Il film Nessuno di Francesco Calogero racconta con toni drammaticamente tesi la coinvolgente storia di ordinaria follia di Nico un ragazzo come tanti altri che fin dall’ infanzia: mette in atto lo stratagemma dell’ eroe omerico per difendersi dall’aggressività dei tanti Polifemo che ciascuno incontra sul cammino della vita. Figlio di genitori separati conosce le vicissitudini della doppia famiglia, degli amanti e dei nuovi consorti con corredo di fratellastri, sorellastre, tentazioni incestuose e il tedio del collegio, dove le violenze si concentrano nell’ambito opprimente di una vita da reclusi.
Il ragazzo sembra reggere; ma ad un certo punto crolla proprio di fronte ai compagni, quando, per un privilegio ottenutogli da un insegnante, che è anche l’amante della madre, dovrebbe tenere il discorso di prolusione all’anno accademico. Il crollo è aggravato da un incidente d’auto della madre, la quale muore dopo un penoso periodo di coma, che è anche il pretesto per il regista di trovare la sua chiave narrativa, seguendo con la macchina da presa la fantasia del ragazzo avanti ed indietro nel tempo, senza però usare le banalità dell’abusatissimo ed un po’ volgare flash-back. In questo è aiutato validissimamente dalla fotografia curata da Roberto Meddi che riesce a rendere con lucidità il disorientamento di chi è continuamente sospeso tra vita e sogno. Roberto de Francesco interpreta come meglio non si potrebbe il ruolo del ragazzo che proprio nel momento in cui la vita lo sollecita con drammatica urgenza si chiude assurdamente in se stesso per non soffrire troppo. Gli altri attori sono efficacemente guidati lungo binari prestabiliti dal regista che lascia esprimere a tutto tondo i caratteri giovanili di Davide Becchini nel ruolo del compagno persecutore e di Fabrizia Sacchi in quello della ragazza contesa.
Tiene invece sotto controllo costante Lucrezia Lante Della Rovere dandole così l’occasione di un’interpretazione, fuori da tutti i cliché, nel ruolo della madre. Sergio Castellitto non riesce a liberarsi da una recitazione che ci sembra eccessivamente legata al palcoscenico, o ancor meglio alla televisione, ma la cosa sortisce un buon effetto.
Non ci sono ragioni per cui si dovrebbe andare a vedere un film come Mariti e mogli se il regista e il protagonista del film non fosse quel Woody Allen che da circa vent’anni sta inquinando gli schermi del mondo con un genere che non è umoristico, non è di costume e non è intelligente, ma riesce a farlo credere ai più. Noi non ci abbiamo mai creduto e dal lontano dittatore di Banana allo scoppiato marito di oggi abbiamo solo avuto la conferma che è sempre molto difficile dire che il re è nudo. E difficile soprattutto perché significherebbe ammettere che nudi siamo anche noi, senza difese contro il conformismo intellettuale. Il film di oggi è una ritrita rielaborazione dei drammi coniugali di due coppie in crisi, e fin qui niente di male, perché da Adamo ed Eva in poi, l’argomento è stato sempre attuale; quello che è peggio però è raccontare una storia in modo così pasticciato, senza poesia e senza umorismo, usando male la macchina da presa, offrendo una recitazione svogliata, peggiorata forse da un doppiaggio che trova la sua efficacia in una petulanza insopportabile e ripetitiva. Poi tutti sono liberi di giocare ad identificarsi o ad identificare i propri amici; forse qui sta l’astuzia di Woody: sa solleticare i nostri lati peggiori, facendoci credere in cambio di pochi soldi che essi coincidono con il massimo dell’ acume intellettuale; mentre invece sono adeguamento agli stereotipi e discesa verso il basso dell’ autocompiacimento. Al di là dei nostri moralistici sdegni un po’ supponenti, resta la realtà di un cinema che diventa ogni volta più noioso e questa volta la noia è quasi insopportabile. Mia Farrow e Woody Allen sono i complici ed i colpevoli principali, ma correi sono anche Blythe Danner, Judy Davis, Juliette Lewis, Liam Nesson, Sydney Pollack nei ruoli di contorno e Carlo Di Palma come direttore di una fotografia troppo scura, monotona e sovrabbondantemente iper-realistica.
