Psicoanalisi contro n. 84 – Io e la bambina

dicembre , 1992

Io non rispondo quasi mai personalmente per primo al telefono che trilla in casa mia, ma quel giorno non ricordo perché fui io ad alzare il ricevitore: sentii la voce di un uomo non più giovane, una voce angosciata e rassegnata che mi chiese un colloquio. Dopo qualche giorno me lo trovai davanti nel mio studio. Provai per lui un immediato sentimento di simpatia, mi imposi però di sospendere il giudizio e di rimanere in un atteggiamento di massima neutralità. Percepivo i suoi occhi che mi scrutavano e sentivo quasi il suo sguardo pesare sulla mia persona. Era un padre come tanti: un padre disperato. Era rimasto vedovo da alcuni anni e viveva da allora con la sua unica figlia, la quale subito dopo la morte della madre aveva incominciato a tenere strani comportamenti: aveva preso l’abitudine di non rientrare a casa la notte, eppure aveva solo sedici anni a quel tempo. Poi erano iniziati preoccupanti sintomi: aveva sempre la bocca impastata, l’occhio spento, passava intere giornate a dormire; non andava neppure più a scuola dove peraltro: «era sempre stata così brava…» A un certo punto egli aveva capito che anche nella sua famiglia era entrato un problema di droga. Dagli spinelli era passata chissà quando alla cocaina e poi all’eroina, che alternava «allegramente» con potenti psicofarmaci associati con alcool più o meno etilico, vinacci da osteria e super-alcoolici di tutte le provenienze. Era diventata sboccata e volgare; stava diventando persino brutta: «lei che era sempre stata così bella.» Aveva preso l’abitudine di rubare regolarmente denaro in casa: il padre taceva sbigottito. Talvolta avvenivano scenate di pianto in cui lei lo abbracciava, gli chiedeva perdono, gli prometteva che non lo avrebbe fatto mai più, che avrebbe incominciato una vita nuova e diversa: «Dammi ancora questi ultimi soldi; mi faccio l’ultima ’storia’ e poi chiudo.» Egli, pur sapendo che non era vero, le dava altri soldi e tutto riprendeva come prima coi pianti le auto-accuse, gli insulti a lui e a se stessa. «Lo so che la mia bambina non è cattiva, ma è caduta in un ambiente che non perdona. Prima, quando tornavo a casa dall’ufficio passavo in una piazzetta, dove vedevo le ombre dei drogati aggirarsi, angosciate ed angoscianti; mi capitava di riflettere su quel mondo tremendo che mi pareva di intravedere. Ed adesso la mia bambina c’è finita in mezzo. È perduta la mia bambina. lo cercherò però sempre di fare il possibile…» Seguitarono i nostri incontri e poco a poco fui partecipe del suo tremendo calvario culminato con la malattia e la morte della moglie e non ancora finito. Mi parlò della sua infanzia, dei suoi sogni di ragazzo di campagna, del suo destino di impiegato in un pubblico ufficio. Parlava inarrestabile e dovevo quasi essere autoritario per porre fine alle singole sedute. Era stanco, ma non perdeva la speranza di recuperare la sua bambina bella ed intelligente, che ora era troppo lontana da lui e che lo cercava solo quando era disperata e gettandoglisi tra le braccia e piangendo gli chiedeva centomila lire per l’ultima, ultima storia, prima di smettere. Un giorno mi disse che la sua «bambina» aveva letto da qualche parte un articolo mio e gli aveva detto che ad «uno come quello» avrebbe anche potuto andare a parlare: «Chissà forse è meno idiota degli altri, anche se non mi faccio illusioni, lo so come sono questi psicoanalisti, tutti stupidamente per bene. Ma ora sto troppo male e voglio uscirne. Prendimi un appuntamento, papà, ma fai presto.» Il padre si affrettò ad ottenere il colloquio per la sua «bambina».

