Archivio di dicembre 1992

Psicoanalisi contro n. 84 – Io e la bambina

martedì, 1 dicembre 1992

Io non rispondo quasi mai personalmente per primo al telefono che trilla in casa mia, ma quel giorno non ricordo perché fui io ad alzare il ricevitore: sentii la voce di un uomo non più giovane, una voce angosciata e rassegnata che mi chiese un colloquio. Dopo qualche giorno me lo trovai davanti nel mio studio. Provai per lui un immediato sentimento di simpatia, mi imposi però di sospendere il giudizio e di rimanere in un atteggiamento di massima neutralità. Percepivo i suoi occhi che mi scrutavano e sentivo quasi il suo sguardo pesare sulla mia persona. Era un padre come tanti: un padre disperato. Era rimasto vedovo da alcuni anni e viveva da allora con la sua unica figlia, la quale subito dopo la morte della madre aveva incominciato a tenere strani comportamenti: aveva preso l’abitudine di non rientrare a casa la notte, eppure aveva solo sedici anni a quel tempo. Poi erano iniziati preoccupanti sintomi: aveva sempre la bocca impastata, l’occhio spento, passava intere giornate a dormire; non andava neppure più a scuola dove peraltro: «era sempre stata così brava…» A un certo punto egli aveva capito che anche nella sua famiglia era entrato un problema di droga. Dagli spinelli era passata chissà quando alla cocaina e poi all’eroina, che alternava «allegramente» con potenti psicofarmaci associati con alcool più o meno etilico, vinacci da osteria e super-alcoolici di tutte le provenienze. Era diventata sboccata e volgare; stava diventando persino brutta: «lei che era sempre stata così bella.» Aveva preso l’abitudine di rubare regolarmente denaro in casa: il padre taceva sbigottito. Talvolta avvenivano scenate di pianto in cui lei lo abbracciava, gli chiedeva perdono, gli prometteva che non lo avrebbe fatto mai più, che avrebbe incominciato una vita nuova e diversa: «Dammi ancora questi ultimi soldi; mi faccio l’ultima ’storia’ e poi chiudo.» Egli, pur sapendo che non era vero, le dava altri soldi e tutto riprendeva come prima coi pianti le auto-accuse, gli insulti a lui e a se stessa. «Lo so che la mia bambina non è cattiva, ma è caduta in un ambiente che non perdona. Prima, quando tornavo a casa dall’ufficio passavo in una piazzetta, dove vedevo le ombre dei drogati aggirarsi, angosciate ed angoscianti; mi capitava di riflettere su quel mondo tremendo che mi pareva di intravedere. Ed adesso la mia bambina c’è finita in mezzo. È perduta la mia bambina. lo cercherò però sempre di fare il possibile…» Seguitarono i nostri incontri e poco a poco fui partecipe del suo tremendo calvario culminato con la malattia e la morte della moglie e non ancora finito. Mi parlò della sua infanzia, dei suoi sogni di ragazzo di campagna, del suo destino di impiegato in un pubblico ufficio. Parlava inarrestabile e dovevo quasi essere autoritario per porre fine alle singole sedute. Era stanco, ma non perdeva la speranza di recuperare la sua bambina bella ed intelligente, che ora era troppo lontana da lui e che lo cercava solo quando era disperata e gettandoglisi tra le braccia e piangendo gli chiedeva centomila lire per l’ultima, ultima storia, prima di smettere. Un giorno mi disse che la sua «bambina» aveva letto da qualche parte un articolo mio e gli aveva detto che ad «uno come quello» avrebbe anche potuto andare a parlare: «Chissà forse è meno idiota degli altri, anche se non mi faccio illusioni, lo so come sono questi psicoanalisti, tutti stupidamente per bene. Ma ora sto troppo male e voglio uscirne. Prendimi un appuntamento, papà, ma fai presto.» Il padre si affrettò ad ottenere il colloquio per la sua «bambina».

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La ragazza che mi trovai davanti faceva letteralmente schifo: brutta di una bruttezza interiore che cancellava quello che restava di una giovane ventenne abbastanza graziosa. Era vestita di stracci e adorna di pendaglietti, nello stile dell’epoca e di certi ambienti. Il suo profumo era un miscuglio di costoso profumo francese, di orina e di morte. Non mi parlò con la bocca impastata, ma mi aggredì con un piglio altero e strafottente. Mi si rivolse subito con il «tu». Io, imperterrito mi attenni al «lei». La cosa la disorientò: «Perché mi dai del lei?» Le risposi che nessuno l’aveva autorizzata a rivolgermi il tu. Sapevo di risultare scostante ed antipatico, ma volevo ottenere proprio quello. «Io ti…1e ho dato del tu perché è più intimo, più amichevole.» Le risposi che non intendevo essere un suo intimo amico. Si imbarazzò ancora, prese a giocherellare coi suoi pendaglietti : «Mio padre mi ha detto…che avrei trovato un amico.» Le replicai che io ero amico di suo padre, che per amor suo mi ero deciso a concedere quel colloquio per ottenere il quale lei aveva tanto insistito. «Adesso lei mi ha fatto vergognare…scusi…» Era un buon inizio, le dissi: «Bene ora possiamo anche darci il tu.» Le feci con tono calmo alcune domande alle quali rispose. Cercai di non affrontare il problema principale per cui era venuta da me; mi limitai a domandarle cose sulla sua infanzia, sulle sue amicizie, sulle sue abitudini alimentari e sui suoi gusti musicali. Per fortuna il colloquio finì prima che mancassero gli argomenti di conversazione. Tornò, come le avevo detto, dopo alcuni giorni e la cosa mi stupì un poco perché non ero proprio certo che l’avrebbe fatto. Aveva lo stesso spavaldo atteggiamento del primo incontro; ma ormai sapevo che l’avevo in pugno. Nel mio cuore c’era però un fondo di malinconia. In quei giorni mi stavo domandando se avesse senso continuare in un lavoro come quello terapeutico in cui così spesso l’unica modalità di rapporto è la contrapposizione violenta. Nei momenti di ottimismo mi dicevo che così va il mondo e io non potevo pretendere di cambiare pazienti e terapeuti, bastava che riuscissimo a metterci un po’ di amore.

