Archivio di novembre 1995

Psicoanalisi contro n. 7 – La nuova vita

mercoledì, 1 novembre 1995

Subito dopo il concepimento, l’embrio­ne è già un individuo capace di perce­pire, attraverso i propri organi recettori, le qualità della vita e dell’ambiente di cui ha esperienza e di operare le scelte che ritie­ne più adeguate a garantirgli la sopravviven­za. Al secondo mese di gravidanza è già pos­sibile vedere abbozzati gli organi principali, al terzo mese gli organi di senso entrano in funzione: prima l’odorato, il gusto e poi il tat­to, l’udito ed infine, poco dopo, la vista. Usando questi sensi il bambino mette in fun­zione anche le sue capacità di apprendimen­to, ben prima di quanto vorrebbe la teoria di Piaget. I cosiddetti movimenti automatici od istintivi sono in verità veri e propri processi di apprendimento che sono programmati al raggiungimento di un fine attraverso moda­lità ben precise.

Fu proprio un nipote di Sigmund Freud, di nome William che a Toronto portò gli esiti di una approfondita ricerca fatta da lui e dalla sua équipe su un campione di diecimila gra­vidanze per cui era possibile dimostrare come fosse spiccata l’intenzionalità dei mo­vimenti del feto e quanto fosse ricca la sua vita intrauterina: non solo infatti si era potu­to accertare che sogna, grazie alla rileva­zione dei due tipi di sonno REM e non REM, ma anche si erano visti due ge­melli interagire con una specie di gioco-lotta, feti farsi schermo contro luci vio­lente e reagire a rumori, tutti gesti che pro­vano l’alto grado di evoluzione dello psichi­smo fetale e se ne può dedurre quindi, mal­grado il parere contrario di Freud, anche del­la formazione pre-natale di uno psichismo in­conscio.

Per questo, la gestante è responsabile nei con­fronti del figlio della qualità della vita che sceglie per sé: non solo fumare e bere e non seguire ordinate regole alimentari nuoce al bambino, ma anche fargli sentire musica vio­lenta (le gestanti che ascoltano troppa musi­ca rock danno alla luce bambini ansiosi, men­tre pare che la musica classica e di Mozart in specie giovino alla tranquillità psichica del feto e del bambino). Certo, ipotizzare sulle origine della vita psichica è difficile come lo fu fare ipotesi sulle origini del Nilo nel seco­lo scorso; ma ciò non toglie che quelle sor­genti ci fossero; proprio come è indubbio che lo psichismo del bambino inizi col concepi­mento.

“Tu partorirai nel dolore!” Suona la condan­na della donna nell’Antico Testamento e l’eco ancora perdura nell’inconscio sociale di uomini e donne, influenzando anche il modo in cui la donna si prepara al travaglio e al parto. Su ogni donna pesa poi in parti­colare il ricordo del modo in cui è sta­ta a sua volta partorita.

In genere, il travaglio inizia quando la donna è ancora nella propria casa, in condizioni di relativa normalità; dopo le prime contrazioni viene in genere trasferita in ospedale, dove sarà portata nella sala parto pochi minuti o poche ore prima di sgravare. È questo tempo un continuum fatto di attacchi di contrazioni e sospensioni, ripresa e nuova scomparsa, in un ritmo che diventa sempre più intenso fino all’acme finale in cui il corpo della donna su­bisce sommovimenti che la sconvolgono fi­nendo con l’avere pure grosse valenze psi­chiche oltre che fisiologiche, e questo avvie­ne anche quando il travaglio ha un andamen­to considerato “normale”.

È importante che coloro i quali partecipano al parto abbiano considerazione anche di quello che emotivamente esso significa per la partoriente.

Anzitutto quella del parto è un’esperienza di separazione: la donna avverte questa realtà come traumatica, perché la cultura e il senso comune hanno da sempre enfatizzato questo aspetto che ora si verifica e la riempie di an­sia. Legata al senso di separazione c’è poi la fantasia di castrazione: avverte fin dalle pri­me contrazioni dolorose che le verrà strappa­to quel bambino-pene che ha tra le gambe.

Quando quest’ansia prevale, la partoriente può reagire in due modi: 1) bloccando le con­trazioni, almeno quel tanto che le permette di elaborare l’ansia e di affrontare con più con­sapevolezza il parto; se questo recupero non avviene però il rischio è grave per la madre che potrebbe negare il parto anche quando questo sarà avvenuto; 2) oppure negando co­scientemente le contrazioni, ma non riuscen­do ad impedirle, col risultato di rischiare una sindrome schizogena che può avere conse­guenze serie sulla creatura partorita oltre che sulla dinamica del parto che in genere si svol­ge con una grande drammaticità che coinvol­ge i famigliari e l’équipe di ostetricia. Non sono pochi gli schizofrenici che nel delirio ri­petono alla madre: “Tu non sei mia madre, lei è morta durante il parto, tu chi sei?”

Sempre è grande, durante i momenti di maggior eccitazione del parto, la con­fusione della donna tra se stessa, il fi­glio, la propria madre, il pene e le feci.

La ricorrente fantasia del parto anale che si riscontra sia nei maschi sia nelle femmine, soprattutto nell’infanzia, torna qui con gran­de vividezza influenzando la percezione che la partoriente ha del parto, al quale tra l’al­tro, si accompgnano in genere fenomeni di evacuazione delle feci.

La scissione, la separazione, la castrazione, il parto anale, la paura della morte sono conte­nuti psichici sconvolgenti concentrati in uno stesso spazio temporale ed emotivo ed indu­cono un altro terribile sentimento: l’odio per il figlio che si sta portando alla luce. La par­toriente dice: basta! a questo figlio assassino che pare volerla punire anche per aver pro­vato il piacere sessuale. È vero che sempre nel parto si raggiunge un punto di odio e di aggressività tale che si desidera far morire colui che sta nascendo. Questi sono però i co­rollari inevitabili di una situazione storico- culturale che è stata condizionata in modo ne­gativo dall’opinione che l’inconscio sociale ha sviluppato del ruolo del maschio della femmina e della loro sessualità.

Non si può neanche però tacere che nel par­to stesso molti hanno fantasticato di ritrova­re le tracce di un intenso piacere sessuale; questo pur senza voler fare proprie le teorie un po’ deliranti di Groddeck (1961) che ad­dirittura pretenderebbe che per la donna quel­lo del parto sia il momento dell’esperienza del massimo piacere sessuale.

La psicoanalisi purtroppo non ha fatto finora quanto potrebbe fare, non solo per il purita­nesimo e il fallo-centrismo di Freud, ma an­che perché ha avuto paura di andare a cerca­re le vere origini di quei movimenti psicodi­namici che spingono l’individuo e le società ad operare le loro scelte.

È importante con una vera. e propria rivoluzione copernicana capovolgere alcuni concetti finora considerati fondamentali. Per prima cosa bisogna considerare il parto solo come l’atto finale della gestazione e non il momento della nascita dell’individuo. L’uomo nasce nell’istante del concepimento, quando cioè lo spermatozoo penetra nell’ovulo e lo feconda. Tutto comincia di qui e persino gli astrologi che vogliono predire il destino umano dovrebbero consultare la posizione degli astri al concepimento e non al momento della nasci­ta anagrafica. Poi bisogna che la donna ac­cetti che il frutto del concepimento che ospi­ta nell’utero sia un essere autonomo con la pienezza dei diritti individuali, che in quanto madre ha il dovere di assicurare ad ogni co­sto, persino accettando di perdere il diritto di proprietà sull’utero stesso. ” Il corpo è mio e lo gestisco io” vale solo in assenza di gravi­danza, quando invece il diritto alla vita del feto deve prevalere su ogni altra considera­zione. Per banalizzare il concetto si potrebbe dire che vale per la gestante quello che vale per un padrone di casa che l’abbia ceduta in affitto: non ne perde la proprietà, ma il dirit­to alla vita, all’indipendenza ed autonomia dell’inquilino gli impedisce di disporne fin­ché vige il rapporto di locazione. Lo stupro è la più sciagurata delle circostanze in cui un figlio può essere concepito, ma se la madre ha il diritto di non amarlo e non accudirlo dopo la nascita, la società ha il dovere di as­sisterla perché porti a termine il più felice­mente possibile la gravidanza, proteggendo­lo anche dall’odio ed assicurandogli le con­dizioni migliori di vita, con o senza la madre naturale, dopo il parto. “Tu partorirai nel do­lore” resta vero perché la vita è anche dolo­re, ma l’accettazione della vita nella pienez­za dei suoi diritti fin dal concepimento è il solo modo di alleviare questo dolore, accom­pagnando un essere umano fino alla soglia di luce oltre la quale avrà prima o poi la possi­bilità di percorrere da solo il resto del suo cammino. È importante che il bambino non sia lasciato solo e la prima che ha il dovere di assistenza e compagnia è la madre, poi toc­cherà alla società assumersi le inevitabili re­sponsabilità: finora purtroppo non l’ha fatto, nemmeno dopo le conquiste della psicoana­lisi, che ha fatto l’errore di ignorare che il concepimento di un nuovo essere umano è, prima di tutto, un atto sacro.