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La ragazza che mi trovai davanti faceva letteralmente schifo: brutta di una bruttezza interiore che cancellava quello che restava di una giovane ventenne abbastanza graziosa. Era vestita di stracci e adorna di pendaglietti, nello stile dell’epoca e di certi ambienti. Il suo profumo era un miscuglio di costoso profumo francese, di orina e di morte. Non mi parlò con la bocca impastata, ma mi aggredì con un piglio altero e strafottente. Mi si rivolse subito con il «tu». Io, imperterrito mi attenni al «lei». La cosa la disorientò: «Perché mi dai del lei?» Le risposi che nessuno l’aveva autorizzata a rivolgermi il tu. Sapevo di risultare scostante ed antipatico, ma volevo ottenere proprio quello. «Io ti…1e ho dato del tu perché è più intimo, più amichevole.» Le risposi che non intendevo essere un suo intimo amico. Si imbarazzò ancora, prese a giocherellare coi suoi pendaglietti : «Mio padre mi ha detto…che avrei trovato un amico.» Le replicai che io ero amico di suo padre, che per amor suo mi ero deciso a concedere quel colloquio per ottenere il quale lei aveva tanto insistito. «Adesso lei mi ha fatto vergognare…scusi…» Era un buon inizio, le dissi: «Bene ora possiamo anche darci il tu.» Le feci con tono calmo alcune domande alle quali rispose. Cercai di non affrontare il problema principale per cui era venuta da me; mi limitai a domandarle cose sulla sua infanzia, sulle sue amicizie, sulle sue abitudini alimentari e sui suoi gusti musicali. Per fortuna il colloquio finì prima che mancassero gli argomenti di conversazione. Tornò, come le avevo detto, dopo alcuni giorni e la cosa mi stupì un poco perché non ero proprio certo che l’avrebbe fatto. Aveva lo stesso spavaldo atteggiamento del primo incontro; ma ormai sapevo che l’avevo in pugno. Nel mio cuore c’era però un fondo di malinconia. In quei giorni mi stavo domandando se avesse senso continuare in un lavoro come quello terapeutico in cui così spesso l’unica modalità di rapporto è la contrapposizione violenta. Nei momenti di ottimismo mi dicevo che così va il mondo e io non potevo pretendere di cambiare pazienti e terapeuti, bastava che riuscissimo a metterci un po’ di amore.

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Iniziò un lavoro di analisi vero e proprio: lei ostentava un atteggiamento di grande correttezza ed io sornione le tenevo il gioco. Lei non voleva dirmi la verità, ma neppure voleva mentire. Come tutti i perfetti bugiardi mentiva dicendo altro. Questo «altro» è in questi casi quasi sempre vero, ma l’astuzia di chi mente sta nel non dire la sola verità che dovrebbe in quel momento essere detta. Mi parlava della sua infanzia, dei giochi sessuali coi cuginetti; di una cattivissima suora vestita di blu che, da allora, le aveva fatto odiare quel colore. Qui si lanciò in uno sproloquio contro la Chiesa, i preti e, soprattutto, le suore che «sono donne cattivissime» adepte del demonio messe sulla terra per tormentare povere fanciulle indifese fino a farle diventare pazze. Affermava che i suoi problemi attuali derivavano tutti da quell’esperienza negativa con quella suora «che aveva una voce nasale e che la domenica in chiesa cantava, ‘arrovesciando’ la testa all’indietro fino a mostrare il bianco degli occhi. Parlava di Gesù e del suo amore, ma era cattiva in un modo furioso.» La bambina cercava amore e la suoraccia le torceva le orecchie dicendole che doveva soffrire per amore di Gesù. Quella bambina era davvero eccezionalmente intelligente, arguta e anche piena di poesia, e ora in lei nel ricordo di quello che era stata affioravano tracce della salute perduta. Arrivò il giorno in cui decise di offrirmi in dono la cosa che lei credeva io ambissi di più: con sussiego retorico mi parlò della morte della madre. Era stata per lei un’esperienza certo dolorosa e traumatica, però quella «bambina» era solo apparentemente disperata mentre rievocava quei momenti terribili tra lacrime e singhiozzi. In realtà era pochissimo sincera, non provava le emozioni che recitava davanti a me per aver il mio plauso solidale, la mia approvazione, la mia riconoscenza e la mia soddisfazione per averla capita fin da subito. Nella mia testa c’era tutto quello, insieme con la constatazione di quanta perfidia sapesse racchiudere in sé una creatura. Tacevo.