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Iniziò un lavoro di analisi vero e proprio: lei ostentava un atteggiamento di grande correttezza ed io sornione le tenevo il gioco. Lei non voleva dirmi la verità, ma neppure voleva mentire. Come tutti i perfetti bugiardi mentiva dicendo altro. Questo «altro» è in questi casi quasi sempre vero, ma l’astuzia di chi mente sta nel non dire la sola verità che dovrebbe in quel momento essere detta. Mi parlava della sua infanzia, dei giochi sessuali coi cuginetti; di una cattivissima suora vestita di blu che, da allora, le aveva fatto odiare quel colore. Qui si lanciò in uno sproloquio contro la Chiesa, i preti e, soprattutto, le suore che «sono donne cattivissime» adepte del demonio messe sulla terra per tormentare povere fanciulle indifese fino a farle diventare pazze. Affermava che i suoi problemi attuali derivavano tutti da quell’esperienza negativa con quella suora «che aveva una voce nasale e che la domenica in chiesa cantava, ‘arrovesciando’ la testa all’indietro fino a mostrare il bianco degli occhi. Parlava di Gesù e del suo amore, ma era cattiva in un modo furioso.» La bambina cercava amore e la suoraccia le torceva le orecchie dicendole che doveva soffrire per amore di Gesù. Quella bambina era davvero eccezionalmente intelligente, arguta e anche piena di poesia, e ora in lei nel ricordo di quello che era stata affioravano tracce della salute perduta. Arrivò il giorno in cui decise di offrirmi in dono la cosa che lei credeva io ambissi di più: con sussiego retorico mi parlò della morte della madre. Era stata per lei un’esperienza certo dolorosa e traumatica, però quella «bambina» era solo apparentemente disperata mentre rievocava quei momenti terribili tra lacrime e singhiozzi. In realtà era pochissimo sincera, non provava le emozioni che recitava davanti a me per aver il mio plauso solidale, la mia approvazione, la mia riconoscenza e la mia soddisfazione per averla capita fin da subito. Nella mia testa c’era tutto quello, insieme con la constatazione di quanta perfidia sapesse racchiudere in sé una creatura. Tacevo.

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Il mio silenzio incominciava a pesarle troppo: mi raccontava sogni e se li interpretava dopo aver fatto lunghi giri di associazioni e bisogna dire che le sue interpretazioni non erano del tutto incongrue. Era veramente una «bambina» intelligente. La psicoanalisi, si sa, è una scienza così precisa che la può inventare e scoprire chiunque abbia un minimo di intelligenza e direi anche di cattiveria. Per andare oltre la psicoanalisi bisogna aggiungere a queste due prerogative quella di saper anche essere buoni. In quella «bambina» non c’era bontà. O meglio: era stata talmente soffocata da non riuscire più a trovare spazio.
I giorni passavano e la ragazza si inaridiva sempre più, in un rattrappimento interiore che la rinsecchiva fisicamente e la rendeva sempre più rabbiosa. Un giorno mi confessò di provare un grandissimo odio per tutto e per tutti, per se stessa, anzitutto, divenuta così orribile, bugiarda e meschina; per il padre che sentiva uguale a lei. Le obiettai che suo padre non era né meschino né bugiardo e poi mi morsi le labbra per riuscire a non parlare più. Mi guardò con aria trionfante: era riuscita ad aprire una breccia nel mio silenzio. Mi rammaricai di aver compiuto un passo falso. Dovetti insistere con un mutismo ancora più marcato e pesante, ci riuscii quel tanto che bastò a farle dimenticare quella mia debolezza di un momento, lasciandola sola ad annaspare con le sue parole. Un giorno minacciò di interrompere le sedute se io avessi continuato a tacere. Volli insistere fino a portarla all’esasperazione. Sapevo che era un gioco duro e molto rischioso, ma dovevo tentare. La «bambina» continuava a «farsi» di eroina, aveva le braccia ridotte in modo pietoso per tutti gli aghi con cui si bucava. Continuava ad ingoiare manciate di pillole associate ad alcool di cattiva qualità. Quando riusciva a venire in seduta sobria, era trionfante, più spesso arrivava disfatta e maleodorante. Sempre col suo carico di odio così denso che faticavo a non lasciarmi coinvolgere; riuscivo a mantenere il controllo della situazione, ma a prezzo di grandi sofferenze.