Le sciocchezze ideologiche o artistiche sono dannose alla società, però è più facile difendersene.
Quando invece il male morale più abietto e ributtante è presentato con una veste astutamente efficace i suoi effetti deleteri diventano devastanti. Il film di Pasquale Pozzessere Verso Sud è una esplicita e palese apologia di reato, il cui veleno però è iniettato negli spettatori da qualcuno che possiede innegabili requisiti di un buon mestiere. Noi ci siamo domandati fino a quando gli esseri umani saranno vilipesi ed umiliati e alla dignità dei bambini si continuerà a mancare di rispetto come avviene per esempio nella mielosissima storia di questa pellicola: una ragazza un po’ stronza e un po’ puttana esce dal carcere e incontra alla mensa della Caritas un ragazzo un po’ ladro e un po’ alcolizzato che vaga per Roma.
Dopo un fugace e scomodo per quanto ardente rapporto sessuale in una toilette su di un treno in corsa i due decidono di mettersi insieme; vanno a costruire il loro nido d’amore in uno stanzone di un opificio abbandonato con vista sulla ferrovia e qui incominciano le complicazioni. La ragazza infatti è madre di un bimbo che è stato affidato ad un istituto e che lei vorrebbe ora riprendere con sé, ma che si vede negare dalle «autorità competenti» e, aggiungiamo noi, lungimiranti. Approfittando della confusione causata da un incendio la ragazza «ruba» il figlioletto e se lo porta nell’ antro, facendone dono al giovinotto, ormai ex-alcolista, il quale sente sorgere immediato e prepotente l’istinto paterno. Lo spettatore è gratificato a questo punto di una serie di quadretti sentimentali di vita famigliare. I due però, malgrado le migliori intenzioni non trovano lavoro, per cui il giovanotto ruba un’automobile e fila verso il sud, dove spera che un amico che lavora nelle giostre potrà aiutarlo.
L’amico non può ma gli consiglia l’espatrio in Grecia dove nessuno verrà più a cercare il bambino «rubato». Per espatriare occorrono soldi, per fare soldi in fretta si presenta ‘occasione di una rapina a mano armata, il giovanotto per amore della sua ineffabile famiglia, torna a fare il delinquente, ma mal gliene incoglie poiché un proiettile sparato dal cassiere del supermercato lo uccide stroncandogli con la vita le più belle speranze. Al suono di un sirtaki la donna e il ragazzino andranno verso quella libertà che così cara è costata.
La profonda ed oscena immoralità del tutto ruota attorno ad una frase che la ragazza urla a lui piangendo al colmo di una scena disperata, dopo che l’assistente sociale le ha negato il figlio: «Capisci, io per loro non ho il diritto di essere madre!» Il suo idiotissimo ganzo a quel punto si commuove determinando la sua fine, invece di rispondere, come avrebbe dovuto, che in quelle condizioni nessuno dei due poteva vantare il diritto di essere padre o madre. Infatti nessuno può dirsi padrone di un ragazzino, neppure per portarselo, come un fagotto al di là dell’Adriatico. I bambini non basta metterli al mondo: bisogna anche conquistarsi il diritto di tenerli con sé ed educarli. Per fortuna quasi più nessuno si scandalizza al cinema per scene audaci o per nudi lascivi, però purtroppo e ce lo ha confermato l’atteggiamento degli spettatori in sala con noi, nessuno neppure si scandalizza quando si rappresenta il degrado della dignità umana, ammiccando complicemente ai peggiori sentimenti: la schiavitù esiste ancora e può anche prendere l’aspetto di un rapporto perverso tra madre e figlio. La recitazione dei due attori protagonisti, Stefano Dionisi ed Antonella Ponziani, ci è sembrata fin troppo spontanea ed efficace, ma la cosa va solo a loro merito. Chi ha tutto il demerito è il regista che sfruttando ancora una volta la melassa neorealistica cerca di convincere dell’anticonformismo di una vicenda che più appiccicosa e retorica non potrebbe essere, aiutato da una suggestiva e patinata fotografia di Bruno Cascio. La musica di Domenico Scuteri e Corrado Rizza invece manca di astuzia e scade sfasciandosi completamente nel motivetto finale grecizzante e neo-ruffiano.