Psicoanalisi contro n. 7 – Il sesso

mercoledì, 1 novembre 1995

Il corpo è inevitabilmente associato alsesso, però è difficile definire la sessualità, dire quando inizi e come si esprima. Freud afferma che il bambino fin dai primi giorni di vita percepisce se stesso sessualmente, anzi è narcisisticamente chiuso in questa percezione e fatica a percepire il resto del mondo come altro da sé. Solo con il tempo e l’apprendimento il bambino nelle varie fasi della vita successiva riesce ad uscire dalla prigione dell’autoerotismo e ad indirizzare la pulsione erotica del proprio Es su gli altri oggetti, prima attraverso un tipo di
sessualità indifferenziata e polimorfa e poi orientandosi verso la genitalità, dopo aver attraversato le fasi che la psicoanalisi ha voluto teorizzare in modo canonico: la fase orale, anale, fallica e infine appunto genitale. La pulsione che muove lo sviluppo sessuale viene definita come libido la quale lascia le tracce del suo percorso attraverso i diversi organi, sotto forma di presidi che connotano inmodo più o meno preciso alcune zone come erogene. Di qui nasce la concezione freudia­na della sessualità genitale eterosessuale e procreativa come l’unica forma non perversa di erotismo e tutte le altre come fissazioni perverse agli stadi precedenti.

L’atto genitale eterosessuale è comunque il gesto che attraverso il coito e l’orgasmo por­ta al concepimento della nuova vita e la qua­lità di questo gesto fondamentale incomincia ad influenzare subito la formazione della vita psichica del bambino il percorso della quale, però, non corrisponde a mio avviso alla teo­rizzazione freudiana.

Allo stesso modo in cui il bambino nel ven­tre materno non è isolato dalla relazione col mondo, che penetra fino a lui attraverso il corpo della madre, così io credo che questa sorta di placenta autistica ed autoerotica in cui Freud ha voluto che fosse avvolto il bam­bino non esista. La sessualità incomincia dai primi istanti della vita prenatale, soprattutto come sensazione tattile e non è solo auteroti­ca, ma è in relazione col corpo materno.

Psicoanalisi contro n. 7 – Il corpo

mercoledì, 1 novembre 1995

La gestante spesso si esalta, immedesi- mandosi in un ruolo di vittima sacrifi­cale: è una condizione psichica che affonda le sue radici nell’inconscio sociale e si riallaccia al mito delle dee madri alle quali abbiamo fatto cenno con la loro potente sug­gestione che accosta il sesso, la vita e la mor­te in un solo groviglio emotivo e che ha le sue basi nel rischio effettivo che il parto compor­ta. Questi eccessi di ansia hanno bisogno di trovare nell’ambiente: nel partner, ma anche negli altri membri del gruppo ristretto, una ca­pacità di appoggio e di comprensione. È im­portante che la donna arrivi a percepire le due realtà: del proprio corpo e del corpo autono­mo del bambino senza paura e senza desideri di negazione o di inglobazione-appropriazio­ne. Ciò è più facile da ottenere quando si è abi­tuati da sempre ad avere un buon rapporto con il proprio corpo, che troppo spesso i condi­zionamenti religiosi e culturali ci fanno senti­re come un nemico o una prigione. A volte lo si sente inadeguato rispetto ai modelli impo­sti dello sportivo o della seduttrice. Altre vol­te lo si danneggia per un abuso di energie o per un rifiuto della sua fisicità. Tutti atteggia­menti che mettono in moto contorti meccani­smi psichici che disturbano non solo una felice e soddisfatta sessualità, ma addi­rittura innescano fantasie ipocondria­che che portano a distruggere il corpo proprio nel delirio eccessivo di preservarlo da ogni contatto con la realtà. Il corpo dovrebbe essere sempre percepito come un amico, ed è importante riappropriarsi di un felice rappor­to con esso.

Soma e psiche hanno bisogno di sentirsi bene insieme, proprio perché sono una cosa sola. Per questo non bisognerebbe indulgere alla contemplazione di sé stessi in uno specchio, perché si rischia di separare il proprio corpo da noi e di vederlo come “altro”.

Le palestre non dovrebbero avere specchi: I armonia dei movimenti e delle forme va ri­cercata su di sé.

Il corpo deve essere invece offerto alla per­sona amata come un dono: e non è vero che questo sia in contraddizione con quell’amore platonico che conduce dal bello al bene.

Fu Plotino e non Platone che teorizzò invece quel tipo di amore asessuato che troverebbe la via dello spirito attraverso la rinuncia dell’amore del corpo.

Se qualche volta il corpo deve essere negato, anche se si ha l’impressione di rinunciare a un gesto d’amore, è quando la persona amata ha un ruolo che in qualche modo potrebbe condizionare e limitare la completa libertà di scelta: per questo è giusto che nel contesto attuale il terapeuta, il maestro, il genitore si neghino come oggetti sessuali, anche se l’amore può essere grande quanto il desiderio.

La gestante che ha preparato il suo corpo al rapporto con se stesso e con l’altro arriverà a trascorrere più felicemente quei nove mesi e soprattutto sarà in grado di aiutare il figlio a stare meglio in un rapporto che è di stretto contatto e di simbiosi nel rispetto dell’auto­nomia reciproca.

Psicoanalisi contro n. 7 – Il rifiuto

mercoledì, 1 novembre 1995

È  analisi dei sogni della donna durante il periodo della gestazione permette, insieme ad altri accorgimenti e ricerche, di rilevare come avvenga in lei una sor­ta di regressione a stadi molto remoti, e come si riattualizzino conflitti e fantasie nei ri­guardi della propria madre, come dice anche la psicoanalisi classica. Io direi che il cam­mino a ritroso va oltre la stessa vita indivi­duale per riportare la donna alle origini di quelle tracce che nell’inconscio sociale han­no lasciato le antiche Dee-Madri con le qua­li la donna si identifica e sulle quali proietta paure e desideri.

Il mito di queste antiche dee, madri e aman­ti, risale alle culture mesopotamiche succes­sivamente trasmigrate nell’area del Mediter­raneo. Secondo gli antropologi e gli archeo­logi erano venerate dapprima come dee tel­luriche ( della terra) e poi anche celesti. Ave­vano una connotazione paurosa ed i loro nomi sono Istar oppure Manna, successiva­mente identificate con Afrodite, dispensatri­ci dell’amore, della vita ed anche della mor­te: loro vittime o amanti erano altri dei od eroi come Gilgamesh, o Adone. Dee che uc­cidevano i loro compagni dopo averne godu­to ed essere state da loro fecondate. La loro tenebrosità ha fatto sì che ve­nisse diffuso il culto di una Dea nera di cui si trovano le tracce dal medio oriente, fino al Palatino, in Roma, dove in un tempio a lei dedicato i sacerdoti si eviravano nel corso di speciali riti iniziatici. La stessa religione cristiana pare averne raccolto l’ere­dità, trasformandole nelle Madonne nere ve­nerate in santuari di tutto il mondo: in Italia ad Oropa e a Loreto, in Polonia a Tche­stokowa, in Spagna a Montserrat, in Messico a Guadalupe ed in moltissime regioni della Francia, dove i simulacri sono per lo più ri­masti gli stessi dell’antichità pagana. Queste dee e Madonne testimoniano quanto sia for­te nell’inconscio sociale l’immagine della creatura femminile capace di dare la vita, il piacere e la morte. Le donne la recano in sé anche quando sono incinte e questo stimola fantasie di onnipotenza e di distruzione che agiscono, consapevolmente ed ancor più in­consapevolmente, sul loro rapporto col bam­bino durante la gestazione. Rapporto che de­terminerà in parte la qualità della vita di en­trambi anche dopo il parto.