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Era un pomeriggio di primo autunno, nel cielo grigiastro si rincorreva il rotolio dei tuoni, poi iniziarono i goccioloni prima radi e grossi poi sempre più fitti; l’acquazzone si sfogava fuori dei vetri dello studio, mentre la «bambina» taceva immobile, sdraiata sul divano, giocando coi suoi vestiti di stracci e i suoi pendaglietti. Mi stavo quasi assopendo… lei se ne andò furiosa. Sapevo che avrebbe potuto non tornare, ma ormai ogni seduta era una scommessa. Invece ritornò: ancora più cattiva e rabbiosa del solito. Mi raccontò una storia inverosimile, ma disperatamente vera, io lo sapevo: aveva sentito il bisogno di eroina ed era andata a cercarla in una casa dove abitavano quattro ragazzi del sud; non sapeva se fossero belli o brutti, sapeva solo che era andata con tutti e quattro, si era lasciata possedere come loro avevano voluto, con brutalità, con dolcezza, con allegria, con simpatia. Mi descrisse i quattro rapporti con gusto rabbioso. Io continuavo imperterrito a tacere sapendo che solo così sarei riuscito a farle dire quello che volevo mi dicesse; se glielo avessi domandato direttamente si sarebbe invece fatta rincorrere ed io non volevo. Mi disse che non aveva preso nessuna precauzione né contro eventuali contagi e neppure contro i rischi di gravidanza: «Erano tutti e quattro abbronzati, ma avevano lo ’stacco’ del costume, e lì erano di un biancastro schifoso; non ho goduto neanche una volta, ma l’eroina dopo me l’hanno data. Se adesso rimarrò incinta…- tacque un momento, poi aggiunse, sfidandomi – …abortirò.» Riuscii a non romper la consegna del silenzio che mi ero imposto e allora fu lei a sbottare e urlando mi gridò in faccia: «Ma tu sei contro l’aborto, tutti lo sanno.» Risposi: «Sono contro l’aborto, e allora?» «Come, allora? Io sono una tua paziente!» Le replicai: «Tu sei un’assassina.»

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Sospendiamo qui il racconto di un lavoro che continua ad impegnare molto sia me sia la «bambina» e passiamo a qualche possibile riflessione in merito. Con che diritto un essere umano può, per odio, in ossequio a sue fantasie, per superficialità, per idiozia, giocare con la vita degli altri? Io so che, talvolta, una donna può restare ingravidata per «disgrazia». Ad esempio una violenza sessuale, uno stupro non sono accettabili facilmente. Ma a quella «bambina» chi aveva rilasciato la licenza di uccidere? Bisognava consentirglielo in nome di quel suo padre disperato che continuava a chiamarla la sua «bambina»? Non è più una bambina, e pure si permette di coltivare in grembo la sua possibilità di uccidere. La società deve assistere inerte al verificarsi di tanti potenziali omicidi? Perché allora non si stabilisce che sia giusto uccidere tutti quei neri condannati a crescere in ghetti di miseria, malattia e disperazione? Perché non uccidere i bimbi che in India si rotolano nel fango, abbracciandosi e mordendosi l’un l’altro non si sa, se per amore o per follia; perché rispettare quelle forme così infime di vita? Gli uni e gli altri non hanno speranze, non c’è per loro possibilità di un mondo migliore, perché mentiamo spudoratamente quando diciamo che tutti hanno diritto ad una vita dignitosa mentre sappiamo benissimo che al massimo un pugno di riso consentirà loro di prolungare di poco un’agonia in condizioni disumane. Eppure ciascuno di noi si sentirebbe un assassino se con un gesto mettesse fine ad una sola di quelle vite. Perché invece viene considerato un gesto umanitario e di valore sociale la soppressione di piccoli embrioni palpitanti e vivi? Perché quella ragazza può tranquillamente dire: «Abortirò.» sapendo che le strutture pubbliche l’accoglieranno con materna sollecitudine e l’aiuteranno a perpetrare il suo omicidio? Sadicamente provo una specie di soddisfazione, come di fronte a una giustizia dovuta, quando penso che in realtà nessuna donna è davvero passata con indifferenza attraverso un’esperienza di aborto. Prima o poi la disperazione, l’angoscia, il bisogno di auto-punirsi vengono a galla, ma non è il mio sadismo un buon sentimento, forse è migliore la speranza che attraverso la consapevolezza che viene dal dolore, quei gesti che offendono due vite in una volta sola si diradino fino a scomparire.

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Perché dare invece a donne disperate per ragioni anche più gravi l’errata convinzione di avere acquisito il diritto di uccidere e il presunto privilegio dell’impunità? Io e i miei collaboratori crediamo nell’utilità di mettere subito quelle donne di fronte alle loro responsabilità; non solo: cerchiamo anche di coinvolgere quei maschi troppo vigliacchi che si trasformano in eunuchi compiacenti che cinguettando sbandierano parole come diritto, sì all’auto-determinazione o alla libertà sessuale, lavandosi le mani di un gesto in cui sono c coinvolti non meno delle loro donne. Non lascerò in pace le donne e gli uomini che credono di avere maturato il diritto di uccidere come un diritto civile. Vorrei coi miei compagni svolgere un’opera che considero di primario valore sociale, morale e politico, a favore della contraccezione. Stranamente i condizionamenti culturali sono tali che oggi è più facile liberare dal rimorso per un aborto che indurre in uomini e donne il principio di una concezione della sessualità libera dalla paura e affrancata dall’ipoteca del delitto contro la vita. Oggi qualche effetto di riflessione sui comportamenti sessuali lo ha avuto la campagna di prevenzione dal contagio contro le malattie veneree, soprattutto grazie al deterrente potere della possibile trasmissione per via eterosessuale del virus HIV e del conseguente rischio di sviluppare l’AIDS. Il profilattico è diventato un argomento di cui si parla con una certa disinvoltura e uno strumento di cui si cerca di promuovere l’uso. Noi speriamo che la cultura della prevenzione e della contraccezione possa ancora svilupparsi evitando così il contagio che può portare alla morte ed evitando anche l’occasione di generare una vita verso la quale non ci si vuole sentire responsabili, fino ad ipotizzarne la soppressione. Non basta ovviamente una semplice «cultura del preservativo» per generare una nuova coscienza sessuale. Mantegazza, lo stupido sessuologo d’un tempo sosteneva che il preservativo fosse una corazza contro il piacere e una ragnatela contro il pericolo. Io non penso che sia così, ma ritengo che ci siano metodi anticoncezionali accettabili, che non si riducono al solo uso del profilattico ed allo stesso tempo permettono una gestione della sessualità sganciata dalla possibilità della procreazione. Evitando così situazioni di sofferenza per tutti i potenziali genitori: padri e o madri assassini, e figli morti e ammazzati. Gli esseri umani debbono nascere in seguito ad un gesto intenzionale, libero e volontario di amore. È un ‘affermazione banale, ma nella cui assoluta verità io credo, tanto che mi sento in dovere di diffonderla. La verità è spesso ambigua, ma in casi come questo è la massima espressione di chiarezza.

