvere alcunché. Non resta loro, in seconda battuta, che rispondere all’inserzione di Massimiliano e Petra, i quali propongono un’ammucchiata a quattro in una locanda sperduta nella Maremma, nella vastità di praterie affollate di ironici bufali. La cosa un po’ riesce e un po’ non riesce: le due ragazze scoprono che già si conoscevano, i due maschietti si trovano alle prese con omosessualità più o meno rimosse e gelosie incrociate, qualcuno somatizza ad ampie bolle. Le due coppie si sfasciano, ma solo temporaneamente, alla fine di divergenti percorsi verso l’ascesi si ritroveranno infatti in un laghetto della stessa Maremma, circondati dagli stessi bufali, riuniti romanticamente due a due, come era in principio. Pino Quartullo, autore già di una fortunata versione teatrale ha pensato di fare un film del suo Quando eravamo repressi e il risultato nella sua pochezza ci pare positivo. Le situazioni sono trattate con bel senso dell’umorismo; i quattro attori: Alessandro Gassman, Lucrezia Lante della Rovere, Francesca d’Aloia e lo stesso Quartullo hanno il fisico giustamente grazioso e adattissimo alle rispettive parti, è molto piacevole quindi vederli, quasi sempre nudi, rotolarsi in simpatiche scene stuzzicanti; inoltre sono quattro giovani che sanno recitare e riescono a superare con questa loro bravura anche i limiti della sceneggiatura dello stesso autore, come l’eccellente regia, ritmica e senza sbavature di sorta, ma che ha respiri poco più televisivi. Divertimento a parte, bisogna dire che il «messaggio» che passa dallo schermo allo spettatore non è molto nobile: siamo nella solita tradizione pecoreccia, velata di moralismo, che però si concede tutte le licenze possibili, salvo far trionfare alla fine la buona sana eterosessualità di coppia. La colonna sonora degli Stress è molto variegata ed appropriata e la fotografia diretta da Roberto Meddi svolge un ruolo certo importante nel catturare la benevolenza del pubblico.

81 – Marzo ‘92

1 marzo 1992

Gli storici sono come il sofista platonico: non si sa bene di che cosa si interessino e non si sa neppure dove si annidino; forse è vero che si nascondono nel «non essere» poiché essendo la materia di cui parlano tutto, in realtà è un nulla. Parlano di scienza senza essere scienziati, di religione senza essere teologi, di arte senza essere critici d’arte, di usi e costumi senza essere antropologi e così via, mettono insieme una serie di date, senza essere neppure calendari. A ben pensare, tutto sommato, quanto sopra vale per qualunque tipo di speculazione teoretica: lo stesso Platone è un filosofo, un politico o un mistico? Forse è un matematico, ma la matematica che cosa è? Il discorso si proietta verso l’infinito. Arthur M. Schlesinger Jr. «docente di storia moderna a Harvard dal 1961 al 1964, è stato consigliere speciale del presidente degli Stati Uniti. Ha ricevuto per due volte il premio Pulitzer…» è considerato uno storico fra i più illustri del mondo d’oggi. Nonostante quanto abbiamo finora detto degli storici possiamo affermare che I cicli della storia americana, (Edizioni Studio Tesi 1991, pagg. 662, Lit. 60.000) è un bel libro di storia, che racconta le vicende degli Stati Uniti d’America, dalla fine del Settecento, e anche prima, ad oggi, con molto buon senso. e buon gusto. L’opera è ricca di notizie, faziosa quanto è giusto perché non sembri acritica, esalta in modo forse un po’ spinto il mito della democrazia americana. L’autore è abbastanza spiritoso da saper prendere in giro se stesso e i suoi connazionali, racconta un’America un po’ vera e un po’ inventata (ma tutti gli storici inventano la storia di cui si occupano, come già ben sapeva Erodoto). Da buon imperialista Sch1esinger ha soprattutto orrore dell’imperialismo, e, come tutti i metafisici ha paura della religione. Parla con competenza di economia, ma ignora tutto riguardo il sesso. È la sua una esposizione prolissa, la cui lettura permette però di acquisire un utile bagaglio di informazioni. Un clamoroso scandalo getta inoltre su tutto il volume il fatto che sia stato scritto prima degli avvenimenti che negli ultimi tre anni hanno sconvolto l’ordine mondiale e che hanno dimostrato inoppugnabilmente l’infondatezza di gran parte delle analisi fatte dal buono storico americano, che si dimostra così meno attendibile della Madonna di Fatima, la quale però, si sa, le informazioni le ha sicure e sempre di prima mano.

