Psicoanalisi contro n. 7 – L’invidia

novembre , 1995

La psicoanalisi classica ha costruito la sua teoria sulla sessualità femminile soprattutto basandosi sul concetto di “invidia del pene”. Il fallo è ritenuto dall’inconscio un valore ed uno strumento di potere, la donna che ne è deprivata prova l’invidia per il maschio che invece lo possiede e cerca nelle modalità diverse del rapporto sessuale ed attraverso la propria capacità procreativa di riappropriarsene. È certo un errore ritenere che la sessualità della donna si esaurisca tutta nella dinamica dell’invidia, anche se questa è presente, sempre, in tutte le donne.

L’invidia del pene o del fallo ed il desiderio di castrare il maschio non sono gli unici elementi importanti della sessualità femminile, ma entrano anch’essi in gioco, insieme a molti altri, nella psicodinamica della gestazione. Tra gli elementi in causa infatti c’è da considerare il ruolo esercitato nel rapporto tra i sessi dall’invidia del fallo e dell’utero, oltre che della vagina (sentimento questo già teorizzato dalla psicoanalisi tradizionale). Di fatto se ne è parlato finora molto poco anche perché la psicoanalisi è stata gestita in modo preponderante dai maschi: da Jung a Lacan ha avuto il suo peso la paura della castrazione che ha indotto gli psicoanalisti a non approfondire troppo l’argomento.

L’osservazione clinica mi permette oggi di disporre di una casistica monumentale, derivata oltre che dalla mia pratica professionale, anche dal ruolo di supervisore che esercito da molti anni. Il maschio è ossessionato dal timore che l’altro (padre, figlio, amico, dipendente, superiore, analista, paziente ) abbia il pene più “grosso”. Questo sentimento è all’origine di situazioni emotive drammatiche e frustranti di adolescenti che sono terrorizzati all’idea di diversi spogliare di fronte ai coetanei in palestra, nelle docce del cam­po sportivo, in caserma e di dover constatare e rendere evidente anche agli altri l’inferio­rità del proprio organo sessuale.

Un ragazzo poco più che adolescente mi rac­contava l’umiliazione e la sofferenza provate ogni giorno quando, dopo l’allenamento in palestra, scappava a casa senza fare la doccia con i compagni e si sentiva inseguito dai motteggi, dalle allusioni sulle dimensioni o sulla mancanza del “pisello”, o dai dubbi espressi con pesantezza sulla sua eterosessualità. Era distrutto: l’insistenza di quelle aggressioni lo aveva gettato in una profonda depressione ed aveva accresciuto i dubbi, oltre che sulla inadeguatezza delle dimensioni del suo membro, anche sulla sua adeguatezza al ruolo virile.

Esiste un’altra forma di invidia del pene, molto diffusa tra i maschi nella società attuale ed è quella che si trasforma in razzismo. Le nostre città sono oggi sempre più affollate di persone provenienti da terre lontane, di colore e non; ma una sorta di semplificazione ha sintetizzato le figure di tutti questi stranieri, neri e no, nella figura del “negro”. Il nero, nella tradizione, nel romanzo, nell’arte “erotica” e nella pornografia è sempre stato dipinto come maschio eccezionalmente potente e dotato. Il bianco ha sempre invidiato e temuto, oltre che desiderato inconsciamente, questa esuberanza sessuale e di conseguenza se ne è difeso teorizzando l’inferiorità razziale del nero. Lo studio di moltissimi casi di cronaca permette però facilmente di ritrovare alle radici della aggressività più estremistica la copertura di un intenso desiderio sessuale, inconfessabile, del maschio razzista, per il maschio nero; desiderio che si maschera con la gelosia e che si esprime con l’odio, sentimenti che sono il capovolgimento dell’identificazione e della proiezione: identificazione nella figura (per lo più femminile) fantasticata come oggetto di un rapporto sessuale col nero e proiezione su di essa del proprio desiderio.

Per tornare all’influenza dell’invidia nella psicodinamica della gestazione, analizziamo brevemente come questo sentimento si concentri nei confronti di tutto l’apparato ripro­duttore della gestante: utero e vagina.