Dopo circa tre mesi e mezzo di vita gestazionale la vita del feto si manifesta in modo evidente soprattutto attraverso una modalità che le gestanti interpretano come uno scalciare: ” Il bambino scalcia!” È l’espressione più diffusa per segnalare che si percepiscono i movimenti del feto all’interno dell’utero. È interessante domandarsi perché le madri percepiscano questa motilità come un gesto aggressivo: di qual­cuno che tira calci contro le pareti del ventre. Il calcio nella concezione più comune è con­siderato un gesto di aggressione e non può non avere alcun significato che la madre per­cepisca il figlio come un aggressore.

Una mia paziente era reduce da un interven­to di inseminazione artificiale in Svizzera, dove come generalmente avviene si mantie­ne la più totale segretezza sull’identità del donatore. L’esito era stato positivo e lei si era sentita felicemente incinta finché non aveva percepito appunto i primi “calci”. Quell’ag­gressione inaspettata l’aveva fatta andare fuori di senno: elaborando una diceria popo­lare per cui i donatori svizzeri sono scelti tra i soldati in età di leva, aveva incominciato ad avere incubi che la scuotevano ogni notte dei quali era protagonista un giovane soldato biondo, che lei chiamava “lo svizzero” che l’ aggrediva e la dilaniava. Poco per volta aveva persino dimenticato l’esperienza dell’inseminazione e semplicemente sentiva dentro di sé uno “svizzero” che la minaccia­va. Nonostante gli aspetti così clamorosi il caso mi permise una prognosi abbastanza fa­vorevole e lavorando insieme riuscimmo a far rientrare quel delirio addirittura prima del tempo del parto, che avvenne felicemente. Un’altra donna in cura da me aveva scelto de­liberatamente, per ragioni ideologiche, di ignorare quale sarebbe stato il padre del pro­prio figlio e per questo aveva avuto un’in­tensissima attività sessuale con rapporti com­pleti in uno stesso breve arco di tempo, con partner estranei al suo ambiente abituale. An­che in quel caso però l’inizio della percezio­ne dei “calci ” del bambino scatenò un deli­rio persecutorio da parte di un non meglio identificato “straniero”.

Un’altra mia paziente che era a conoscenza delle mie teorie contrarie alla pratica delle punizioni corporali dei figli, che considero solo come sadico gesto di vendetta su indivi­dui fisicamente più deboli, mi confessò con grande sforzo che lei rispondeva ai “calci” del bambino colpendo il proprio ventre con pugni, per punirlo. Fortunatamente in quel caso riuscimmo insieme a trovare una chiave ironica ed umoristica di quello che minaccia­va di diventare un problema psichico serio per lei e di salute per il bambino e decidem­mo di registrare invece i calci che riceveva per farglieli “pagare” dopo il parto.

Sono tre esempi che riflettono bene come an­che nelle gravidanze volute l’attività autono­ma del feto venga percepito come un mecca­nismo di aggressione.

Una considerazione a parte merita il fatto che abitualmente la cultura popolare consigli alle donne incinte di non guardare immagini “brutte”, ma di fermare l’attenzione solo su immagini che possano essere definite “belle”, perché le immagini brutte potrebbero im­pressionare il bambino facendolo diventare – si direbbe per analogia – un mostro. La pau­ra di dare alla luce un mostro riconduce fa­cilmente al pensiero di avere dentro di sè un mostro di cui liberarsi con il parto: fantasia questa di un’aggressione subita ed agita ad un tempo.

Si possono isolare due atteggiamenti mania­cali tipici del periodo precoce della gravi­danza: 1) quello delle donne che percepi­scono il bambino intensamente, ma che han­no bisogno di negarlo per non cedere allo spavento ed allora ostentano un’imperturba­bilità eccessiva, conducono una vita assolu­tamente “normale” come se la particolare condizione in cui si trovano non le riguar­dasse; 2) quelle che si concentrano total­mente sul loro ventre e su tutto quello che credono di percepire vi avvenga all’interno, ogni movimento, rumore, cambiamento ed assillano l’ambiente famigliare pretendendo un’attenzione e una protezione immotivate ed eccessive. Sono due modi di reagire ad un’ansia esagerata che danneggia la gestan­te e che possono esternarsi anche con sinto­mi di tipo psicosomatico, come la bulimia, l’ipertensione o l’ipotensione, varici, stasi venosa ed altro.

Psicoanalisi contro n. 7 – L’ambivalenza

mercoledì, 1 novembre 1995

La negazione è comprensibile, ma non risolve il problema della responsabilità individuale e di gruppo. È triste per me constatare come, volendo parlare della gesta­zione, mi trovi a parlare così tanto di aborto: ma il fatto è che la gestazione è un periodo della vita della donna che esalta al massimo grado le due alternative di esercitare il suo potere sulla vita e sulla morte.

In ogni caso, anche la gravidanza è sempre in parte voluta e non voluta, più o meno in­consciamente. Se una donna rimane incinta, quasi sempre lo ha voluto, perché l’organi­smo ha a disposizione tantissimi strumenti psicosomatici di difesa dalla gravidanza non voluta: dal prolasso vaginale, all’incremento del ph, alle affezioni ovariche e la medicina psicosomatica e la ginecologia ben conosco­no queste risposte femminili alla gravidanza indesiderata e all’ambivalenza sempre pre­sente nelle intenzioni umane. Talvolta sono proprio le ambivalenze che squassano la per­sona.

Una mia paziente, che posso ora definire: “felicemente guarita”, viveva paralizzata dall’ambivalenza nei confronti di ogni picco­la o grande scelta: anche per un capo di ab­bigliamento o un accessorio non le riusciva di prendere una decisione senza rimpiangere l’alternativa rifiutata. La sua vita era una sofferenza e divenne un tormento quando si trattò di decidere di “comprare” un bambino ( in Piemonte si dice comunemente “comprare un bambino” per “partorire”). Mozart nel Don Giovanni ha co­struito sulle parole di Da Ponte, un capola­voro sull’aria di Zerlina “Vorrei e non vor­rei…” e poi ancora nelle Nozze di Figaro con Cherubino che esprime la sua esitazione: “Non so più cosa son, cosa faccio”, preso tra la voglia di conquistare le donne e la voglia di essere donna a sua volta.

Interessanti sono le osservazioni a questo proposito della psicoanalista argentina Raquel Soifer (1986): l’ipersomnia, che coglie la donna quando l’organismo ha già percepi­to, senza che se ne sia acquisita la consape­volezza, lo stato di gravidanza, esprime la di­fesa dall’ansia troppo forte; il vomito che si manifesta quando ancora non c’è la perce­zione cosciente della gravidanza esprimereb­be il rifiuto e il desiderio di espellere l’esse­re annidato nel ventre.

Sono osservazioni solo parziali perché sia il sonno sia il vomito hanno anche altri signifi­cati psichici inconsci.

In realtà il sonno è anche un mezzo per ca­larsi in sé stessi, per vedere meglio cosa c’è dentro di noi, anche aiutati dall’ipersen­sibilità percettiva che lo stato di dor­miveglia sviluppa.

