84 – Giugno ‘92

giugno , 1992

Noi abbiamo un carissimo amico che ha un bellissimo figlio di nome Alessandro: intelligente, arguto, sensibile e lavativo.
Spesso da noi il ragazzo imperversa con canzonette macabre, ributtanti, sadiche, narcisistiche e demenziali in cui si parla di teste staccate, cadaveri putrefatti o coccodrilli che ballano il valzer. Egli stesso, dopo averci propinato tali delizie, fa lo sguardo furbastro, come per dirci: «Queste sono tutte stupidaggini». Dal momento che, per grazia di Dio, frequenta pure il conservatorio, si siede al pianoforte e con mano morbida e flessuosa accenna ad un «momento musicale» di Schubert.
Siamo andati a vedere Il silenzio degli innocenti e dobbiamo dire che al confronto del film le stupidaggini di Alessandro sono capolavori classici. La versione italiana si avvale di un doppiaggio pessimo, quasi ributtante, per cui forse non è tutta americana la colpa dei pessimi risultati. Il cinema hollywoodiano ha una reputazione di grande serietà professionale, per cui ogni regista, soggettista, sceneggiatore si ritiene che abbia studiato a fondo, con l’aiuto di consulenti di uno specifico settore l’argomento di cui si occupa. Però quando abbiamo sentito il direttore di un manicomio criminale dire di un detenuto che è uno «psicopatico puro» abbiamo capito che quello era un fumettone umoristico senza nessuna pretesa di serietà culturale o drammatica. Lo spunto, vero o falso, è certo molto adatto per una pochade: uno psicoanalista ammazza i propri pazienti e poi li cucina secondo succulente ricette, per esempio noi abbiamo apprezzato l’idea del fegato cucinato con le fave e innaffiato da un buon Chianti. Ma quando si vuole far ridere bisogna farlo onestamente e non fingendo di voler dare altre emozioni. Il pubblico deve essere rispettato e non si può legittimamente approfittare della sua diffusa mancanza di cultura e di senso critico, per poi ridere alle sue spalle quando accorre entusiasta a decretare con lunghe file davanti ai botteghini il successo dei nuovi drammaturghi. Per altro la recitazione dei due protagonisti è così stereotipa che né Jodie Foster, né Anthony Hopkins riescono per un solo istante ad essere credibili, al di fuori di un repertorio farsesco e disgustoso e il regista Jonathan Demme pare non rendersene assolutamente conto.
La musica è orrenda, senza filo logico, con qualche effettaccio thrilling; ci rifaremo chiedendo ad Alessandro di risuonarci Schubert.