L’invidia dell’utero è quella che il maschio prova nei confronti della donna che resta incinta e che per nove mesi porta in sé una vita su cui ha il potere di controllo totale. Oggi che la maggior parte delle legislazioni occidentali riconosce la liceità dell’aborto, il maschio sente fortemente la suggestione di quella possibilità dell’esercizio del potere di vita o di morte sull’altro che viene concessa alla donna. Oltre alle fantasie sul potere di generare (nell’inconscio sociale è ancora forte la convinzione che sia la donna a generare) si aggiungono quindi le fantasie sulla capacità di dare la morte. Ciò è percepito come un potere assoluto, superiore a quello di qualunque tiranno dell’antichità, da Nerone a Gengis Khan e trae la sua origine dall’analogo potere esercitato dalle antiche Dee Madri, fantasticate assolute signore della vita e della morte, in un tempo mitico in cui si credeva che il maschio fosse escluso dal meccanismo riproduttivo e relegato al ruolo di strumento di piacere. Ancora oggi persistono riti con i quali, attraverso un simbolismo neppure troppo misterioso, il maschio cerca di appropriarsi anche delle facoltà dell’utero e della vagina e di introdursi nella dinamica del parto e della gestazione. In certe culture e popolazioni, il maschio, attraverso incisioni e manipolazioni dei propri organi genitali, si procura ferite simboliche e mette in atto vere e proprie parodie delle mestruazioni, della gestazione e del parto. Bruno Bettelheim, nel suo libro “Le ferite simboliche” (1954), dice giustamente che la psicoanalisi ha tenuto in troppo poco conto l’invidia dell’utero e della vagina – concetti che l’autore non distingue l’uno dall’altro – concentrando eccessivamente l’attenzione sull’invidia femminile del pene. Nello stesso volume riferisce di due popolazioni, una africana e l’altra australiana, in cui si impongono ai maschi in età adolescenziale riti simbolici che alludono alla gestazione e al parto. Bettelheim distingue qui tra la cultura “autoplastica” della magia nelle civiltà “primitive” e quella “alloplastica” delle civiltà evolute. Le prime cercherebbero di adattarsi al mondo agendo direttamente sul corpo, fino a renderlo idoneo ai fini preposti; le seconde invece si proporrebbero di modificare il mondo per renderlo più adatto alle esigenze dell’uomo e per questo le une resterebbero legate ad un solo livello di “civiltà”, mentre le altre progredirebbero, con l’aiuto della scienza e della tecnica, passando attraverso livelli successivi. È questo il pensiero condiviso da tutto un filone di pensatori che parte da Freud e passa attraverso sociologi e psicologi come Ferenczi, Roheim ed altri e che mette sullo stesso piano le popolazioni cosiddette primi­tive e i bambini e ad entrambi attribuisce sessualità pregenitale, animismo, magia autoplastica; caratteristiche che invece, ad una os­servazione approfondita, si rivelano comuni a tutti gli uomini e a tutte le civiltà.

Si oppone a queste semplificazioni socio-psicoanalitiche l’antropologa Mary Douglas che negli ultimi decenniha studiato anche sul campo questi problemi, ma cade anch’essa in una serie di errori interpretativi: sostiene infatti che il senso di questi riti sarebbe soltanto quello di simme­tria. I “riti di simmetria” avrebbero solo lo scopo di ristabilire un equilibrio formale tra i due ruoli, maschile e femminile. Se questo è vero, non esclude però a mio avviso l’invidia sessuale reciproca. Invidia del pene, ma anche invidia del piacere che si suppone che la donna provi, e del parto.

Per riconoscere l’altro, in qualunque cultura siamo inseriti, ci vediamo nella necessità di scardinare noi stessi. Il compito della psicoanalisi è quello, abbattendo le frasi fatte ed il senso comune, di rendere l’uomo consapevole.

Il fallo è un simbolo e attorno ad esso si è sviluppata tra i sessi una lotta che pervade la vita di ogni giorno: ciascuno vuole per sé il potere, ma anche il piacere.

Il mito racconta che Zeus e la moglie Era fossero in disaccordo sulla questione di quale dei due partner sessuali, il maschio o la femmina, godesse di più nel coito secondo il dio era la femmina. Per dirimere la questione chiesero il giudizio di un pastore: Tiresia il quale aveva avuto una straordinaria esperienza. Da giovane aveva incontrato sul suo sentiero due serpenti che si accoppiavano e, separandoli, aveva ucciso con un bastone la femmina. Gli dei lo avevano allora punito, trasformandolo in fenmmina a sua volta. Il fato volle che dopo sette anni vedesse un’altra coppia di serpenti avvinti nell’accoppiamento e questa volta uccidesse il maschio e fu restituito alla sua prima natura maschile. Era dunque il più legittimato a rispondere alla domanda. Il pastore rispose che la donna gode sette volte quanto gode l’uomo, dando ragione a Zeus. Allora, furibonda, la dea Era lo punì accecandolo. Il mito ha prodotto nell’inconscio sociale i suoi effetti, che tuttora permangono. Il maschio inoltre non si sente completamente padrone del proprio orga­no sessuale poiché percepisce che la donna gli sottrae in parte il controllo sulla sua gestione. Numerose sono le patologie sessuali che ne seguono ed anche da ciò derivano al­cuni comportamenti schizofrenici del maschio che percepisce il proprio fallo come un’altra persona. Nella nostra letteratura contemporanea questo atteggiamento è stato be­nissimo descritto da Alberto Moravia in uno dei suoi ultimi romanzi — “Lui ed Io” — dove è analizzato il conflitto psichico tra il protagonista e il suo membro.

Fantasie, rabbie, esclusioni, impotenze, frigidità sono le caratteristiche della crisi d’identità sessuale che colpiscono maschi e femmine, che pure hanno in comune il compito di portare alla vita nuovi esseri umani che saranno a loro volta maschi e femmine eredi degli stessi problemi.

Per tornare al bambino e alla gestante, ribadisco l’importanza di un atteggiamento progettuale a vantaggio del loro benessere profondo fin dall’istante del concepimento, all’interno di una coerenza assolutamente bioetica, nell’inderogabile rispetto della vita.