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Il mio silenzio incominciava a pesarle troppo: mi raccontava sogni e se li interpretava dopo aver fatto lunghi giri di associazioni e bisogna dire che le sue interpretazioni non erano del tutto incongrue. Era veramente una «bambina» intelligente. La psicoanalisi, si sa, è una scienza così precisa che la può inventare e scoprire chiunque abbia un minimo di intelligenza e direi anche di cattiveria. Per andare oltre la psicoanalisi bisogna aggiungere a queste due prerogative quella di saper anche essere buoni. In quella «bambina» non c’era bontà. O meglio: era stata talmente soffocata da non riuscire più a trovare spazio.
I giorni passavano e la ragazza si inaridiva sempre più, in un rattrappimento interiore che la rinsecchiva fisicamente e la rendeva sempre più rabbiosa. Un giorno mi confessò di provare un grandissimo odio per tutto e per tutti, per se stessa, anzitutto, divenuta così orribile, bugiarda e meschina; per il padre che sentiva uguale a lei. Le obiettai che suo padre non era né meschino né bugiardo e poi mi morsi le labbra per riuscire a non parlare più. Mi guardò con aria trionfante: era riuscita ad aprire una breccia nel mio silenzio. Mi rammaricai di aver compiuto un passo falso. Dovetti insistere con un mutismo ancora più marcato e pesante, ci riuscii quel tanto che bastò a farle dimenticare quella mia debolezza di un momento, lasciandola sola ad annaspare con le sue parole. Un giorno minacciò di interrompere le sedute se io avessi continuato a tacere. Volli insistere fino a portarla all’esasperazione. Sapevo che era un gioco duro e molto rischioso, ma dovevo tentare. La «bambina» continuava a «farsi» di eroina, aveva le braccia ridotte in modo pietoso per tutti gli aghi con cui si bucava. Continuava ad ingoiare manciate di pillole associate ad alcool di cattiva qualità. Quando riusciva a venire in seduta sobria, era trionfante, più spesso arrivava disfatta e maleodorante. Sempre col suo carico di odio così denso che faticavo a non lasciarmi coinvolgere; riuscivo a mantenere il controllo della situazione, ma a prezzo di grandi sofferenze.

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Era un pomeriggio di primo autunno, nel cielo grigiastro si rincorreva il rotolio dei tuoni, poi iniziarono i goccioloni prima radi e grossi poi sempre più fitti; l’acquazzone si sfogava fuori dei vetri dello studio, mentre la «bambina» taceva immobile, sdraiata sul divano, giocando coi suoi vestiti di stracci e i suoi pendaglietti. Mi stavo quasi assopendo… lei se ne andò furiosa. Sapevo che avrebbe potuto non tornare, ma ormai ogni seduta era una scommessa. Invece ritornò: ancora più cattiva e rabbiosa del solito. Mi raccontò una storia inverosimile, ma disperatamente vera, io lo sapevo: aveva sentito il bisogno di eroina ed era andata a cercarla in una casa dove abitavano quattro ragazzi del sud; non sapeva se fossero belli o brutti, sapeva solo che era andata con tutti e quattro, si era lasciata possedere come loro avevano voluto, con brutalità, con dolcezza, con allegria, con simpatia. Mi descrisse i quattro rapporti con gusto rabbioso. Io continuavo imperterrito a tacere sapendo che solo così sarei riuscito a farle dire quello che volevo mi dicesse; se glielo avessi domandato direttamente si sarebbe invece fatta rincorrere ed io non volevo. Mi disse che non aveva preso nessuna precauzione né contro eventuali contagi e neppure contro i rischi di gravidanza: «Erano tutti e quattro abbronzati, ma avevano lo ’stacco’ del costume, e lì erano di un biancastro schifoso; non ho goduto neanche una volta, ma l’eroina dopo me l’hanno data. Se adesso rimarrò incinta…- tacque un momento, poi aggiunse, sfidandomi – …abortirò.» Riuscii a non romper la consegna del silenzio che mi ero imposto e allora fu lei a sbottare e urlando mi gridò in faccia: «Ma tu sei contro l’aborto, tutti lo sanno.» Risposi: «Sono contro l’aborto, e allora?» «Come, allora? Io sono una tua paziente!» Le replicai: «Tu sei un’assassina.»

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Sospendiamo qui il racconto di un lavoro che continua ad impegnare molto sia me sia la «bambina» e passiamo a qualche possibile riflessione in merito. Con che diritto un essere umano può, per odio, in ossequio a sue fantasie, per superficialità, per idiozia, giocare con la vita degli altri? Io so che, talvolta, una donna può restare ingravidata per «disgrazia». Ad esempio una violenza sessuale, uno stupro non sono accettabili facilmente. Ma a quella «bambina» chi aveva rilasciato la licenza di uccidere? Bisognava consentirglielo in nome di quel suo padre disperato che continuava a chiamarla la sua «bambina»? Non è più una bambina, e pure si permette di coltivare in grembo la sua possibilità di uccidere. La società deve assistere inerte al verificarsi di tanti potenziali omicidi? Perché allora non si stabilisce che sia giusto uccidere tutti quei neri condannati a crescere in ghetti di miseria, malattia e disperazione? Perché non uccidere i bimbi che in India si rotolano nel fango, abbracciandosi e mordendosi l’un l’altro non si sa, se per amore o per follia; perché rispettare quelle forme così infime di vita? Gli uni e gli altri non hanno speranze, non c’è per loro possibilità di un mondo migliore, perché mentiamo spudoratamente quando diciamo che tutti hanno diritto ad una vita dignitosa mentre sappiamo benissimo che al massimo un pugno di riso consentirà loro di prolungare di poco un’agonia in condizioni disumane. Eppure ciascuno di noi si sentirebbe un assassino se con un gesto mettesse fine ad una sola di quelle vite. Perché invece viene considerato un gesto umanitario e di valore sociale la soppressione di piccoli embrioni palpitanti e vivi? Perché quella ragazza può tranquillamente dire: «Abortirò.» sapendo che le strutture pubbliche l’accoglieranno con materna sollecitudine e l’aiuteranno a perpetrare il suo omicidio? Sadicamente provo una specie di soddisfazione, come di fronte a una giustizia dovuta, quando penso che in realtà nessuna donna è davvero passata con indifferenza attraverso un’esperienza di aborto. Prima o poi la disperazione, l’angoscia, il bisogno di auto-punirsi vengono a galla, ma non è il mio sadismo un buon sentimento, forse è migliore la speranza che attraverso la consapevolezza che viene dal dolore, quei gesti che offendono due vite in una volta sola si diradino fino a scomparire.