Insieme desiderio di fuga e desiderio di vedere inducono un sonno che non è sano, ma depressogeno e che è meglio contrastare con attività disintossicanti, come lo sport o il divertimento, o l’attività intellettuale. Non è vero inoltre che nel sonno si abolisce il mon­do, spesso è proprio nel sonno che, come Don Chisciotte oppure Orlando, cadiamo vittime dei fantasmi.

Per quel che riguarda il vomito il suo signi­ficato non si esaurisce in quello di rifiuto in­conscio, che spesso è solo un aspetto di una costellazione psichica molto complessa che riguarda il gruppo affettivo e sociale.

Un’altra ragazza di diciassette anni colpita da crisi depressiva dopo l’avvenuto aborto aveva rifiutato il bambino dopo che il suo partner l’aveva esortata a tenerlo, per timo­re di dover rivelare la verità alla madre. La ragazza tra l’altro continuava a vomitare come aveva iniziato a fare durante la gravi­danza. L’analisi permise di leggere diversi li­velli del significato della depressione e del vomito. Un livello riguardava il rifiuto di ac­cettare che il matrimonio le venise offerto “a causa della sua gravidanza”; un altro era l’identificazione eccessiva con la madre, donna autoritaria e castratrice, che la ragaz­za ha inteso anche superare rifiutando un “buon partito” ben più appetibile che quell’ometto castrato del padre. Un caso dove la strumentalizzazione da più parti del bambino balzava evidente in modo impres­sionante e dove il vomito esprimeva rifiuto non tanto del bambino quanto di una serie di figure, reali e fantastiche che solo l’analisi poté mettere e fuoco, permettendo il supera­mento della depressione e la scomparsa dei sintomi.

Psicoanalisi contro n. 7 – I riti di passaggio

mercoledì, 1 novembre 1995

La gestazione è dunque il momento del rapporto diadico tra il figlio o la figlia e la madre. Il rapporto diadico col padre, come ho detto, deve ancora venire, per­ché il padre ancora non esiste, forse esisterà un giorno, come dice Bloch a proposito di Dio, il quale sarà solo alla fine dei tempi, contrariamente all’opinione di chi crede che invece sia stato fin dall’inizio.

In ogni caso però la vita nell’utero della ma­dre è permeata continuamente di influenze dell’ambiente esterno e quasi mai la vita del feto assomiglia al beato galleggiamento som­merso in un mare di beatitudine. Tanto dram­matica è la vita della gestante, altrettanto lo diventa quella del feto, e questo vale anche per le emozioni che non raggiungono la co­scienza della donna.

La psicoanalisi può, grazie al suo metodo di indagine, aiutare la donna a diventare consa­pevole delle proprie dinamiche psichiche e riesce anche in seguito a ritrovare nella vita del bambino le tracce di queste esperienze della vita intrauterina.

Ricordo una paziente che percepiva la pro­pria condizione di gestante drammaticamen­te, sentendosi lacerata dal fatto di non essere più una, compatta, ma come scissa e dispersa nel gioco delle proiezioni ed identificazioni tra lei e la nuova vita che ospitava in sé. La percezione consapevole e distinta della realtà di quella nuo­va vita le faceva paura. “Non avrei mai vo­luto sentirlo, non volevo sapere che era lì, non sopporto di sentirlo muovere e anche op­porsi, qualche volta, a me”. Questa dramma­ticità si riscontra di frequente nella gestazio­ne: mette ansia acquisire la consapevolezza dell’autonomia esistenziale dell’individuo che si muove nel proprio ventre. Mette ugual­mente ansia il suo silenzio: ci sono donne che attraversano crisi d’angoscia quando hanno l’impressione di non percepire più la presen­za del bambino: “Non lo sento più, è morto”. L’embrione, fin dal concepimento, per contro cerca la propria autonomia.

Certo, questa autonomia non la raggiungerà neppure dopo la nascita, ma ciò nonostante il processo di autoindividuazione è continuo e l’ignorarne le dinamiche più precoci, duran­te la gestazione, può impedire di comprende­re scelte e scacchi della vita successiva. For­se proprio qui si annidano le radici di una ma­lattia gravissima come l’autismo infantile. Ci sono situazioni in cui la donna si difende e si comporta ostentando una grande calma e soddisfazione per il nuovo stato: questo tipo di gestante ha l’aria proterva, soddisfatta, come il serpente che ha appena mangia­to il porcellino.

Non sempre però è così: nel suo volu­me “Sex, abortion and unmarried women”, Paul Sachdev sostiene una tesi molto curiosa, che però un poco surroga quanto sono venuto dicendo sulla gravidanza. L’au­tore sostiene infatti che per la donna è molto più faticoso portare a termine la gestazione fino al momento del parto, che non liberar­sene prima con un aborto. Ci sono in effetti donne che affermano con apparente tranquil­lità di aver abortito anche quattro o cinque volte. Molta letteratura ed un diffuso senso comune vagheggiano che l’aborto non rap­presenti dopo tutto un trauma per la donna. Sono tesi sostenute principalmente dagli abortisti e si basano per lo più sulla decodi­ficazione di questionari impostati con note­vole superficialità.

Un giorno arrivò nel mio studio una giovane donna, per chiedere un’analisi. Al primo in­contro si rivelò una grave forma di depres­sione, con stato di ansia e fantasie di suici­dio. La depressione è spesso una forma reat­tiva alla paura di morire alla quale si rispon­de abbandonandosi al gusto della morte stes­sa. Dopo avermi descritto abbastanza in det­taglio la propria situazione famigliare, arrivò a parlarmi di un aborto risalente più o meno all’inizio della depressione. “All’uscita dell’ospedale, dopo aver abortito mi ero sen­tita felice, libera da un peso. La vita con mio marito era ripresa benissimo. Poi d’improv­viso sono cominciati i sintomi. Tutto questo non può aver niente a che fare con l’aborto, di sicuro. L’aborto è una pratica legale nel no­stro Paese, come in mezzo mondo. Se la leg­ge lo consente non c’è motivo di preoccu­parsi, la mia depressione non può aver a che fare con l’aborto. Vero dottore?” Io tacevo e riflettevo: se quella donna avesse compilato uno dei questionari tanto diffusi nei Paesi del nord europeo, ad una domanda in proposito avrebbe certamente risposto che l’aborto non era stato per lei un’esperienza traumatica. Eppure avevo davanti a me una donna di­strutta da un sindrome post-abortiva, come mi confermò il proseguimento dell’analisi. I questionari sono troppo schematici per riflet­tere realtà complesse come quelle della psiche. Non si può stabilire in anticipo: “Se risponde sì è ansioso; se rispon­de no è depresso, se dice non lo so è alcolista”. Spesso la pratica dei questionari e le relative elaborazioni statistiche sono vere e proprie truffe pseudo-scientifiche. Perso­nalmente, quando sono costretto a farvi ri­corso, elaboro personalmente griglie di lettu­ra molto aperte e articolate e poi cerco anco­ra notizie supplementari sulle condizioni in cui sono stati proposti e sulle persone che vi hanno risposto.

È vero che l’esperienza della gravidanza è psichicamente traumatizzante, ma lo è altret­tanto l’esperienza di morte dell’aborto. Un interessante libro di una psicoanalista jun­ghiana, Eva Pattis, “Aborto, perdita e rinno­vamento” sostiene che nella nostra società l’aborto ha il significato di un rito di passag­gio (ricorrendo anch’essa al già citato termi­ne, entrato nell’uso scientifico, preso da Van Gennep, antropologo dei primi del secolo). Il rito di passaggio è una pratica che, come ab­biamo visto, sembra molto evidente nei po­poli cosiddetti primitivi, ma che in realtà ha profonde radici anche nella civiltà occidenta­le.

La Pattis sostiene che l’aborto è una pratica universalmente diffusa, perché la donna per diventare davvero “donna” deve liberarsi dall’obbligo della maternità, uccidendo. Per la Pattis ciò è inevitabile, proprio come fu inevitabile che Edipo uccidesse il padre e sposasse la madre. Personalmente mi rifiuto di credere che sia vero che la donna ha la ne­cessità di uccidere per sentirsi pienamente in­tegrata nel proprio ruolo e se fossi una don­na credo che mi batterei per liberarmi da una simile condanna.

