Psicoanalisi contro n. 7 – Il complesso di Hans

novembre , 1995

Non è quindi infondato l’interesse che la psicoanalisi odierna dimostra per i due protagonisti principali della gestazione: il bambino e la madre, poiché le dinamiche inconscie di entrambi e la loro reciproca influenza determinano in parte e comunque condizionano lo sviluppo del futuro indivi­duo. Il lavoro psicoanalitico è sempre stato soggetto a critiche nello svolgersi della sto­ria: nazifascismo e comunismo lo hanno avversato, la chiesa e la morale borghese giu­dicano immorale la psicoanalisi, non per nulla già lo stesso Freud, consapevole dell’ef­fetto devastante della scienza da lui fondata, festeggiato al suo arrivo in America, ebbe oc­casione di dire a chi gli era vicino: ” Non san­no che siamo venuti a portare la peste”. La psicoanalisi è stata anche avversata dalla scienza positivista e dai suoi eredi e solo in tempi recenti è riuscita a dimostrare la fon­datezza scientifica del proprio metodo e del­le proprie teorie, così affini a quelli della fi­sica sub-atomica. L’analisi del transfert non è meno oggettiva, per esempio, dell’osserva­zione di un’ecografia e lo stesso vale per le dinamiche inconscie che si basano su feno­meni quali la proiezione, l’identificazione, la rimozione e via dicendo, la cui oggetti­vità risulta evidente dagli esiti della vita inter-relazionale degli individui e dei gruppi.

È anche importante che la psicoanalisi ab­bandoni l’ostracismo agli psicofarmaci, ma ne ammetta l’utilità, purché gestiti all’inter­no di una visione psicodinamica dell’indivi­duo e delle modificazioni che può subire, e non ripeta l’errore della vecchia psichiatria, somministratrice di sostanze di cui non co­nosceva la natura e l’effetto, al di fuori di ogni progetto unitario sulla persona i cui sin­tomi si volevano eliminare.

L’importante è mantenere costantemente una visione dinamica, diacronica e sincronica, dell’inconscio e non restare fermi a poche formule stereotipe; fossero anche fondamentali come il complesso di Edipo, per esempio, che deve invece ogni volta essere riconsiderato in rapporto alla realtà del gruppo sociale e non riportato acriticamente allo schema borghese mitteleuropeo per cui è stato teorizzato. Ci sono stati grandi antropologi che, come Malinowski, hanno contestato l’universalità del complesso edipico ed altri che, come Levi Strauss, l’hanno ribadita; di volta in volta rifacendosi all’ipotesi freudiana dell’orda primitiva, oppure rifacendosi ad altre teorie filogenetiche o culturalistiche; come ha fatto anche Jung il quale ha inoltre cercato di colmare la mancanza di simmetria tra i termini maschile e femminile della questione — evidente in Freud — teorizzando, per la bambina, il complesso di Elettra, ispirato al ciclo gre­co della classicità tragica.

Mi sono deliberatamente soffermato sul­l’esempio del complesso di Edipo, perché il rapporto relazionale tra il bambino, la madre che ha l’ onere della gestazione ed il padre che ha avuto un ruolo così importante nell’atto del concepimento resta uno snodo cruciale nella formazione della realtà psicodinamica dell’individuo.

Lasciando da parte la versione freudiana che io preferisco chiamare complesso di Hans, bambino austriaco di fine del secolo scorso, mi pare di poter registrare oggi tre aspetti del complesso di Edipo: quello freudiano basato esclusivamente sulla sessualità; quello jun­ghiano di Edipo ed Elettra che per lo psicoa­nalista di Zurigo è centrato più che sul sesso sull’istinto di sopravvivenza legato al cibo, di cui la madre è dispensatrice sia per il figlio sia per la figlia; il terzo aspetto è quello che io fondo sul bisogno primario d’amore, che precede lo stesso istinto di sopravvivenza. Almeno nelle prime due accezioni, diventa fondamentale il problema affettivo e sessua­le che risveglia immediatamente la paura dell’incesto presente, in quasi tutte le società della terra di tutti i tempi, anche se la pratica quotidiana testimonia in realtà un fitto con­tatto di tipo para-sessuale tra adulti e bambi­ni che solo l’ipocrisia dominante finge di non vedere. Ad ogni modo andrebbe detto una volta per tutte che la paura dell’incesto è pro­pria degli adulti e non lo è dei bambini. Freud fa risalire il complesso edipico alla pri­missima infanzia, la Klein sostiene addirittu­ra che risalga ai primissimi istanti di vita, Jung lo colloca in un’infanzia in cui agisco­no gli archetipi; nessuno parla del periodo prenatale. Qui sta l’errore più grande: infatti lo zigote, l’embrione e il feto entrano subito in un rapporto affettivo con l’utero che li con­tiene e dal quale si vedono porre le condizioni di una più o meno felice sopravvivenza, che subito reclama una sua autonomia. Il maschio o la femmina, dopo il parto, esprimono anche le scelte che nella vita prenatale hanno matu­rato e che li spingeranno ad amare oppure a odiare la madre, a fantasticare sulla propria identità sessuale.

Il gruppo sociale e l’ambiente condizione­ranno da quel punto in avanti la vita dell’in­dividuo, agendo non già su una tabula rasa, ma su di una psiche formatasi da almeno nove mesi e concepita già ricca di messaggi genetici.