Noi abbiamo un carissimo amico che ha un bellissimo figlio di nome Alessandro: intelligente, arguto, sensibile e lavativo.
Spesso da noi il ragazzo imperversa con canzonette macabre, ributtanti, sadiche, narcisistiche e demenziali in cui si parla di teste staccate, cadaveri putrefatti o coccodrilli che ballano il valzer. Egli stesso, dopo averci propinato tali delizie, fa lo sguardo furbastro, come per dirci: «Queste sono tutte stupidaggini». Dal momento che, per grazia di Dio, frequenta pure il conservatorio, si siede al pianoforte e con mano morbida e flessuosa accenna ad un «momento musicale» di Schubert.
Siamo andati a vedere Il silenzio degli innocenti e dobbiamo dire che al confronto del film le stupidaggini di Alessandro sono capolavori classici. La versione italiana si avvale di un doppiaggio pessimo, quasi ributtante, per cui forse non è tutta americana la colpa dei pessimi risultati. Il cinema hollywoodiano ha una reputazione di grande serietà professionale, per cui ogni regista, soggettista, sceneggiatore si ritiene che abbia studiato a fondo, con l’aiuto di consulenti di uno specifico settore l’argomento di cui si occupa. Però quando abbiamo sentito il direttore di un manicomio criminale dire di un detenuto che è uno «psicopatico puro» abbiamo capito che quello era un fumettone umoristico senza nessuna pretesa di serietà culturale o drammatica. Lo spunto, vero o falso, è certo molto adatto per una pochade: uno psicoanalista ammazza i propri pazienti e poi li cucina secondo succulente ricette, per esempio noi abbiamo apprezzato l’idea del fegato cucinato con le fave e innaffiato da un buon Chianti. Ma quando si vuole far ridere bisogna farlo onestamente e non fingendo di voler dare altre emozioni. Il pubblico deve essere rispettato e non si può legittimamente approfittare della sua diffusa mancanza di cultura e di senso critico, per poi ridere alle sue spalle quando accorre entusiasta a decretare con lunghe file davanti ai botteghini il successo dei nuovi drammaturghi. Per altro la recitazione dei due protagonisti è così stereotipa che né Jodie Foster, né Anthony Hopkins riescono per un solo istante ad essere credibili, al di fuori di un repertorio farsesco e disgustoso e il regista Jonathan Demme pare non rendersene assolutamente conto.
La musica è orrenda, senza filo logico, con qualche effettaccio thrilling; ci rifaremo chiedendo ad Alessandro di risuonarci Schubert.
«Boum, boum» è una bellissima canzone di Charles Trenet, 6Dl poetica, malinconica e dalla melodia accattivante: il grande chansonnier la canta con estrema perizia e garbo. Nel film di Jaco Van Dormael Toto le Heros di poetico, malinconico, accattivante, garbato e capace non c’è proprio nulla; al posto vi si trova soltanto un cumulo di specchietti per allodole, neanche troppo scintillanti. In questa rete tesa apposta per gli intellettuali, molti restano impigliati: alle nostre spalle un gruppetto di ragazzi e ragazze dal turpiloquio facile e col birignao nella voce, al termine della proiezione sono esplosi in uno striminzito, ma significativo applauso. Certo molto meno trionfale di quello che ha accolto il film ai vari festival europei in cui ha ricevuto significativi premi. Quello che il regista avrebbe voluto fare sarebbe il racconto di tutta una vita, rievocata però non attraverso una successione banalmente cronologica, ma con il ricorso ad un sistema di libere associazioni che fosse capace di tradurre il «tempo della mente» nel quale spesso le distanze si annullano e le epoche coesistono. Tutto ciò per rendere conto di quanto è contenuto nel pensiero del vecchio protagonista al termine della propria vita. Questo processo psichico e simile a quello che sempre si realizza anche durante qualunque seduta psicoanalitica, in cui ci parte da un ricordo magari del giorno prima, si scivola in un’immagine proveniente dalle lontananze della prima infanzia, poi, passando attraverso un frammento di romanzetto adolescenziale si giunge nuovamente al presente. Nell’intraprendere un simile percorso, però tutti i pazienti, anche i più deliranti, si dimostrano sufficientemente artisti da saper ben giocare con la prospettiva e quindi, se pure accade come negli affreschi gotici, che un passero appaia grande come una torre tuttavia è percepibile sempre un ritmo e si coglie il significato emozionale delle distanze e delle durate. Il trucchetto usato dal Van Dormael è invece quello rozzo di un giochetto che noi facevamo da bambini: scrivevamo su di un foglio un racconto cronologicamente coerente, poi tagliavamo la pagina in tante strisce che ricomponevamo casualmente; leggendo il risultato scoprivamo a volte divertenti combinazioni, alle quali fortunatamente il nostro sentimento riusciva a dare nonostante tutto un certo significato. Purtroppo il cinema è un mezzo che travolge con violenza chi lo affronta e quindi si impone lasciando pochissima libertà al sogno individuale.