Certo anche i sacrifici umani a suo tempo erano ineluttabili componenti dei riti di passaggio: Stravinsky ce ne ha dato una meravigliosa versione poetica con “Le sacre du printemps”, ma oggi nessun popolo accetta più che il passaggio dalla vecchia alla nuova stagione sia segnato da un omicidio rituale. Sulla stessa linea possiamo porre altre pratiche offensive della dignità e della vita dell’uomo, come la “mensura” ovvero lo sfregio rituale degli studenti tedeschi, o lo stupro delle associazioni giovanile naziste, di cui sono eredi i moderni naziskin, e via dicendo. Più sottilmente insidiose sono certe pratiche apparentemente “bonarie”, come l’inziazione alla galera dei giovani ma­lavitosi romani di fine secolo: bisognava aver passato la “porta” per essere davvero un “uomo” e la porta era quella del carcere di Regina Coeli.

La scienza non può lavarsi le mani ed accet­tare una pratica omicida solo perché rientra nelle dinamiche sociali: bisogna andare con­tro queste pratiche con convinzione. L’altra metà del cielo non deve accettare supina­mente il ruolo di carnefice per realizzarsi. Oggi purtroppo la cultura vilmente minimiz­za la gravità dell’aborto, cercando di alleg­gerire al massimo il peso di un gesto tanto tragico, ma la tranquillità che si ottiene in cambio di questa complicità ha conseguenze profonde gravi non solo sulla donna che ne è tra le vittime principali, ma anche sul resto del tessuto sociale.

Psicoanalisi contro n. 7 – Il mito di Edipo

mercoledì, 1 novembre 1995

Uno degli elementi fondamentali della teorizzazione dell’Edipo e dei suoi successivi sviluppi è quello riguardante il ruolo che questo complesso svolge all’interno della psicodinamica femminile. La bambina deve capovolgere ad un certo punto, per altro molto precoce, la direzione verso la quale indirizzare l’oggetto d’amore: mentre il bambino continuerà ad avere per oggetto affettivo e sessuale la madre ed il suo corpo, la bambina invece dovrà staccarsi dall’intimo rapporto con la madre fino a ca­povolgerlo in odio perché la sentirà rivale ed in opposizione alla realizzazione del proprio obiettivo, quando, identificandosi con essa, rivolgerà al padre il proprio desiderio ses­suale. Tutto questo almeno in una società e una cultura che impone al maschio adulto di scegliere come oggetto sessuale la femmina e viceversa. Freud ha spiegato come questa necessità sia universale facendo ricorso alla fantasia dell’orda primitiva, riferita in “To­tem e tabù”, (1912/13), anche se molti antro­pologi hanno messo in dubbio questa teoria, centrata eccessivamente sul maschio e basa­ta su una presunta realtà preistorica di cui non si reperisce traccia. Molti psicoanalisti e psi­coanaliste hanno però accettato la strut­tura triadica come fondamento del complesso di Edipo, scordando forse che almeno all’inizio il rapporto è soltanto diadico: infatti sia il maschio sia la fem­mina hanno rapporto esclusivamente con la madre. Per questo ritengo fondamentale ap­profondire le ricerche sul rapporto madre- feto durante la gestazione.

Per illustrare le ragioni delle mie scelte teo­riche vorrei anch’io fare ricorso al mito e alla tragedia dell’antica Ellade.

La tragedia dell’Edipo Re (che qui sintetizzerò in modo forse eccessivo) prende l’avvio a Tebe dove al re Laio e alla moglie Giocasta l’oracolo aveva predetto che il figlio della loro unione avrebbe un giorno ucciso il padre e sposato la madre. Per scongiurare gli esiti della predizione il re, subito dopo l’infausta nascita, diede ad un pastore l’incarico di uccidere il piccolo Edipo. Il pastore mosso a compassione del bambino lo allevò lontano dalla città, fra i monti. Il giovane Edipo però, ormai fatto uomo, volle andare alla ricerca del padre e della madre. Sulla via verso Tebe incontrò un nobile arrogante che gli negò il passo e nella lite che seguì lo uccise. Quell’uomo era Laio. Giunto a Tebe fu in grado di risolvere l’enigma della Sfinge, liberando la città dalla sua tirannia. In premio ottenne la mano della regina, da poco vedova di Laio. Gli dei, indignati per il delitto e l’incesto, punirono Tebe con una pestilenza e solo l’indovino Tiresia ebbe il coraggio di rivelare l’orribile verità. Giocasta s’impiccò ed Edipo si accecò con le proprie mani. Qui si chiude la prima tragedia della trilogia.

Nell’Edipo a Colono, il vecchio Edipo, gui­dato dalle figlie Antigone e Ismene, è in mar­cia verso Colono, villaggio non lontano da Atene, su cui regna Teseo.

Egli intende aspettare la morte nel bosco del­le Eumenidi. Prima di addentrarsi nella fore­sta il vecchio cieco prega le figlie di lavarlo e si fa accompagnare da Teseo fino ad un punto, dove ode la voce di Zeus che lo chia­ma a sé: rispondendo al richiamo si inoltra da solo tra gli alberi e scompare. Nessuno, nem­meno Teseo, riesce a ritrovare il suo corpo e l’ultima scena vede il re di Atene e le due fi­glie di Edipo in preghiera davanti al prodigio. La bellezza di questa storia, anche per come è narrata, resta intatta ancora oggi. Per que­sto e per i suoi significati, l’ho scelta come introduzione al mio discorso sull’Edipo. A Colono si realizza un rapporto diadico che è tra il figlio-Edipo e il padre-Zeus. Purtrop­po oggi la figura del padre è ancora da co­struire per cui il rapporto diadico si gioca tut­to tra il figlio e la madre, soprattutto nel pe­riodo gestazionale.

Nel ventre materno il bambino è mosso dal­la voglia di vivere, ma fin da subito questo desiderio si connota di coloriti affettivi: il feto, come prima di lui l’embrione e poi il bambino, hanno bisogno di dare e ricevere amore. Cosa è questo amore? Anche se è im­possibile definirlo, anche perché troppe definizioni ne hanno dato la cultura e l’arte, la sua è una presenza che alimenta da sola la vita dell’essere umano. La perfezione sareb­be che ogni concepimento fosse frutto d’amore e la storia successiva uno scambio continuo d’amore tra l’individuo e gli altri, prima di tutti il padre e la madre. Il piacere sessuale non è, di per sé, segno d’amore e po­chi purtroppo sono i figli che nascono per il fatto che i genitori vedono in loro la realiz­zazione di un progetto affettivo che non ri­guardi solo le proprie persone, ma il frutto di quel concepimento. Il piacere del sesso e l’amore della coppia non sono sufficienti a garantire al figlio l’amore a cui ha diritto per sé. Paradossalmente si potrebbe auspicare che la procreazione diventi un giorno un fat­to scisso dalla sessualità e che l’amore della coppia per il bambino tenda a realizzare il progetto esistenziale di quest’ultimo e non di uno o di entrambi i partner.

C’è purtroppo anche una fasulla letteratura che celebra l’indissolubilità di Eros e Thana­tos, amore e morte, ma questa è una falsità: l’ amore è sempre vita vissuta per la vita dell’altro. L’amore può essere il legame che unisce più di due o tre persone, senza che nessuno si senta proprietario o proprietà dell’altro. Non è quindi l’amore per il figlio che giustifica frasi come: “Tu sei mio, san­gue del mio sangue, carne della mia carne”. Il padre o la madre che le pronunciano sono malati ed ingiusti, anche quando lo sentono vivo palpitare nel grembo.

