86 – Ottobre ‘92

ottobre , 1992

Le sciocchezze ideologiche o artistiche sono dannose alla società, però è più facile difendersene.
Quando invece il male morale più abietto e ributtante è presentato con una veste astutamente efficace i suoi effetti deleteri diventano devastanti. Il film di Pasquale Pozzessere Verso Sud è una esplicita e palese apologia di reato, il cui veleno però è iniettato negli spettatori da qualcuno che possiede innegabili requisiti di un buon mestiere. Noi ci siamo domandati fino a quando gli esseri umani saranno vilipesi ed umiliati e alla dignità dei bambini si continuerà a mancare di rispetto come avviene per esempio nella mielosissima storia di questa pellicola: una ragazza un po’ stronza e un po’ puttana esce dal carcere e incontra alla mensa della Caritas un ragazzo un po’ ladro e un po’ alcolizzato che vaga per Roma.
Dopo un fugace e scomodo per quanto ardente rapporto sessuale in una toilette su di un treno in corsa i due decidono di mettersi insieme; vanno a costruire il loro nido d’amore in uno stanzone di un opificio abbandonato con vista sulla ferrovia e qui incominciano le complicazioni. La ragazza infatti è madre di un bimbo che è stato affidato ad un istituto e che lei vorrebbe ora riprendere con sé, ma che si vede negare dalle «autorità competenti» e, aggiungiamo noi, lungimiranti. Approfittando della confusione causata da un incendio la ragazza «ruba» il figlioletto e se lo porta nell’ antro, facendone dono al giovinotto, ormai ex-alcolista, il quale sente sorgere immediato e prepotente l’istinto paterno. Lo spettatore è gratificato a questo punto di una serie di quadretti sentimentali di vita famigliare. I due però, malgrado le migliori intenzioni non trovano lavoro, per cui il giovanotto ruba un’automobile e fila verso il sud, dove spera che un amico che lavora nelle giostre potrà aiutarlo.
L’amico non può ma gli consiglia l’espatrio in Grecia dove nessuno verrà più a cercare il bambino «rubato». Per espatriare occorrono soldi, per fare soldi in fretta si presenta ‘occasione di una rapina a mano armata, il giovanotto per amore della sua ineffabile famiglia, torna a fare il delinquente, ma mal gliene incoglie poiché un proiettile sparato dal cassiere del supermercato lo uccide stroncandogli con la vita le più belle speranze. Al suono di un sirtaki la donna e il ragazzino andranno verso quella libertà che così cara è costata.
La profonda ed oscena immoralità del tutto ruota attorno ad una frase che la ragazza urla a lui piangendo al colmo di una scena disperata, dopo che l’assistente sociale le ha negato il figlio: «Capisci, io per loro non ho il diritto di essere madre!» Il suo idiotissimo ganzo a quel punto si commuove determinando la sua fine, invece di rispondere, come avrebbe dovuto, che in quelle condizioni nessuno dei due poteva vantare il diritto di essere padre o madre. Infatti nessuno può dirsi padrone di un ragazzino, neppure per portarselo, come un fagotto al di là dell’Adriatico. I bambini non basta metterli al mondo: bisogna anche conquistarsi il diritto di tenerli con sé ed educarli. Per fortuna quasi più nessuno si scandalizza al cinema per scene audaci o per nudi lascivi, però purtroppo e ce lo ha confermato l’atteggiamento degli spettatori in sala con noi, nessuno neppure si scandalizza quando si rappresenta il degrado della dignità umana, ammiccando complicemente ai peggiori sentimenti: la schiavitù esiste ancora e può anche prendere l’aspetto di un rapporto perverso tra madre e figlio. La recitazione dei due attori protagonisti, Stefano Dionisi ed Antonella Ponziani, ci è sembrata fin troppo spontanea ed efficace, ma la cosa va solo a loro merito. Chi ha tutto il demerito è il regista che sfruttando ancora una volta la melassa neorealistica cerca di convincere dell’anticonformismo di una vicenda che più appiccicosa e retorica non potrebbe essere, aiutato da una suggestiva e patinata fotografia di Bruno Cascio. La musica di Domenico Scuteri e Corrado Rizza invece manca di astuzia e scade sfasciandosi completamente nel motivetto finale grecizzante e neo-ruffiano.