Certo, le mani di un buon artista invece possono benissimo intrecciare i piani, sfumare le azioni, colorare le immagini; non saremo certo noi a sostenere la validità assoluta del cinema verità, ma in Toto le heros il guazzabuglio è totale, ciò che al regista riesce è tutt’al più qualche gioco simbolico di richiamo e anche qualche facile trucchetto paranormale. In un incendio di un reparto maternità di una clinica, due madri nella concitazione del momento, scambiano – forse – i loro due figli. Almeno così crede che sia stato il vecchio Thomas, che chiuso nel suo ospizio ancora non riesce a rassegnarsi al fatto che a lui sarebbe toccata la vita splendida del suo amico Alfred, fortunato figlio dei signori Kant, ricchissimi padroni dell’emporio della città. Nella sua lotta contro le conseguenze del torto subito Thomas-Toto ha perso tutto il poco che la vita gli avrebbe comunque concesso, prima il padre e poi anche la sorella amata di un amore totale ed incestuoso. La vita ha posto più volte a confronto le fortune di Alfred e le disgrazie di Toto, con l’aggiunta di una balordissima confusione tra la moglie di Alfred e la sorella scomparsa che porta Toto ad amare la moglie del proprio nemico. Esasperato per non essere mai riuscito a rientrare legittimamente in possesso della vita che avrebbe dovuto essere la sua Toto alla fine ha una trovata geniale e si sostituisce ad Alfred, quale obiettivo di una banda di criminali che ha deciso di ucciderlo. Soddisfatto del colpaccio finalmente riuscito Toto alla fine del film esprime tutta la sua soddisfazione, facendo scaturire la propria vocetta soddisfatta prima dalle fiamme del forno crematorio e poi dalle ceneri volteggianti su ubertose campagne francesi al ritmo di «Boum, boum». Solo lo spettatore si accorge che sulla bara e sulla busta che contiene le ceneri sta scritto il nome di Toto. La sceneggiatura è dello stesso regista e la fotografia riesce abbastanza bene a «colorare» con tinte d’epoca le varie stratificazioni cronologiche, oniriche e realistiche. La musica restante è di Pierre Van Dormael.
L’idea di perseguire l’obiettivo impegnato di un cinema in chiave omosessuale, non ci pare più peregrina di tante altre, né più meritoria. Derek Jarman torna a proporci una storia d’amore tra maschi in questo suo Edoardo II, liberamente tratto dall’omonimo testo di Cristopher Marlowe scritto intorno al 1593-94. Senz’altro a differenza di altre sue opere intorno a martiri protocristiani e pittori barocchi questa volta giova al cinema del regista inglese avere l’appoggio di un copione dal valore poetico indiscutibile e dalla grande efficacia drammatica. Elementi questi che vengono direttamente portati sullo schermo con la citazione abbastanza precisa, sebbene frammentaria, di quei versi. Succede però questa volta qualcosa di simile e diverso a quello che ci accadde quando assistemmo al Rossini, Rossini! di Comencini. Allora la musica sublime appariva scollata da una vicenda scioccamente resa, questa volta la vicenda tragica narrata dalle parole del drammaturgo inglese appare completamente avulsa dal cascame trovarobistico gay e sado-maso che il regista profonde a piene mani, inquadratura dopo inquadratura, con un ritmo più adatto ad un video clip di musica rock che a una tragedia. La modernità o eternità dei sentimenti dibattuti rimane intera e poco si può aggiungere oggi di nuovo a una bella storia d’amore, di potere e di disperazione come quella del trecentesco re Edoardo, e del suo bell’amante Gaveston. Di tanta intensità drammatica molto rimane anche nella vicenda filmica; ma noi riteniamo che la svilisca un gusto deleterio che cerca di proporre continuamente l’abbinamento sesso = distruzione. Ci sembrerebbe più giusto accettare che il sesso sia anche piacere e bellezza, come quasi sembra proporre lo stesso Jarman nella prima sequenza dell’amore tra i due marinai. Successivamente prevale l’orrore a tutti i costi, il sangue, l’odio. Anche troppo schematizzato ci pare il personaggio della moglie di Edoardo, la regina Isabella (parte che è valsa un premio a Venezia per Tilda Swinton per l’interpretazione), che a noi è sembrato essere più un rigido involucro di emblematica e forzata perfidia femminile che altro. Appena poco più credibili i personaggi maschili sostenuti da Steven Waddington ed Andrew Tiernan. La fotografia di Jan Wilson si è sbizzarrita in effettacci di ogni genere in terrosi ed infernali vastissimi ambienti e le musiche di Simon Fisher Turner alternavano elementi folcloristici medievaleggianti a disco music e jazz.
