Psicoanalisi contro n. 7 – La nuova vita

novembre , 1995

Subito dopo il concepimento, l’embrio­ne è già un individuo capace di perce­pire, attraverso i propri organi recettori, le qualità della vita e dell’ambiente di cui ha esperienza e di operare le scelte che ritie­ne più adeguate a garantirgli la sopravviven­za. Al secondo mese di gravidanza è già pos­sibile vedere abbozzati gli organi principali, al terzo mese gli organi di senso entrano in funzione: prima l’odorato, il gusto e poi il tat­to, l’udito ed infine, poco dopo, la vista. Usando questi sensi il bambino mette in fun­zione anche le sue capacità di apprendimen­to, ben prima di quanto vorrebbe la teoria di Piaget. I cosiddetti movimenti automatici od istintivi sono in verità veri e propri processi di apprendimento che sono programmati al raggiungimento di un fine attraverso moda­lità ben precise.

Fu proprio un nipote di Sigmund Freud, di nome William che a Toronto portò gli esiti di una approfondita ricerca fatta da lui e dalla sua équipe su un campione di diecimila gra­vidanze per cui era possibile dimostrare come fosse spiccata l’intenzionalità dei mo­vimenti del feto e quanto fosse ricca la sua vita intrauterina: non solo infatti si era potu­to accertare che sogna, grazie alla rileva­zione dei due tipi di sonno REM e non REM, ma anche si erano visti due ge­melli interagire con una specie di gioco-lotta, feti farsi schermo contro luci vio­lente e reagire a rumori, tutti gesti che pro­vano l’alto grado di evoluzione dello psichi­smo fetale e se ne può dedurre quindi, mal­grado il parere contrario di Freud, anche del­la formazione pre-natale di uno psichismo in­conscio.

Per questo, la gestante è responsabile nei con­fronti del figlio della qualità della vita che sceglie per sé: non solo fumare e bere e non seguire ordinate regole alimentari nuoce al bambino, ma anche fargli sentire musica vio­lenta (le gestanti che ascoltano troppa musi­ca rock danno alla luce bambini ansiosi, men­tre pare che la musica classica e di Mozart in specie giovino alla tranquillità psichica del feto e del bambino). Certo, ipotizzare sulle origine della vita psichica è difficile come lo fu fare ipotesi sulle origini del Nilo nel seco­lo scorso; ma ciò non toglie che quelle sor­genti ci fossero; proprio come è indubbio che lo psichismo del bambino inizi col concepi­mento.

“Tu partorirai nel dolore!” Suona la condan­na della donna nell’Antico Testamento e l’eco ancora perdura nell’inconscio sociale di uomini e donne, influenzando anche il modo in cui la donna si prepara al travaglio e al parto. Su ogni donna pesa poi in parti­colare il ricordo del modo in cui è sta­ta a sua volta partorita.

In genere, il travaglio inizia quando la donna è ancora nella propria casa, in condizioni di relativa normalità; dopo le prime contrazioni viene in genere trasferita in ospedale, dove sarà portata nella sala parto pochi minuti o poche ore prima di sgravare. È questo tempo un continuum fatto di attacchi di contrazioni e sospensioni, ripresa e nuova scomparsa, in un ritmo che diventa sempre più intenso fino all’acme finale in cui il corpo della donna su­bisce sommovimenti che la sconvolgono fi­nendo con l’avere pure grosse valenze psi­chiche oltre che fisiologiche, e questo avvie­ne anche quando il travaglio ha un andamen­to considerato “normale”.

È importante che coloro i quali partecipano al parto abbiano considerazione anche di quello che emotivamente esso significa per la partoriente.

Anzitutto quella del parto è un’esperienza di separazione: la donna avverte questa realtà come traumatica, perché la cultura e il senso comune hanno da sempre enfatizzato questo aspetto che ora si verifica e la riempie di an­sia. Legata al senso di separazione c’è poi la fantasia di castrazione: avverte fin dalle pri­me contrazioni dolorose che le verrà strappa­to quel bambino-pene che ha tra le gambe.

Quando quest’ansia prevale, la partoriente può reagire in due modi: 1) bloccando le con­trazioni, almeno quel tanto che le permette di elaborare l’ansia e di affrontare con più con­sapevolezza il parto; se questo recupero non avviene però il rischio è grave per la madre che potrebbe negare il parto anche quando questo sarà avvenuto; 2) oppure negando co­scientemente le contrazioni, ma non riuscen­do ad impedirle, col risultato di rischiare una sindrome schizogena che può avere conse­guenze serie sulla creatura partorita oltre che sulla dinamica del parto che in genere si svol­ge con una grande drammaticità che coinvol­ge i famigliari e l’équipe di ostetricia. Non sono pochi gli schizofrenici che nel delirio ri­petono alla madre: “Tu non sei mia madre, lei è morta durante il parto, tu chi sei?”