Psicoanalisi contro n. 7 – Il complesso di Hans

mercoledì, 1 novembre 1995

Non è quindi infondato l’interesse che la psicoanalisi odierna dimostra per i due protagonisti principali della gestazione: il bambino e la madre, poiché le dinamiche inconscie di entrambi e la loro reciproca influenza determinano in parte e comunque condizionano lo sviluppo del futuro indivi­duo. Il lavoro psicoanalitico è sempre stato soggetto a critiche nello svolgersi della sto­ria: nazifascismo e comunismo lo hanno avversato, la chiesa e la morale borghese giu­dicano immorale la psicoanalisi, non per nulla già lo stesso Freud, consapevole dell’ef­fetto devastante della scienza da lui fondata, festeggiato al suo arrivo in America, ebbe oc­casione di dire a chi gli era vicino: ” Non san­no che siamo venuti a portare la peste”. La psicoanalisi è stata anche avversata dalla scienza positivista e dai suoi eredi e solo in tempi recenti è riuscita a dimostrare la fon­datezza scientifica del proprio metodo e del­le proprie teorie, così affini a quelli della fi­sica sub-atomica. L’analisi del transfert non è meno oggettiva, per esempio, dell’osserva­zione di un’ecografia e lo stesso vale per le dinamiche inconscie che si basano su feno­meni quali la proiezione, l’identificazione, la rimozione e via dicendo, la cui oggetti­vità risulta evidente dagli esiti della vita inter-relazionale degli individui e dei gruppi.

È anche importante che la psicoanalisi ab­bandoni l’ostracismo agli psicofarmaci, ma ne ammetta l’utilità, purché gestiti all’inter­no di una visione psicodinamica dell’indivi­duo e delle modificazioni che può subire, e non ripeta l’errore della vecchia psichiatria, somministratrice di sostanze di cui non co­nosceva la natura e l’effetto, al di fuori di ogni progetto unitario sulla persona i cui sin­tomi si volevano eliminare.

L’importante è mantenere costantemente una visione dinamica, diacronica e sincronica, dell’inconscio e non restare fermi a poche formule stereotipe; fossero anche fondamentali come il complesso di Edipo, per esempio, che deve invece ogni volta essere riconsiderato in rapporto alla realtà del gruppo sociale e non riportato acriticamente allo schema borghese mitteleuropeo per cui è stato teorizzato. Ci sono stati grandi antropologi che, come Malinowski, hanno contestato l’universalità del complesso edipico ed altri che, come Levi Strauss, l’hanno ribadita; di volta in volta rifacendosi all’ipotesi freudiana dell’orda primitiva, oppure rifacendosi ad altre teorie filogenetiche o culturalistiche; come ha fatto anche Jung il quale ha inoltre cercato di colmare la mancanza di simmetria tra i termini maschile e femminile della questione — evidente in Freud — teorizzando, per la bambina, il complesso di Elettra, ispirato al ciclo gre­co della classicità tragica.

Mi sono deliberatamente soffermato sul­l’esempio del complesso di Edipo, perché il rapporto relazionale tra il bambino, la madre che ha l’ onere della gestazione ed il padre che ha avuto un ruolo così importante nell’atto del concepimento resta uno snodo cruciale nella formazione della realtà psicodinamica dell’individuo.

Lasciando da parte la versione freudiana che io preferisco chiamare complesso di Hans, bambino austriaco di fine del secolo scorso, mi pare di poter registrare oggi tre aspetti del complesso di Edipo: quello freudiano basato esclusivamente sulla sessualità; quello jun­ghiano di Edipo ed Elettra che per lo psicoa­nalista di Zurigo è centrato più che sul sesso sull’istinto di sopravvivenza legato al cibo, di cui la madre è dispensatrice sia per il figlio sia per la figlia; il terzo aspetto è quello che io fondo sul bisogno primario d’amore, che precede lo stesso istinto di sopravvivenza. Almeno nelle prime due accezioni, diventa fondamentale il problema affettivo e sessua­le che risveglia immediatamente la paura dell’incesto presente, in quasi tutte le società della terra di tutti i tempi, anche se la pratica quotidiana testimonia in realtà un fitto con­tatto di tipo para-sessuale tra adulti e bambi­ni che solo l’ipocrisia dominante finge di non vedere. Ad ogni modo andrebbe detto una volta per tutte che la paura dell’incesto è pro­pria degli adulti e non lo è dei bambini. Freud fa risalire il complesso edipico alla pri­missima infanzia, la Klein sostiene addirittu­ra che risalga ai primissimi istanti di vita, Jung lo colloca in un’infanzia in cui agisco­no gli archetipi; nessuno parla del periodo prenatale. Qui sta l’errore più grande: infatti lo zigote, l’embrione e il feto entrano subito in un rapporto affettivo con l’utero che li con­tiene e dal quale si vedono porre le condizioni di una più o meno felice sopravvivenza, che subito reclama una sua autonomia. Il maschio o la femmina, dopo il parto, esprimono anche le scelte che nella vita prenatale hanno matu­rato e che li spingeranno ad amare oppure a odiare la madre, a fantasticare sulla propria identità sessuale.

Il gruppo sociale e l’ambiente condizione­ranno da quel punto in avanti la vita dell’in­dividuo, agendo non già su una tabula rasa, ma su di una psiche formatasi da almeno nove mesi e concepita già ricca di messaggi genetici.

Psicoanalisi contro n. 7 – L’invidia

mercoledì, 1 novembre 1995

La psicoanalisi classica ha costruito la sua teoria sulla sessualità femminile soprattutto basandosi sul concetto di “invidia del pene”. Il fallo è ritenuto dall’inconscio un valore ed uno strumento di potere, la donna che ne è deprivata prova l’invidia per il maschio che invece lo possiede e cerca nelle modalità diverse del rapporto sessuale ed attraverso la propria capacità procreativa di riappropriarsene. È certo un errore ritenere che la sessualità della donna si esaurisca tutta nella dinamica dell’invidia, anche se questa è presente, sempre, in tutte le donne.

L’invidia del pene o del fallo ed il desiderio di castrare il maschio non sono gli unici elementi importanti della sessualità femminile, ma entrano anch’essi in gioco, insieme a molti altri, nella psicodinamica della gestazione. Tra gli elementi in causa infatti c’è da considerare il ruolo esercitato nel rapporto tra i sessi dall’invidia del fallo e dell’utero, oltre che della vagina (sentimento questo già teorizzato dalla psicoanalisi tradizionale). Di fatto se ne è parlato finora molto poco anche perché la psicoanalisi è stata gestita in modo preponderante dai maschi: da Jung a Lacan ha avuto il suo peso la paura della castrazione che ha indotto gli psicoanalisti a non approfondire troppo l’argomento.

L’osservazione clinica mi permette oggi di disporre di una casistica monumentale, derivata oltre che dalla mia pratica professionale, anche dal ruolo di supervisore che esercito da molti anni. Il maschio è ossessionato dal timore che l’altro (padre, figlio, amico, dipendente, superiore, analista, paziente ) abbia il pene più “grosso”. Questo sentimento è all’origine di situazioni emotive drammatiche e frustranti di adolescenti che sono terrorizzati all’idea di diversi spogliare di fronte ai coetanei in palestra, nelle docce del cam­po sportivo, in caserma e di dover constatare e rendere evidente anche agli altri l’inferio­rità del proprio organo sessuale.

Un ragazzo poco più che adolescente mi rac­contava l’umiliazione e la sofferenza provate ogni giorno quando, dopo l’allenamento in palestra, scappava a casa senza fare la doccia con i compagni e si sentiva inseguito dai motteggi, dalle allusioni sulle dimensioni o sulla mancanza del “pisello”, o dai dubbi espressi con pesantezza sulla sua eterosessualità. Era distrutto: l’insistenza di quelle aggressioni lo aveva gettato in una profonda depressione ed aveva accresciuto i dubbi, oltre che sulla inadeguatezza delle dimensioni del suo membro, anche sulla sua adeguatezza al ruolo virile.