Se non fosse che di questa stagione non ci sono molti film di cui parlare e il film Merci la vie viene (falsamente) presentato come un anticipo della nuova stagione, non sarebbe certo il caso di riferire di una simile stupidaggine; però, proprio buttar via due ore del nostro tempo senza trame utile alcuno ci dispiace. Con un po’ di vergogna ci accingiamo quindi ad insultare questo guazzabuglio insulso firmato dal regista Bertrand Blier, poiché è imbarazzante persino parlare male di cose tanto insignificanti. Il soggetto non lo ha scritto neppure l’intelligenza limitata di un computer, poiché quasi certamente qualche spunto più originale una qualunque macchina sarebbe stata capace di trovarlo; invece il succedersi delle immagini e dei dialoghi si rifà alla più squallida banalità e povertà di pensiero. Vorrebbe questo pasticcio essere cinema surreal-astratto, filosoficheggiante e moralistico. Una ragazzetta di strada ed una fanciulla di buona famiglia cretineggiano vestite da sposa e portando a spasso gabbiani. Una o due troupes cinematografiche vorrebbero girare un film e il piano del film si confonde con la vita che si confonde col cinema; lo spettatore è supposto domandarsi, profondamente turbato se la realtà sia finzione o viceversa. Qualche. coito e un paio di nudità affiorano tentando di suscitare risvegli di attenzione, ma la mente è irresistibilmente rivolta al lavoro che ancora dovremo fare domani, alla telefonata che abbiamo appena fatto. Per un’alchimia dei giochi di produzione accanto alle due insignificanti protagoniste: una Charlotte Gainsbourg, inespressiva come un’adolescente afflitta da un perenne mal di denti e Anouk Grinberg, tarda emula delle veneri tascabili del cinemino francese figurano in ruoli quasi di contorno: Gerard Dèpardieu, sfigato come non mai, cinico dottore e partigiano in lotta contro i tedeschi e a favore dell’AIDS; Jean-Louis Trintignant, feldmaresciallo cinico e stupratore; Annie Girardot, madre supplente, ferocemente esibizionista di reticoli di rughe, dalla testa ai piedi. Gli altri sciagurati complici rispondono ai nomi di Michel Blanc, Jean Carmet, Catherine Jacob, Thierry Fremont. Il regista è convinto di aver sovvertito l’ordine del mondo con la trovata di girare il film in tre colorazioni: un seppia anni quaranta, un bianco e nero anni cinquanta e un technicolor anni sessanta-novanta, avvicendantisi a sorpresa. Le musiche comprendono un repertorio che va da Chopin a Dean Martin, passando da Philip Glass e Puccini. Forse per qualche ragione profondamente simbolica si dà particolare rilievo ad una inqualificabile interpretazione della ninna-nanna di Brahms.
