84 – Giugno ‘92

giugno , 1992

L’ultima opera lasciataci da Padre David Maria Turoldo si intitola Mie notti con Qohelet (Garzanti 1992, pagg. 109 Lit. 15.000). Queste poesie sono cariche di una poeticità intensa e di una profonda religiosità;. Talvolta sono versi semplici quasi scoperti, talaltra oscuri e misteriosi. In una notte di pioggia l’anima dolente pensa in attesa dell’alba. L’indagine filosofica, apparentemente smarrita, sottintende il vagare del pensiero nell’ombra; però la ragione è umana e soprasensibile allo stesso tempo, non si può ridurre al meccanicismo illuministico e neppure all’arroganza di certa theologia perennis: la ragione c’é , ma non si sa che cosa sia e a che possa servire.
Tutta la poesia di Turoldo, quella malinconica, che parla del dolore, quello tuonante contro la miseria e l’ingiustizia sociale, quella astuta che si insinua e gioca col non detto, quella ambigua che volutamente vuol far credere il contrario di ciò che intende; tutta la sua poesia ha fatto sempre riferimento in modo più o meno esplicito all’Antico e Nuovo Testamento.
Questo volume si articola in tre momenti: nel primo vediamo il poeta contrapporsi a Qohelet (l’Ecclesiaste, l’oratore, il cui nome dà il titolo ad uno dei rotoli biblici) il quale esalta tutto il diritto alla sua scettica fede; fatto si nemico degli uomini che vuole rendere consapevoli della generale inutilità di ogni cosa che non sia la resa incondizionata e riluttante alla fede stessa.
Turoldo è meno scoperto e più insicuro di Qohelet, la sua fede deve essere kierkegaardianamente conquistata istante per istante: la morte incombe, misteriosa e seducente.
La seconda parte fa riferimento al biblico Cantico dei Cantici. Tutti conoscono lo splendore di quella pagina sublime la cui sensualità, amore, speranza, disperazione ed entusiasmo, dardeggiano sui versi di Turoldo tutto l’antico splendore. «Non dirmi delle tue tenerezze,/ non dirmi dei suoi occhi come colombe/ lungo ruscelli di acque;/ delle sue labbra voraci,/ dei suoi denti bagnati nel latte;/ e le sue gambe colonne d’alabastro/ su piedestalli d’oro, non dirmi/ non dirmi del suo corpo divino…» (pag.50). L’ultima sezione fa riferimento al libro di Giobbe: è un tenero canto alla speranza. La vita è piena di fatiche e di sofferenza; il mondo opprime i deboli, li umilia e li deride. Cristo stesso è smarrito di fronte all’incomprensibilità del suo destino, o forse alla sua assoluta semplicità. Turoldo disperato e sereno è in attesa.