Esiste un’altra forma di invidia del pene, molto diffusa tra i maschi nella società attuale ed è quella che si trasforma in razzismo. Le nostre città sono oggi sempre più affollate di persone provenienti da terre lontane, di colore e non; ma una sorta di semplificazione ha sintetizzato le figure di tutti questi stranieri, neri e no, nella figura del “negro”. Il nero, nella tradizione, nel romanzo, nell’arte “erotica” e nella pornografia è sempre stato dipinto come maschio eccezionalmente potente e dotato. Il bianco ha sempre invidiato e temuto, oltre che desiderato inconsciamente, questa esuberanza sessuale e di conseguenza se ne è difeso teorizzando l’inferiorità razziale del nero. Lo studio di moltissimi casi di cronaca permette però facilmente di ritrovare alle radici della aggressività più estremistica la copertura di un intenso desiderio sessuale, inconfessabile, del maschio razzista, per il maschio nero; desiderio che si maschera con la gelosia e che si esprime con l’odio, sentimenti che sono il capovolgimento dell’identificazione e della proiezione: identificazione nella figura (per lo più femminile) fantasticata come oggetto di un rapporto sessuale col nero e proiezione su di essa del proprio desiderio.

Per tornare all’influenza dell’invidia nella psicodinamica della gestazione, analizziamo brevemente come questo sentimento si concentri nei confronti di tutto l’apparato ripro­duttore della gestante: utero e vagina.

L’invidia dell’utero è quella che il maschio prova nei confronti della donna che resta incinta e che per nove mesi porta in sé una vita su cui ha il potere di controllo totale. Oggi che la maggior parte delle legislazioni occidentali riconosce la liceità dell’aborto, il maschio sente fortemente la suggestione di quella possibilità dell’esercizio del potere di vita o di morte sull’altro che viene concessa alla donna. Oltre alle fantasie sul potere di generare (nell’inconscio sociale è ancora forte la convinzione che sia la donna a generare) si aggiungono quindi le fantasie sulla capacità di dare la morte. Ciò è percepito come un potere assoluto, superiore a quello di qualunque tiranno dell’antichità, da Nerone a Gengis Khan e trae la sua origine dall’analogo potere esercitato dalle antiche Dee Madri, fantasticate assolute signore della vita e della morte, in un tempo mitico in cui si credeva che il maschio fosse escluso dal meccanismo riproduttivo e relegato al ruolo di strumento di piacere. Ancora oggi persistono riti con i quali, attraverso un simbolismo neppure troppo misterioso, il maschio cerca di appropriarsi anche delle facoltà dell’utero e della vagina e di introdursi nella dinamica del parto e della gestazione. In certe culture e popolazioni, il maschio, attraverso incisioni e manipolazioni dei propri organi genitali, si procura ferite simboliche e mette in atto vere e proprie parodie delle mestruazioni, della gestazione e del parto. Bruno Bettelheim, nel suo libro “Le ferite simboliche” (1954), dice giustamente che la psicoanalisi ha tenuto in troppo poco conto l’invidia dell’utero e della vagina – concetti che l’autore non distingue l’uno dall’altro – concentrando eccessivamente l’attenzione sull’invidia femminile del pene. Nello stesso volume riferisce di due popolazioni, una africana e l’altra australiana, in cui si impongono ai maschi in età adolescenziale riti simbolici che alludono alla gestazione e al parto. Bettelheim distingue qui tra la cultura “autoplastica” della magia nelle civiltà “primitive” e quella “alloplastica” delle civiltà evolute. Le prime cercherebbero di adattarsi al mondo agendo direttamente sul corpo, fino a renderlo idoneo ai fini preposti; le seconde invece si proporrebbero di modificare il mondo per renderlo più adatto alle esigenze dell’uomo e per questo le une resterebbero legate ad un solo livello di “civiltà”, mentre le altre progredirebbero, con l’aiuto della scienza e della tecnica, passando attraverso livelli successivi. È questo il pensiero condiviso da tutto un filone di pensatori che parte da Freud e passa attraverso sociologi e psicologi come Ferenczi, Roheim ed altri e che mette sullo stesso piano le popolazioni cosiddette primi­tive e i bambini e ad entrambi attribuisce sessualità pregenitale, animismo, magia autoplastica; caratteristiche che invece, ad una os­servazione approfondita, si rivelano comuni a tutti gli uomini e a tutte le civiltà.

Si oppone a queste semplificazioni socio-psicoanalitiche l’antropologa Mary Douglas che negli ultimi decenniha studiato anche sul campo questi problemi, ma cade anch’essa in una serie di errori interpretativi: sostiene infatti che il senso di questi riti sarebbe soltanto quello di simme­tria. I “riti di simmetria” avrebbero solo lo scopo di ristabilire un equilibrio formale tra i due ruoli, maschile e femminile. Se questo è vero, non esclude però a mio avviso l’invidia sessuale reciproca. Invidia del pene, ma anche invidia del piacere che si suppone che la donna provi, e del parto.

Per riconoscere l’altro, in qualunque cultura siamo inseriti, ci vediamo nella necessità di scardinare noi stessi. Il compito della psicoanalisi è quello, abbattendo le frasi fatte ed il senso comune, di rendere l’uomo consapevole.

Il fallo è un simbolo e attorno ad esso si è sviluppata tra i sessi una lotta che pervade la vita di ogni giorno: ciascuno vuole per sé il potere, ma anche il piacere.

Il mito racconta che Zeus e la moglie Era fossero in disaccordo sulla questione di quale dei due partner sessuali, il maschio o la femmina, godesse di più nel coito secondo il dio era la femmina. Per dirimere la questione chiesero il giudizio di un pastore: Tiresia il quale aveva avuto una straordinaria esperienza. Da giovane aveva incontrato sul suo sentiero due serpenti che si accoppiavano e, separandoli, aveva ucciso con un bastone la femmina. Gli dei lo avevano allora punito, trasformandolo in fenmmina a sua volta. Il fato volle che dopo sette anni vedesse un’altra coppia di serpenti avvinti nell’accoppiamento e questa volta uccidesse il maschio e fu restituito alla sua prima natura maschile. Era dunque il più legittimato a rispondere alla domanda. Il pastore rispose che la donna gode sette volte quanto gode l’uomo, dando ragione a Zeus. Allora, furibonda, la dea Era lo punì accecandolo. Il mito ha prodotto nell’inconscio sociale i suoi effetti, che tuttora permangono. Il maschio inoltre non si sente completamente padrone del proprio orga­no sessuale poiché percepisce che la donna gli sottrae in parte il controllo sulla sua gestione. Numerose sono le patologie sessuali che ne seguono ed anche da ciò derivano al­cuni comportamenti schizofrenici del maschio che percepisce il proprio fallo come un’altra persona. Nella nostra letteratura contemporanea questo atteggiamento è stato be­nissimo descritto da Alberto Moravia in uno dei suoi ultimi romanzi — “Lui ed Io” — dove è analizzato il conflitto psichico tra il protagonista e il suo membro.

Fantasie, rabbie, esclusioni, impotenze, frigidità sono le caratteristiche della crisi d’identità sessuale che colpiscono maschi e femmine, che pure hanno in comune il compito di portare alla vita nuovi esseri umani che saranno a loro volta maschi e femmine eredi degli stessi problemi.

Per tornare al bambino e alla gestante, ribadisco l’importanza di un atteggiamento progettuale a vantaggio del loro benessere profondo fin dall’istante del concepimento, all’interno di una coerenza assolutamente bioetica, nell’inderogabile rispetto della vita.

Psicoanalisi contro n. 7 – Il tabù del sangue

mercoledì, 1 novembre 1995

Protagonista della gestazione, insieme con l’embrione, è la donna in grado di procreare. C’è un momento culminante che, nell’inconscio sociale ed individuale, rende la fanciulla investita a pieno diritto del ruolo di donna: la comparsa del menarca, ovvero delle prime mestruazioni Intorno a questo momento la cultura e la società hanno costruito fantasie ed aspettative di diverso genere.

Il menarca è un fenomeno alla cui base stanno ragioni fisiologiche che presto però si sono caricate di significati psichici, culturali, sociali e storici che hanno assunto modalità diverse secondo le epoche e le differenti parti del globo. Il modo in cui il gruppo sociale valuta le mestruazioni condiziona significativamente il modo in cui la donna stessa le percepisce.