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Se però gli esseri umani sono destinati a nascere in una situazione così disperata e disperante, in bilico tra d la vita e la morte, sempre davanti ad alternative che non sono scelte reali, figli non voluti di padri e madri che prima dell’incidente della loro nascita hanno soppresso più volte vite da loro stessi generate, che futuro possono avere? Cosa ha deciso in loro favore e contro quelli che non sono sopravvissuti? Erano più brutti, più stupidi, più colpevoli i figli rifiutati? Perché a loro è stato concesso di vivere? Come può una coppia di genitori che gioca, abbraccia, ama un figlio, immaginare che si sarebbero potuti cancellare quei sorrisi, quei pianti, sopprimere la vita proprio di quel figlio. Come possono ritenersi in diritto di amarlo se a qualcuno hanno rifiutato in passato la stessa possibilità? L’amore non è carezze, non è baci, non è penetrazione, non è neppure abnegazione; ma è tutto questo insieme, dopo che si è deciso comunque e sempre di rispettare la vita. Mi rendo conto della problematicità che si nasconde anche in una posizione apparentemente così chiara. Fin qui ho descritto i padri e soprattutto le madri esclusivamente come individui orribili, furiosamente egoisti e pacificati nella tranquillità legalitaria dei loro omicidi. Re Erode, nell’antica storia ha proprio fatto lo stesso: assassinando per legge bambini innocenti. Ma io so che non tutte le donne che hanno abortito e gli uomini che si sono resi complici hanno accettato a cuor leggero di compiere un delitto: non solo in seguito è sopraggiunta la sofferenza della consapevolezza, ma so che immediatamente hanno percepito tutta la enorme gravità di un simile gesto, preceduto e seguito dallo smarrimento, da notti insonni, da incubi veri e propri. Io rispetto quel dolore e quell’angoscia, ma non al punto da giustificare perciò il delitto di spezzare sul nascere una vita. Mi si controbatte che la vita esiste fin da sempre, già nello spermatozoo e nell’ovulo; so che è vero, ma io ho tentato di dare una definizione di uomo verso il quale concentrare il rispetto per la vita, e in questa accezione l’uomo è tale fin dal concepimento. Mi fanno per contro orrore coloro che si affannano a trovare un momento nella vita intrauterina a partire dal quale accettare l’esistenza in atto di un essere definito uomo; e che si sentono in diritto di disprezzare quello che non rientra nella loro definizione. Mi fa paura l’ansia di definizione del valore della vita, perché non so dove si potrebbe arrivare. È meglio fermarsi subito, prima del concepimento, anche ricorrendo a tutte quelle tecniche contraccettive che oggi ben conosciamo. Non serve rinvangare il passato delle mammane, del prezzemolo e del ferro da calza: sono stati strumenti terribili ed io ancora oggi nel mio presente di uomo e di maschio ne provo terrore per ragioni che forse come psicoanalista potrei anche scoprire.

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Eppure ribadisco che è importante che tutte le forze di liberazione si uniscano per imporre la cultura della contraccezione e opporsi a quella dell’omicidio. Io non sono neppure d’accordo sui cosiddetti casi limite. Se un figlio deve essere la conseguenza di uno stupro bisogna che la comunità si faccia carico di quell’impegno, deve essere pronta ad accoglierlo con amore anche se la madre lo ha giustamente rifiutato. I due genitori non sono necessariamente le sole persone capaci di garantire tutto il necessario ad un cucciolo di uomo. Certo una società rabbiosa e cattiva non sa dare il calore sufficiente, ma in questo caso è anche difficile che lo stesso calore si trovi all’interno di troppe famiglie inquinate dall’odio. Solo l’accettazione incondizionata della vita in ogni sua forma può costituire una premessa per una possibilità di amore universale, del padre, della madre e del figlio. Le donne debbono capire che non hanno diritti assoluti nei confronti delle forme di vita che si costituiscono nel loro grembo, ma già in quella sede valgono i diritti di tutti e anche della natura. Bisogna avere il coraggio di accettarlo.
Per questo è importante una cultura che proponga la sessualità come una forma di piacere, unito magari anche all’amore. Un gioco che può entusiasmare, ma che non deve mai contemplare neppure per ipotesi, l’eliminazione di quelle che potrebbero essere le conseguenze di un «incidente». Dobbiamo conoscere il nostro corpo, la nostra fisiologia e anche la nostra natura. Soprattutto ci deve essere la possibilità del piacere e della felicità.
Come dobbiamo difendere questi nostri diritti dalle insidie del contagio che porta alla malattia e alla morte, così dobbiamo proibirci l’eventualità di procurare la morte di un altro essere umano, sempre.

88 – Dicembre ‘92

martedì, 1 dicembre 1992

Questo di dicembre 1992 è l’ultimo numero di PSICOANALISI CONTRO, mensile di psicoanalisi, cu tura e arte.

Dal prossimo anno 1993 la rivista PSICOANALISI CONTRO, diretta da Sandro Gindro, avrà cadenza quadrimestrale, un altro formato e diffusione nazionale.

Non è facile fare pronostici sul risultato di un’ operazione che ci pare – dopo dieci anni di continuità – opportuna e rischiosa allo stesso tempo. Profeti del resto ce ne saranno fin troppi e non tutti benevoli.

Le svolte sono allo stesso tempo cagione di ansie e di speranze, solo dopo vengono le gioie o le delusioni.