79 & 80 – Gennaio & Febbraio ‘92

1 gennaio 1992

I due farfalloni detestano il Giappone senza esserci mai stati: quindi, probabilmente la loro avversione è priva di fondamento, e si è potuta costituire perché anche noi siamo vittime di un cliché di lacche, paraventi e ventagli trasmessoci dalla convenzione folcloristica; però non ci piacciono neppure i tintinnanti pianoforti, i monotoni compositori e l’imperversante squallida pseudo-anti-retorica dello scomparso ed osannato Mishima. Ancora noi proviamo avversione per quell’orda di formiche che invadono Roma coi loro torpedoni e la fotografano senza neppure guardarla. Ma quello che massimamente detestiamo è la cucina giapponese che ci pare cadaverica ed insapore, sempre con le stesse tristi caratteristiche sia che venga preparata nei grandi e piccoli ristoranti, sia che venga fatta in casa da «autentici» giapponesi. Può darsi che se un giorno, con un gesto masochistico, andremo in quella lontana terra, riusciremo a mettere fine ad un razzismo così preconcetto e potremo così cambiare finalmente idea. Per questo il nostro giudizio sul libro di Banana Yoshimoto, Kitchen è quanto di meno obiettivo si possa immaginare, ma qualche volta è necessario esprimere anche il peggio di sé. Non riusciamo proprio a capire perché i racconti che compomgono questo volumetto siano diventati così famosi: la scrittura è minuziosa e rileccata, le descrizioni sono prive di interesse. Le sensazioni soggettive sono descritte con minuzia iper-realistica, come i colori, gli odori e gli ambienti. Due sono i temi che esplicitamente vogliono essere proposti in parallelo alla riflessione di chi legge: la cucina (intesa sia come arte della preparazione dei cibi, sia come spazio in cui queste operazioni avvengono e in cui si svolge una parte della vita) e la morte. L’elaborata descrizione delle ricette e della loro preparazione è però assolutamente asettica e non stimola in chi legge più appetito di quanto non lo stimoli la reiterata riflessione sulla morte dei più diversi personaggi: giovani e vecchi, uomini, donne o transessuali. La riflessione in prima persona sembra quella di una creatura che non prova sentimenti se non in funzione della descrizione degli stessi, con il risultato di allontanare dal lettore ogni interesse per una realtà che è palesemente solo di carta.

77 – Novembre ‘91

1 novembre 1991

Piergiorgio Paterlini afferma nell’introduzione al suo volumetto, Ragazzi che amano ragazzi (Feltrinelli, 1991, pagg. 125, Lit. 20000): «Storie tutte rigorosamente vere. Nelle quali non compaiono – per una volta – soldi, lampioni e signori che si fermano con la macchina. Storie che dicono come sono oggi i ragazzi omosessuali in Italia. Ma prima ancora che essi ci sono, esistono, anche se non ci accorgiamo quasi mai di loro.»
Noi non abbiamo elementi per non ritenere rigorosamente vere queste quindici storie raccontate direttamente dai protagonisti adolescenti; però è una nostra soggettiva impressione che ce le fa sembrare tutte inventate.
Se non ci sono gli elementi e i personaggi tipici della prostituzione, è altrettanto vero che i pochissimi elementi costitutivi di ogni storia sembrano essere sempre gli stessi, estratti di volta in volta a caso, come i bussolotti da un sacchetto. Padre e madre comprensivi, padre e madre infuriati, amici che accettano, amici che provano ribrezzo, sorelle più o meno alleate o sconvolte. Su tutto una pioggia di giornaletti pornografici. Questi «checchini» parlano tutti lo stesso linguaggio, stereotipo, misero e abbastanza corretto. Noi ci rifiutiamo di credere che i ragazzi che desiderano altri ragazzi (e noi siamo convinti che lo siano tutti) siano solo o proterve marchette oppure esili e vuoti signorinetti che fantasticano il bell’amante muscoloso per impostare una vita da telenovela. Per fortuna la nostra esperienza clinica non ci dà lo stesso quadro desolante e banale: la psiche e la sessualità sia dei giovani sia degli anziani è molto più articolata, drammatica e allegra. Le storie di Paterlini sono invece solo diversi modi di raccontare la stessa storia e non possono quindi essere rappresentative di un mondo come quello adolescenziale, senz’altro molto più variegato, sfumato, profondo, entusiasta e tragico.
Se l’intenzione è quella di isolare l’aspetto della normalità di questi giovani, allora però è il concetto di normalità come l’intende l’autore che noi critichiamo con molta durezza.