Sempre è grande, durante i momenti di maggior eccitazione del parto, la con­fusione della donna tra se stessa, il fi­glio, la propria madre, il pene e le feci.

La ricorrente fantasia del parto anale che si riscontra sia nei maschi sia nelle femmine, soprattutto nell’infanzia, torna qui con gran­de vividezza influenzando la percezione che la partoriente ha del parto, al quale tra l’al­tro, si accompgnano in genere fenomeni di evacuazione delle feci.

La scissione, la separazione, la castrazione, il parto anale, la paura della morte sono conte­nuti psichici sconvolgenti concentrati in uno stesso spazio temporale ed emotivo ed indu­cono un altro terribile sentimento: l’odio per il figlio che si sta portando alla luce. La par­toriente dice: basta! a questo figlio assassino che pare volerla punire anche per aver pro­vato il piacere sessuale. È vero che sempre nel parto si raggiunge un punto di odio e di aggressività tale che si desidera far morire colui che sta nascendo. Questi sono però i co­rollari inevitabili di una situazione storico- culturale che è stata condizionata in modo ne­gativo dall’opinione che l’inconscio sociale ha sviluppato del ruolo del maschio della femmina e della loro sessualità.

Non si può neanche però tacere che nel par­to stesso molti hanno fantasticato di ritrova­re le tracce di un intenso piacere sessuale; questo pur senza voler fare proprie le teorie un po’ deliranti di Groddeck (1961) che ad­dirittura pretenderebbe che per la donna quel­lo del parto sia il momento dell’esperienza del massimo piacere sessuale.

La psicoanalisi purtroppo non ha fatto finora quanto potrebbe fare, non solo per il purita­nesimo e il fallo-centrismo di Freud, ma an­che perché ha avuto paura di andare a cerca­re le vere origini di quei movimenti psicodi­namici che spingono l’individuo e le società ad operare le loro scelte.

È importante con una vera. e propria rivoluzione copernicana capovolgere alcuni concetti finora considerati fondamentali. Per prima cosa bisogna considerare il parto solo come l’atto finale della gestazione e non il momento della nascita dell’individuo. L’uomo nasce nell’istante del concepimento, quando cioè lo spermatozoo penetra nell’ovulo e lo feconda. Tutto comincia di qui e persino gli astrologi che vogliono predire il destino umano dovrebbero consultare la posizione degli astri al concepimento e non al momento della nasci­ta anagrafica. Poi bisogna che la donna ac­cetti che il frutto del concepimento che ospi­ta nell’utero sia un essere autonomo con la pienezza dei diritti individuali, che in quanto madre ha il dovere di assicurare ad ogni co­sto, persino accettando di perdere il diritto di proprietà sull’utero stesso. ” Il corpo è mio e lo gestisco io” vale solo in assenza di gravi­danza, quando invece il diritto alla vita del feto deve prevalere su ogni altra considera­zione. Per banalizzare il concetto si potrebbe dire che vale per la gestante quello che vale per un padrone di casa che l’abbia ceduta in affitto: non ne perde la proprietà, ma il dirit­to alla vita, all’indipendenza ed autonomia dell’inquilino gli impedisce di disporne fin­ché vige il rapporto di locazione. Lo stupro è la più sciagurata delle circostanze in cui un figlio può essere concepito, ma se la madre ha il diritto di non amarlo e non accudirlo dopo la nascita, la società ha il dovere di as­sisterla perché porti a termine il più felice­mente possibile la gravidanza, proteggendo­lo anche dall’odio ed assicurandogli le con­dizioni migliori di vita, con o senza la madre naturale, dopo il parto. “Tu partorirai nel do­lore” resta vero perché la vita è anche dolo­re, ma l’accettazione della vita nella pienez­za dei suoi diritti fin dal concepimento è il solo modo di alleviare questo dolore, accom­pagnando un essere umano fino alla soglia di luce oltre la quale avrà prima o poi la possi­bilità di percorrere da solo il resto del suo cammino. È importante che il bambino non sia lasciato solo e la prima che ha il dovere di assistenza e compagnia è la madre, poi toc­cherà alla società assumersi le inevitabili re­sponsabilità: finora purtroppo non l’ha fatto, nemmeno dopo le conquiste della psicoana­lisi, che ha fatto l’errore di ignorare che il concepimento di un nuovo essere umano è, prima di tutto, un atto sacro.