La faccia del pianeta a furia di svolte ha perso quei connotati che un tempo permettevano l’identificazione dei valori.

Ieri eravamo fieramente arroccati sulle barricate, poi abbiamo gioito dell’abbattimento dei muri, ma la svolta non ci ha portato a quella sicurezza a cui aspiravamo.

Il nemico quando non sta più di fronte fa maggiormente paura, infatti ci assedia e invade i nostri spazi, quelli fisici, ma anche quelli interiori.

La fame e il razzismo sono solo due aspetti del male di sempre. L’Europa è vicina ad una svolta, ma Sarajevo è nuovamente un nome di attualità ed in Italia si discute se l’ipotesi leghista significhi federalismo o secessione. Ieri si combatteva per la libertà dell’ informazione e oggi, dopo la svolta, si impreca contro la capacità manipolatrice degli informatori.

In ogni caso le svolte si presentano inevitabili, anche se qualche volta sembrano riportarci al punto di partenza: basti pensare che dopo la svolta reaganiana oggi si tende a riproporre Bill Clinton come un nuovo Kennedy. Anche la liberazione sessuale di cui siamo andati così fieri, dopo la svolta dell’ AIDS, non sembra più un valore su cui puntare. Per questo vorrei che la svolta cui va incontro, nel suo piccolo, l’avventura editoriale di PSICOANALISI CONTRO venisse registrata come un evento oggettivamente inevitabile, certamente da noi voluto, ma non accompagnato da aspettative particolari.

Non è il caso di usare in questo corsivo toni promozionali e non lo farò, chiedendo in cambio soltanto che ci si ricordi di ciò per far tacere gli eventuali importuni gracidii delle cornacchie.

Si trovano ragioni di vivere e sopravvivere in Somalia anche dopo che la svolta militaristica voluta dall’ ONU è degenerata in operetta, ma neppure quella svolta era evitabile.

La svolta può anche leggersi come una sdrammatizzazione del più truculento concetto di destino, di quella come di questo siamo comunque pienamente responsabili.

88 – Dicembre ‘92

martedì, 1 dicembre 1992

Il film Nessuno di Francesco Calogero racconta con toni drammaticamente tesi la coinvolgente storia di ordinaria follia di Nico un ragazzo come tanti altri che fin dall’ infanzia: mette in atto lo stratagemma dell’ eroe omerico per difendersi dall’aggressività dei tanti Polifemo che ciascuno incontra sul cammino della vita. Figlio di genitori separati conosce le vicissitudini della doppia famiglia, degli amanti e dei nuovi consorti con corredo di fratellastri, sorellastre, tentazioni incestuose e il tedio del collegio, dove le violenze si concentrano nell’ambito opprimente di una vita da reclusi.
Il ragazzo sembra reggere; ma ad un certo punto crolla proprio di fronte ai compagni, quando, per un privilegio ottenutogli da un insegnante, che è anche l’amante della madre, dovrebbe tenere il discorso di prolusione all’anno accademico. Il crollo è aggravato da un incidente d’auto della madre, la quale muore dopo un penoso periodo di coma, che è anche il pretesto per il regista di trovare la sua chiave narrativa, seguendo con la macchina da presa la fantasia del ragazzo avanti ed indietro nel tempo, senza però usare le banalità dell’abusatissimo ed un po’ volgare flash-back. In questo è aiutato validissimamente dalla fotografia curata da Roberto Meddi che riesce a rendere con lucidità il disorientamento di chi è continuamente sospeso tra vita e sogno. Roberto de Francesco interpreta come meglio non si potrebbe il ruolo del ragazzo che proprio nel momento in cui la vita lo sollecita con drammatica urgenza si chiude assurdamente in se stesso per non soffrire troppo. Gli altri attori sono efficacemente guidati lungo binari prestabiliti dal regista che lascia esprimere a tutto tondo i caratteri giovanili di Davide Becchini nel ruolo del compagno persecutore e di Fabrizia Sacchi in quello della ragazza contesa.
Tiene invece sotto controllo costante Lucrezia Lante Della Rovere dandole così l’occasione di un’interpretazione, fuori da tutti i cliché, nel ruolo della madre. Sergio Castellitto non riesce a liberarsi da una recitazione che ci sembra eccessivamente legata al palcoscenico, o ancor meglio alla televisione, ma la cosa sortisce un buon effetto.

88 – Dicembre ‘92

martedì, 1 dicembre 1992

La stagione sinfonica del Teatro dell’ Opera 19921993 che pareva doversi inaugurare in altro modo si è poi di fatto inaugurata con un concerto diretto da Vladimir Fedoseyev in cui sono state eseguite pagine sacre di due grandi autori.
La Terza Sinfonia” Liturgica” di Arthur Honegger, è stata scritta nel 1945 e si articola in tre movimenti. Il primo è un Dies lraes:allegro marcato che inizia in modo sommesso, si sviluppa con un ritmo ossessivo per poi tornare ai sommessi accenti iniziali. Il secondo movimento, De Profundis: adagio, si caratterizza per un tema insinuante e molto malinconico: Il finale, Dona nobis pacem: andante contiene un motivo melodico di speranza, dall’andamento corposo, con le percussioni molto in evidenza. L’esecuzione dell’ orchestra, pur ben tenuta in pugno dal direttore, è risultata molto squadrata, anche se non sempre all’altezza del brano, tanto da sfrangiarsi qua e là in contrasto con le velleità di precisione persino eccessive di Fedoseyev.
La Messa di Gloria di Giacomo Puccini, per coro, orchestra, tenore e baritono, del 1880 è un brano fresco ed entusiasta, tal uni dicono che non sia di carattere particolarmente sacro, ma la sacralità è presente a nostro avviso nell’ ingenuo entusiasmo giovanile dell’ autore, che dedica grande cura ad evidenziare con la sua musica le parole della funzione religiosa. Il Kyrie si sviluppa in un bello e tenue gioco imitativo. Il Gloria è una pagina quasi verdiana, festosa, e ricca di piacevoli squarci lirici, con un fugato molto energico sulle parole del Tu solus. Variopinto è il Credo, con effetti nettamente teatrali. Il Sanctus è chiaro e pulito, impreziosito dalla bella melodia del Benedictus. Doverosamente accorato risuona l’Agnus Dei. Qui l’orchestra ci è parsa più adeguata, compatta nel seguire le intenzioni dei direttore. Il tenore Vincenzo La Scola e il baritono Giorgio Cebrian hanno spiegato voci nitide ed espressive. Il coro diretto da Paolo Vero ha collaborato con brio ed efficacia alla buona riuscita complessiva di tutto il brano.