L’analisi della lingua parlata non è certo una scoperta dell’Ottocento; oggi la linguistica è diventata un aspetto della ricerca scientifica, quasi autonomo. I linguisti, da De Saussure in avanti, hanno detto cose più o meno intelligenti e utili, molto spesso anche proficue ed interessanti. Il fatto è che gli studiosi della lingua verbale, hanno sempre fatto confusione tra linguaggio, parola, linguaggi, conscio, inconscio. Per cui questa scienza, per il momento, non è che un guazzabuglio impreciso; anche perché molti linguisti usano i termini lingua e linguaggio, dando per scontato di parlare sempre di comunicazione verbale; non rendendosi spesso conto che le strutture linguistiche sono moltissime: dai gesti delle mani ai movimenti degli occhi, dall’uso dei colori e dei suoni, fino alle più varie forme di espressione. Quando un filosofo della lingua è anche tronfio e sussiegoso, non sa scrivere ed è immerso in una confusione mentale quasi delirante, vengono fuori libri come quello di Juergens Habermas Il pensiero post-metafisico, (Laterza, 1991, pagg.301, Lit. 30000). Pensiamo che parte del problema sia anche dovuto alle difficoltà di traduzione incontrate da Marina Calloni, la quale forse non è in grado di padroneggiare del tutto gli elementi di filosofia e linguistica. Le scorrettezze filosofiche e metodologiche di Habermas sono in ogni caso innumerevoli, così che non ci pare possibile impostare con lui alcun dibattito, tanto quello che dice risulta essere un balbettio con i termini usati a vanvera. Ad esempio analizza molte espressioni verbali ed il loro uso, contestuale e non, confondendo tra struttura e funzione. Inoltre sembra non rendersi conto che esistono i lapsus. Affronta anche il problema della metafisica e della post-metafisica dicendo che il fondamento della metafisica tradizionale sarebbe tutto circoscritto nel rapporto tra l’uno e il molteplice: «Unità e pluralità denota il tema sotto il cui segno la metafisica è esistita fin dal principio. La metafisica vuole ricondurre tutto ad uno; sin da Platone essa si presenta nei suoi tratti determinanti, come la dottrina del Tutto-unità…» (pag. 151); dimostrando di non tenere conto della discussione sulla questione tanto dibattuta della mobilità e immobilità, da cui scaturisce il concetto di spazio-tempo. Habermas ha un terrore folle ed a nostro avviso ingiustificato della parola «ragione», ma ancora più della parola «irrazionale»; per questo cerca di tenere i piedi in due staffe, in uno sforzo di equilibrio inconcepibile. Un certo interesse ha destato in noi il capitolo ottavo che dibatte il problema del rapporto tra linguaggio scientifico e linguaggio letterario: «Non si dà alcuna rottura innovativa con forme e abitudini scientifiche convalidate, senza un’innovazione linguistica: questa connessione non pare controversa. Freud era anche un grande scrittore» (pag. 237). Ci siamo resi conto di aver commentato il libro in modo disorganico e forse addirittura poco comprensibile; ma abbiamo veramente fatto fatica a trovare qualcosa su cui dibattere in quell’insalata di parole. Potrebbe essere questo un invito a leggere il volume, per cercare di capire di più; ma noi diciamo drasticamente che non ne vale la pena: ci siamo già annoiati a sufficienza noi.