Il film di Carlo Lizzani Cattiva, sceneggiato anche da Scarpelli e Archibugi, non è un «brutto film», però… è un polpettone, che di poetico non ha nulla ed inoltre mistifica un’intenzione pseudo-scientifica, che tutt’al più è solo banalmente divulgativa e diseducatrice. Il suo merito resta quello di riuscire ad interessare mamme ingenue e suorine d’ospedale: non c’è nerbo, il racconto si dipana stancamente con trovatine di debole efficacia narrativa. La vicenda è inserita in un ambiente primo novecento, fotografato con effetto flou o grana grossa, sulle orme di un gusto post-viscontiano e post-bologniniano. Ci rendiamo conto che, dopo aver detto che non è un brutto film, abbiamo espresso soltanto giudizi pesantemente negativi; noi comunque insistiamo nel sostenere che la vicenda di questa signora della buona società, oppressa dal «senso di colpa» per aver lasciato bere alla figlioletta l’acqua inquinata dello stagno, che le causerà la morte per tifo, e del suo «psicoanalista in erba» Gustav (Jung?) si lascia vedere senza troppa fatica, masticando bruscolini. Noi abbiamo visto film più stupidi ed anche insopportabili.
Nella clinica svizzera dove la dama è ricoverata, il giovane psichiatra, in opposizione al primario, burbero e retrogrado (nonché lambito da un riflesso di acume), si impegna nella sua battaglia. Prima di tutto si innamora della bella e tormentata paziente, infine si traveste da Sherlock Holmes per riandare sulle tracce della colpa che ha determinato quella che evidentemente deve essere un’oscura nevrosi e non già un’espressione di squallida dementia praecox. Incomincia torturandola con l’estorsione compulsiva di libere associazioni, prosegue intervistando la sorella riluttante della signora e la madre pazza, scocciando un’amica gallerista, disturbando l’ex-innamorato e persino il figlio letto; dopo aver tutto scoperto, completa il lavoro buttandole in faccia, piuttosto bruscamente, la verità. La povera Emilia (tale è il nome della signora) «abreagisce»: piange disperatamente, tanto da far supporre che forse è guarita; dopo di che torna a casa col marito, stringendo la mano al coraggioso pioniere, che tra l’amore e la scienza sceglie quest’ultima. Giuliana De Sio è una «depressa» poco verosimile: si limita a qualche stereotipo, qualche bizza, ma resta in fondo una bambolona romantica, che percepisce solo l’innamoramento del suo curante. Non si capisce perché regista e sceneggiatori abbiano poi tratteggiato come personaggio decisamente più pazzo di quello della protagonista la figura della fidanzata del medico Gustav: una pianista sommersa di gesti stereotipi e risatine «atimiche» affetta, lei sì, da profonda aggressività ed incontenibile cattiveria. Julian Sands è sprofondato nell’oleografia più vieta del biondo pioniere della scienza, bello e tormentato, poco acuto, più adatto al mestiere di segugio che a quello di «strizzacervelli». Erland Josephson ha cercato di trasfondere carica umana in un fantoccio, condannato fin dall’inizio ad essere dalla parte del torto. Sola figura simpatica Mitzi, la cameriera cicciottella, stralunata e bislacca.
Le musiche di Armando Trovaioli sottolineano in modo amorfo, con qualche sdilinquimento, le varie scene e per di più hanno una sonorità sgradevolmente falsa.
Il film di Daniele Luchetti: Il portaborse, non è un film polemico, non è neppure di condanna o di denuncia, non svela verità nascoste; è solo una piccola commediola all’italiana, ovvia nel suo banale sentimentalismo. Su tutto aleggia uno squallore da bric-à-brac e tutti gli interpreti recitano imperdonabilmente male. I due protagonisti: l’onorevole e il portaborse sono due personaggi assolutamente inverosimili. Nanni Moretti, il primo, ha l’aria patetica parrocchial-lacrimosa; non riesce a rendere per nulla l’idea di un aggressivo e cinico politicante. Silvio Orlando, nel ruolo melenso del professorino, non riesce meglio. Non c’è credibilità psicologica o realistica in quell’approssimativo insegnante di lettere che mal conosce la sua materia e che d’improvviso si trasforma in uno scriba dei potenti, figura che neppure oggi coincide con quella del portaborse. La fidanzatina, impersonata da Angela Finocchiaro, e il giornalista fallito che ha i tratti di Giulio Brogi, paiono assolutamente pleonastici. Il primo tempo è tutto un andirivieni di ovvii, se pur veri, misfatti politici, raccontati a spezzoni brevi, di taglio televisivo e di tono moralistico. Nella seconda parte forse il ritmo narrativo si fa più disteso e me no caotico; vengono fuori i drammi dei singoli personaggi, su cui viene versato fin troppo miele.