All’Alpheus di via del Commercio abbiamo ascoltato l’esibizione del gruppo jazzistico Jim Snidero Quintet, composto dallo stesso Snidero al sax alto, da Tom Harrel alla tromba, da Robert Di Gioia al pianoforte, Reggie Johnson al contrabbasso e Louis Hayes alla batteria. Il gruppo non risulta molto equilibrato nel suo insieme, la batteria risuona spesso debordante, il contrabbasso dal suono sporchissimo non ha ritmo e stona, il pianoforte pessimamente amplificato è rigido e monotono, appena migliori sono la tromba, dal suono piacevole, malgrado l’intonazione incerta e il sax alto fluido e pungente, anche se sempre sulla soglia della stecca. Sembra che i cinque non sappiano suonare insieme. I brani in programma sono di una monotonia esasperante che si articola in una serie di “a solo” di uno degli strumenti a cui gli altri fanno da appiccicato accompagnamento. Nonostante l’ovvietà volgare e fracassona delle percussioni il concerto ha un effetto assolutamente soporifero.

88 – Dicembre ‘92

martedì, 1 dicembre 1992

Alla galleria Fontanella Borghese, nell’ omonima via è in corso una mostra del Nuovo futurismo. Come giustamente dice nella intelligente presentazione al catalogo Stefano Petricca la “torta” è “da gustare sin dalla vetrina”. Le opere esposte sono per lo più ricavate da materie plastiche variamente colorate e stampate. Sono oggetti che potremmo vedere messi in vendita da una Vanna Marchi televisiva tra un detersivo e una linea dimagrante. Gli autori hanno un gusto ironico ed allegro, giocano coi materiali, con se stessi ed anche coi possibili clienti provocando come fa Gian Antonio Abate con la sua “macchina dei sogni”; scherzando come Innocente che titola il suo stellone di plastica rossa “Rock Energy”, citando come Marco Lodola le insegne di Broadway, tuffandosi nel nonsense come fanno Plumcake e Postal con le loro plastiche stampate o so1cate da motivetti decorativi, arieggianti certe tendine da tinello americano. Se è un’arte minore, almeno ci risparmia la presunzione di altre non meno superflue manifestazioni di boria saccente.

Sarà forse perché era un pomeriggio piovigginoso e i due Farfalloni erano umidi ed intirizziti dal freddo; però quello che abbiamo visto alla gallerie del Crac (Centro ricerche Artistiche Cancelleria) in piazza della Cancelleria ci ha messo addosso molta tristezza. Abbiamo trovato, quasi abbandonate in due squallide stanzette, un mucchio di povere cose, che non riuscivamo a percepire come espressioni di una qualsiasi forma di arte. Tutto dava la sensazione del già visto e poi ancora rivisto: triste la pittura di Paola Soldini, dal disegno cattivo e dal brutto colore; presuntuosa la logorrea ripetitiva di Jay Hoffman, neppure originale; come pessima imitazione di pittura ci è parsa quella di Albino Mattioli. Vecchie nel loro barocchismo calligrafico ci sono parse le “tracce” di Nikos Zivas.
Roberto Angelini tenta la strada della scultura, ma non riesce a dare vera tridimensionalità ai suoi lavori e diventa volgare quando affronta argomenti come il “bacio” o il “nudo abbondante”. Siamo usciti un po’ depressi e nella via verso casa abbiamo ritrovato l’antica Roma, che anche sotto la pioggia riesce a comunicare il senso di ciò che è bello e che nessun grigiore invernale riesce ad imbruttire.