La letteratura antropologica ritiene che nel mondo ci siano in linea di massima tre diversi tipi di atteggiamento nei riguardi delle mestruazioni:

I)                   di indifferenza per cui non rivestono significato particolare;

II)                 di rispetto sacrale, come segno esplicito dell’ acquisizione di un potere in parte misterioso;

III)               di orrore per un avvenimento segnato in modo così clamoroso dal sangue.

È probabile che l’indifferenza non sia davvero un atteggiamento degli uomini di fronte ad un fenomeno che ha acquisito nell’inconscio e nella cultura universali un valore simbolico così accentuato: il sangue è simbolicamente significativo, sempre e per tutti. Le mestruazioni per il loro rapporto col sangue, un sangue che non coagula, sono presenti nell’immaginario collettivo, per lo più con connotazioni negative.

La sociologia e l’antropologia hanno studiato il problema da diversi punti di vista e con ricerche “sul campo”; ma ancor prima se ne erano occupati gli antichi naturalisti.

Plinio, nella sua Naturalis Historia, dice che ai suoi tempi era diffusa la convinzione che le donne durante il periodo mestruale non dovessero toccare le anfore ripiene di vino, le piante dell’orto, gli alberi da frutto e le sementi perché le une si trasformavano in aceto, e le altre si inaridivano; in quei giorni le donne erano tenute lontane dalle bestie domestiche pregne, perché non si corresse il rischio di farle abortire; era loro proibito guardarsi negli specchi che sarebbero diventati opachi; persino i rasoi si diceva che si smussassero se toccati dalla mano di una donna in quelle particolari condizioni.

Queste convinzioni o superstizioni che dir si voglia sono tuttora presenti nelle più diverse aree geografiche: in molte popolazioni australi il tabù della donna con le mestruazioni giunge a proibirle di giacere sulle stesse coperte usate dai maschi. In molte zone dell’Africa si proibisce alle donne durante il periodo mestruale di camminare sui sentieri percorsi dai maschi, di toccare le lance e gli altri strumenti di caccia; è loro proibito persino di toccare il latte, perché si caglierebbe. I piatti e le posate di cui si è servita una donna mestruata debbono essere distrutti. In alcune popolazioni indios dell’America del sud e presso alcune tribù indiane dell’America del Nord le bambine alla prima mestruazione debbono vivere in isolamento e girare a volto coperto; in alcuni casi non possono esse stesse toccare il cibo, per cui vengono nutrite da altre persone per mezzo di bastoncini.

Per restare in Europa, in Germania, per esempio, la credenza popolare vuole che se una donna mestruata tocca una pinta di birra questa vada a male. Nella Francia del sud si crede che se una donna durante il ciclo mestruale tocca le carni della macellazione queste imputridiscano. In Italia si crede che la donna durante le mestruazioni abbia il potere di far seccare le piante che tocca, di far impazzire la maionese, di far inacidire la marmellata e via dicendo. Sono credenze che rimangono fissate nell’inconscio sociale anche di coloro che le hanno razionalmente superate ed hanno radici comuni con la persistente fede nella magia che caratterizza ancora l’epoca contemporanea; tuttora il sangue mestruale entra nella composizione di molti filtri e pozioni “magiche”. L’orrore per le mestruazioni nasce forse dal fatto che sono il segnale che la donna per quel periodo non diventerà di certo madre; ma allo stesso tempo ne rendono evidente la potenziale capacità di esserlo. Il menarca è anche considerato come rito di passaggio (termine introdotto da Van Gennep): si tratterebbe infatti per la ragazza del punto di passaggio alla nuova condizione di donna, caratterizzata dalla fecondità. Di fatto la società registra nella vita individuale e di gruppo molti momenti di “passaggio”: dall’infanzia alla pubertà, da questa alla matu­rità ed infine alla vecchiaia e alla morte, ma anche il matrimonio, il servizio militare, i cicli scolastici, la laurea e il primo impiego sono tutti considerati come momenti di passaggio da una condizione ad un’altra. Il menarca ha acquistato però un valore particolare, proprio per le sue implicazioni con la possibilità di procreare e quin­di col potere che la donna acquista, di vita e di morte, su di un altro essere.

Le donne reagiscono a questo miscuglio di disprezzo e di timore con atteggiamenti psichici e fisici particolari, che sono in parte indotti e in parte invece dovuti alle modificazioni endocrine ed ai sommovimenti ormonali. Nel periodo mestruale e premestruale si registrano stati di esasperazione della situazione caratteriale: avarizia o prodigalità si accentuano, così l’aggressività o l’euforia. Particolarmente rischiose sono le situazioni depressive che si aggravano e portano spesso a fantasie di morte o a veri e propri tentativi di suicidio. Si presentano facilmente crisi patofobiche in concomitanza con sensazioni dolorose accentuate al collo, alla testa, alla schiena, al ventre. Pare strano che si abbassi così tanto il senso critico, che molte donne non si accorgano, per esempio, che il timore del cancro o dell’infarto si ripresenta loro in maniera così massiccia ogni ventotto giorni, ma è inutile farglielo presente. Questo avviene anche nelle donne più controllate e psi­chicamente solide, pertanto non è infondato pensare che ci siano cause che stanno in messaggi collegati al valore che le mestruazioni hanno al livello inconscio.

Una ragazza anoressica venne al mio studio accompagnata dai genitori spaventati da quel rifiuto del cibo così radicale e violento, che l’aveva ridotta quasi in fin di vita. Nel mettere a fuoco il caso che, come spesso avviene, aveva registrato tra l’altro l’arresto delle mestruazioni, fu possibile individuare una nevrosi ossessiva che si rivelò ben più pericolosa ed ostinata della stessa anoressia, che, come sintomo, fu relativamente facile far rientrare; ricomparvero le mestruazioni, ma il caso restava grave, nonostante la paziente e i familiari considerassero questi fatti un successo terapeutico, sufficiente ad interrompere l’analisi. Venni in seguito a sapere che la ragazza non riuscì mai più a liberarsi da una serie di rituali ossessivi che proprio nel periodo premestruale si ripresentavano con la stessa violenza che nel periodo acuto della malattia. Non fu possibile approfondire la ricerca, ma sono convinto che molto interessante sarebbe stato riuscire a scoprire l’origine di quei messaggi che all’approssimarsi del periodo mestruale paralizzavano a tal punto la vita di quella giovane donna. La paura delle mestruazioni, colorita di un sentimento di orrore, è una caratteristica maschile molto generalizzata: non solo infatti molti uomini evitano l’accoppiamento con la propria donna in quei giorni, ma cercano di evitarne la compagnia e non tollerano che se ne parli.

La psicoanalisi ha collegato l’avversione per il ciclo mestruale con il complesso di castrazione. La donna trova nella presenza del sangue la conferma dell’avvenuta evirazione ed il maschio davanti ad esso riattualizza il timore di essere a sua volta castrato. La donna sente rancore e vergogna per la mutilazione subita, l’uomo ne ha paura. Nell’inconscio femminile prevalgono allora rabbia, desiderio di rivalsa e bisogno di vendetta, soprattutto verso i genitori; in quello maschile predominano il ribrezzo e la paura verso la donna, che a volte mascherano l’invidia per l’utero e la vagina.

La donna compensa la svalutazione di cui si sente fatta oggetto per la castrazione subita, con il sentimento di onnipotenza per il potere procreativo acquisito: “Io non posseggo il fallo, ma posso avere in me un bambino.” Non è solo un meccanico volere un figlio per compensare il pene perduto, ma è anche il desiderio di recuperare un potere che si teme scomparso: quello delle antiche Dee Madri che credevano di avere da sole la capacità di generare la vita, senza il contributo del maschio.

Le donne tradiscono spesso la scelta inconscia che fa loro percepire il figlio come sostituto del pene, o come strumento di potere, ma nessuna si libera mai completamente dalle fantasie sulla castrazione.