Noi siamo molto stupiti che un filmetto di «costume» così insignificante e simile a mille altri abbia destato così tanto interesse: su di esso si sprecano fiumi di inchiostro e dibattono voci autorevoli. Il quesito sconvolgente è: «Il personaggio protagonista è o non è Bettino Craxi?» Per fortuna la nostra satira di costume non si riduce a questo: basti pensare all’arguzia icastica del primo Dario Fo di tanti anni fa. Allora forse ci si commuoveva, si ironizzava, si vedeva qualcuno capace di mettere il dito nella piaga dei nostri costumi con grande e spietata arte. La politica da allora non è cambiata: gli artisti e gli attori, veri e meno veri, parlano sempre, ma l’astuzia della ragione deve continuare ad ordire le sue trame. Noi, da vecchi illusi, speriamo che qualcosa domani cambierà e la denuncia non sarà più patrimonio di filmacci di regime, veri fiori all’occhiello di tanta pseudo-democrazia.
Paprika, il film tanto discusso di Tinto Brass, non è certo un’opera d’arte e forse non è neppure un bel film; ha però un grandissimo merito: quello di smascherare i «tartufi». Sappiamo che quello che diremo irriterà molte persone, anche tra i nostri amici; ma noi abbiamo l’impressione di non sbagliarci. Se qualcuno dopo aver visto il film, vi dirà con aria sussiegosa: «È un film noioso e per nulla eccitante», avrebbe bisogno di qualche seduta di analisi per potersi liberare ancora di un bel po’ di frigidità ed ipocrisia. Abbiamo detto che non è un bel film, aggiungiamo che è proprio brutto; si può accettare che sia necessariamente un po’ ripetitivo: sono buttate alla rinfusa sullo schermo scene di natiche, tette, coiti di tutti i tipi, scene lussuriose, proprio come può avvenire nelle fantasie masturbatorie di un sedicenne. Però in questo campo, nessuno, maschio o femmina ha mai veramente superato i suoi sedici anni. Noi vecchi signori siamo orgogliosi di essere rimasti adolescenti e di avere il coraggio di confessarlo. La storia di Paprika, è quella di una fanciulla che, negli anni cinquanta decide di sacrificarsi per il suo ragazzo, adattandosi a lavorare in un «casino», per raggranellare rapidamente un buon gruzzolo. Ovviamente resterà invischiata nei meandri della nuova professione che oltretutto non le dispiace e dopo un susseguirsi di alti e bassi nella carriera finirà maritata ad un vecchio conte che la lascerà vedova e ricca, padrona, dopo l’avvento della legge Merlin, di sposare il suo vero amore, che non è più quello dell’inizio, ma un prestante capitano di marina. Tinto Brass ha già dimostrato altre volte di avere una fantasia molto fervida ed è anche spiritoso; riesce così a costruire più di una scena sessualmente eccitante, senza moralismi, nostalgie del bel tempo che fu e una discreta voglia di sghignazzare volgarmente su maschi e femmine infoiati. Inoltre alcune atmosfere delle vecchie case di tolleranza, se pur espressionisticamente esagerate, hanno una certa efficacia. Qui potrebbe innescarsi una polemica senza fine se ci chiedessimo come possa l’oscenità volgare risultare anche sessualmente eccitante. Senza dubbio i kouroi greci e le veneri cinquecentesche eccitano anche i sensi, oltre che elevare lo spirito (qui potremmo fare una battutaccia a proposito del film degna del regista: tartufismo nostro o buon gusto?). Certo però che chi, terminata la lettura di queste righe, con la boccuccia a «culo di gallina» dirà: «Sarà… però io ho trovato il film solo noioso…» sappia di essere diventato irrimediabilmente vecchio. Il difetto principale, oltre la volgarità, è che nessuna delle figure di contorno riesce a diventare un personaggio: sono solo macchiette quelle che risultano, malgrado l’ottimo rendimento di tutto il cast. Debora Caprioglio, la protagonista, riesce ad essere solare come una vera puttana, partecipando al personaggio con tutte le sue doti personali.