88 – Dicembre ‘92

martedì, 1 dicembre 1992

Un vedovo di cittadinanza tedesca, professore dell’arte e una vedova polacca specializzata nel restauro di antiche dorature si incontrano, nel 1989, in contemporanea con la caduta del muro di Berlino, in un mercatino di Danzica e mangiando funghi e visitando tombe hanno l’idea che darà una svolta alla loro vita: quella di istituire un Cimitero della Riconciliazione tedesco-polacca, grazie al quale gli ex residenti tedeschi della zona dei Sudeti potranno finalmente tornare alla loro terra di origine per avervi l’ultima dimora. L’iniziativa ha molto successo, arrivano salme da tutto il mondo e i due guadagnano molto denaro; ma come accade, l’impresa degenera e va in mano ad individui senza scrupoli che pur di far soldi accettano di inumare anche salme provenienti da sepolture precedenti, spedite da parenti presi da una frenesia di traslazione a tutti i costi. Dalla traslazione si passa alla costituzione di case di riposo per anziani in attesa del trapasso ed infine a veri e propri progetti di edilizia turistica e residenziale. I due inorridiscono e si ritirano dalla Società di cui sono stati i fondatori, si sposano e partono per un viaggio verso Napoli nel quale troveranno la morte per un incidente automobilistico. Resteranno sepolti sulle rive del Tirreno e un plico con la loro storia e relativa scrupolosa documentazione giungerà nelle mani dello scrittore, già compagno di scuola del vedovo a cui resterà affidata l’incombenza di trasformare la vicenda in romanzo. Così ci viene proposto l’ultimo libro di Guenter Grass, II richiamo dell’ululone (Feltrinelli, 1992, pagg.207, Lit.30.000). Come risulta chiaro, in questo romanzo la necrofilia dilaga: a partire dalla condizione vedovile prescelta per i due protagonisti. Lo scrittore però riesce a darci atmosfere e a restituirci paesaggi con grande e godibile capacità letteraria. A tutto fa da sfondo il grido dell’ululone in amore, una varietà di rospo dal ventre rosso o giallo che, quando è in amore ulula, come appunto dice il suo nome, facendo risuonare le campagne tedesco-polacche. Il culmine del gusto macabro, e quasi il chiodo a cui la storia sta appesa è una scena emblematica nella quale, in un’antica tomba violata i due protagonisti scattano fotografie ad una mummia attraverso il coperchio della bara divelto e tenuto scostato da un terzo compagno d’avventura. Qui ci sembra che lo scrittore si tradisca e riveli la sua passione personale per quel genere di articolo. Stranamente il finale che pure ha come sfondo incidenti e cimiteri è poco funebre, ma vitale, gaio e poetico. Meno convincente a nostro avviso è tutta la più che implicita dissertazione storico-politica sui destini della Germania nuovamente unita e del mondo in crisi perenne che Grass cerca di propinare al lettore come il vero oggetto della sua riflessione.

Il Saggio sul Juke-Box di Peter Handke (Garzanti, 1992, pagg.85, Lit. 16.500) è un raccontino quanto mai stucchevole, roboante, retorico ed intellettualistico. Uno scrittore gira per la Spagna alla ricerca di vecchi juke-box, che non trova. Tutte le fortunatamente poche pagine sono piene di riflessioni pseudo-filosofiche che ci ricordano molto le riflessioni dei nostri sciocchi amici che nel 1968 amavano andare alla ricerca di robaccia smessa ed osteriacce all’ antica. Anche la descrizione di paesaggi ed ambienti è rinsecchita, senza poesia e priva di sensualità. Ci sembra che questo maestro della letteratura austriaca non abbia saputo andare oltre ai suoi assunti iniziali, quando volle presentarsi come l’ epigono in lingua tedesca del nouveau roman francese.
Oggi non è andato molto lontano ed ha perso anche una certa asciuttezza stilistica che poteva allora sembrare affascinante ai più ingenui.

88 – Dicembre ‘92

martedì, 1 dicembre 1992

Queste nostre recensioni si riferiscono ad alcuni locali tradizionali e moderni. È di questi tempi la presa di posizione di diversi ristoratori i quali contestano e rifiutano appunto le “recensioni” delle guide, dicendo che il loro lavoro non deve essere sottoposto a giudizio perché essi stessi si considerano operatori economici sui quali il giudizio eventualmente negativo non potrebbe che avere il risultato di danneggiare un’impresa commerciale. Inoltre sostengono costoro il diritto di ribellarsi che a giudicare il loro operato siano esperti di cucina la cui preparazione non sarebbe poi così indiscutibile.
Noi farfalloni siamo indignati da questi atteggiamenti: infatti su queste stesse pagine, anche consapevoli di quanto la nostra azione potesse apparire provocatoria, abbiamo voluto mettere sul medesimo piano concerti, libri, mostre d’arte ed esperienze da noi vissute della ristorazione romana e laziale; proprio perché siamo convinti che l’arte gastronomica non sia inferiore a quella pittorica o musicale. L’essere umano possiede cinque sensi, si dice, all’occhio parla l’arte figurativa, all’orecchio quella musicale e poetica, al gusto, al tatto e all’olfatto parla l’arte culinaria. Per noi i grandi cuochi sono grandi artisti, che costruiscono sinfonie di sapori. Il teatro, le mostre d’arte ed i concerti sono oggetto da sempre di critica da parte di cosiddetti esperti più o meno legittimati a questa funzione, e che da sempre sono incappati come tutti sanno in gaffe imperdonabili. La Grande fuga, per quartetto d’archi, di Beethoven è stata ritenuta da molta critica il prodotto di un sordo demente; oggi tutti riconoscono che è una delle pietre miliari della cultura musicale dell’occidente. Nessuno ha diritto di sottrarsi alla critica o di pretendere che il critico sia all’altezza dell’artista che giudica. Anche il discorso economico, che ha un suo valore e che pure riguarda tutti gli aspetti dell’ arte e non solo quella gastronomica, non può prescindere dalla critica, che può anche, quando è favorevole, promuovere un artista o un settore. Certo, noi non siamo d’accordo con quei pretesi «intenditori» del teatro alla Scala, che fischiano scandalizzati Pavarotti se fa una stecca nel Don Carlos: bisogna sempre tenere conto del risultato complessivo delle prestazioni di un artista, e nel caso specifico il cantante – che a noi non è mai piaciuto – è da biasimare non per l’infortunio singolo, ma perché affronta male un ruolo al quale non è adatto. Neppure accettiamo di dover visitare un ristorante molte volte prima di esprimere un giudizio; come non assistiamo a dieci repliche di un concerto o di uno spettacolo teatrale: ogni singola esperienza ha il suo valore e il giudizio del pubblico o dei commensali è ogni volta legittimo. Il ristoratore non è un bottegaio soltanto e noi consideriamo quella del cuoco un’esibizione di vere e proprie capacità artistiche.

Alberto Ciarla dà il proprio nome al suo ristorante, situato in un angolo della bella e popolare piazza San Cosimato, in Trastevere.
Noi ci siamo stati molte volte, ma vogliamo in particolare riferire della nostra ultima visita, a pranzo (ovviamente per pranzo intendiamo di mezzogiorno, visto che il nostro vocabolario prevede per il pasto serale il conciso termine «cena», mentre «colazione» è solo quella del mattino). Diremo subito che la nostra esperienza è stata positiva: qui il pesce è trattato con i sacramenti e servito e cucinato come meglio difficilmente si potrebbe. Ricordiamo l’eccellente proposta del pesce affettato ed affumicato in modo delicatissimo e l’insalatina di frutti di mare tiepida. Le ottime
zuppe di pesce e legumi, con e senza pasta, sono una gioia per il palato. Il baccalà alla romana qui diventa un piatto di sapiente raffinatezza, senza perdere nulla della sua rustica sapidità; i filetti di pesce sono perfettamente disliscati e tutto giunge in tavola alla giusta temperatura. Anche i dolci, sono di alto livello e ancora siamo ammirati della delicatezza della crema cotta e della mousse con salsa di fragole e lamponi. La cantina è ricca di proposte tutte qualificate e si possono anche apprezzare bottiglie nazionali di classe senza accedere nella spesa, come ci è accaduto con un Pigato di Albenga, erbaceo e delicatissimo, e con un Vermentino di Gallura, asciutto e profumato. Noi non pretendiamo certo tovaglie verdi o camerieri gay al ristorante, però preferiamo non dover rilevare tracce di sabbiolina nei fasolari, e una troppo accentuata presenza del sale in alcune preparazioni, senza contare che ci stupisce trovare in un ristorante di pesce l’offerta di panini all’uvetta, che costituiscono un abbinamento , davvero improprio e particolarmente inatteso da parte di un sommellier di alto livello quale il patrono Da sfatare la leggenda che vorrebbe questo posto troppo caro: sapendo scegliere, i costi restano contenuti, anche se ovviamente proporzionati alle materie eccellenti ed ad un servizio ed un ambiente di tono elevato.

88 – Dicembre ‘92

martedì, 1 dicembre 1992

I farfalloni sono molto vecchi, quasi decrepiti e si ricordano di Maria Monti, che pure allora non era più una bambina, nell’interpretazione di un repertorio cabarettistico popolare di grande efficacia: la sua interpretazione de “La balila” la ricordiamo come un gioiello di perfezione; allora certo non c’erano problemi leghisti ed i nordismi erano accettabili ed addirittura simpatici. Nel risentirla in Maria d’amore al Teatro dei Satiri abbiamo avuto l’impressione di vederla coinvolta in un’operazione insulsa. Lei bravissima, esplosiva, acuta, metteva la sua arte al servizio di canzoni “moderne” totalmente imbecilli, le cui parole non avevano significato e la cui musica si costruiva attraverso arpeggi ascendenti e discendenti di irritante monotonia. La bravura della Monti l’abbiamo ritrovata qua e là, ma ci chiediamo perché Patrick Rossi Gastaldi, regista e coautore dello spettacolo con la stessa cantante e i musicisti Costantino Albini e Marco Persichetti non abbiano saputo offrirle qualcosa di più che canzonette acquose ed insignificanti e poche gag scipite.

Lo spettacolo Proviamo in palcoscenico commedia musical in due atti di Patrizia Lafonte, andato in scena al Teatro Tor di Nona, non funziona quasi per niente, il testo è molliccio e noioso, vorrebbe far ridere, ma non ci riesce mai; vorrebbe avere una vena patetica, ma questa è assolutamente risibile; vorrebbe essere un’esaltazione del teatro come forma artistica viva e sana, confrontata con quella televisiva, imbalsamata e consumistica, ed invece è esso stesso quanto di più televisivo e squallido si possa pensare. Un gruppo di ragazzi vuol mettere in scena uno spettacolo; si decide per un testo di Goldoni e si incomincia a provare; di qui partono le prevedibili disavventure: i soldi che non ci sono, le gelosie tra gli attori, i drammi sentimentali etc.; fino a che sopravviene la rinuncia a Goldoni in cambio della decisione di mettere in scena quel musical che da sempre è l’ ambizione di tutti. Al di là della già menzionata insulsaggine del testo di Patrizia La Fonte, la regia di Roberto Bencivenga assomma puerilmente una serie di sketch, oscillanti dal tentativo di emulare la commedia dell’ arte agli esercizi di accademia drammatica. Le musiche, che sono importanti soprattutto quando si pensa al musical, si realizzano in un succedersi di melodie assolutamente pecorecce, messe insieme da Fabio de Santis e lo stesso Roberto Bencivenga, in compenso arrangiate con paziente sapienza da Federico Badaloni. Le povere scene e i poverissimi costumi non sono giustificati da nessuna restrizione economica anche se lo vogliono far credere. Invece una gradevolisima sorpresa è la recitazione dell’intero “cast”: spigliati, ritmici e, se pur giovani, con una più che corretta dizione. Carlo Viani, Carlo il regista, è dlsonentato e aggressivo. Luisa Martelli, la Primadonna, appare ingegnosa e a tratti geniale. Eugenio Menichella lo scrittore, esprime con bravura laidezza spirituale e determinata truculenza. Maritza Carollo, Colombina nonché Jennifer Pickpunk, è capace oltre che ad essere brava attrice anche godibile cantante, nonostante le inevitabili stecche. Veramente eccezionale e piacevolissima l’interpretazione di Gianluigi Agresti, Il Carattere, sempre duttile, poliedrico e in grado di tenere comunque la scena. Abbiamo voluto recensire questo spettacolo di una giovane compagnia, con l’impegno che si può dedicare alle compagnie maggiori, perché riteniamo questa un’operazione culturale valida.
Speriamo che da parte loro ci sia la disponibilità a recepire le critiche come uno stimolo positivo.