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Perché dare invece a donne disperate per ragioni anche più gravi l’errata convinzione di avere acquisito il diritto di uccidere e il presunto privilegio dell’impunità? Io e i miei collaboratori crediamo nell’utilità di mettere subito quelle donne di fronte alle loro responsabilità; non solo: cerchiamo anche di coinvolgere quei maschi troppo vigliacchi che si trasformano in eunuchi compiacenti che cinguettando sbandierano parole come diritto, sì all’auto-determinazione o alla libertà sessuale, lavandosi le mani di un gesto in cui sono c coinvolti non meno delle loro donne. Non lascerò in pace le donne e gli uomini che credono di avere maturato il diritto di uccidere come un diritto civile. Vorrei coi miei compagni svolgere un’opera che considero di primario valore sociale, morale e politico, a favore della contraccezione. Stranamente i condizionamenti culturali sono tali che oggi è più facile liberare dal rimorso per un aborto che indurre in uomini e donne il principio di una concezione della sessualità libera dalla paura e affrancata dall’ipoteca del delitto contro la vita. Oggi qualche effetto di riflessione sui comportamenti sessuali lo ha avuto la campagna di prevenzione dal contagio contro le malattie veneree, soprattutto grazie al deterrente potere della possibile trasmissione per via eterosessuale del virus HIV e del conseguente rischio di sviluppare l’AIDS. Il profilattico è diventato un argomento di cui si parla con una certa disinvoltura e uno strumento di cui si cerca di promuovere l’uso. Noi speriamo che la cultura della prevenzione e della contraccezione possa ancora svilupparsi evitando così il contagio che può portare alla morte ed evitando anche l’occasione di generare una vita verso la quale non ci si vuole sentire responsabili, fino ad ipotizzarne la soppressione. Non basta ovviamente una semplice «cultura del preservativo» per generare una nuova coscienza sessuale. Mantegazza, lo stupido sessuologo d’un tempo sosteneva che il preservativo fosse una corazza contro il piacere e una ragnatela contro il pericolo. Io non penso che sia così, ma ritengo che ci siano metodi anticoncezionali accettabili, che non si riducono al solo uso del profilattico ed allo stesso tempo permettono una gestione della sessualità sganciata dalla possibilità della procreazione. Evitando così situazioni di sofferenza per tutti i potenziali genitori: padri e o madri assassini, e figli morti e ammazzati. Gli esseri umani debbono nascere in seguito ad un gesto intenzionale, libero e volontario di amore. È un ‘affermazione banale, ma nella cui assoluta verità io credo, tanto che mi sento in dovere di diffonderla. La verità è spesso ambigua, ma in casi come questo è la massima espressione di chiarezza.

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Se però gli esseri umani sono destinati a nascere in una situazione così disperata e disperante, in bilico tra d la vita e la morte, sempre davanti ad alternative che non sono scelte reali, figli non voluti di padri e madri che prima dell’incidente della loro nascita hanno soppresso più volte vite da loro stessi generate, che futuro possono avere? Cosa ha deciso in loro favore e contro quelli che non sono sopravvissuti? Erano più brutti, più stupidi, più colpevoli i figli rifiutati? Perché a loro è stato concesso di vivere? Come può una coppia di genitori che gioca, abbraccia, ama un figlio, immaginare che si sarebbero potuti cancellare quei sorrisi, quei pianti, sopprimere la vita proprio di quel figlio. Come possono ritenersi in diritto di amarlo se a qualcuno hanno rifiutato in passato la stessa possibilità? L’amore non è carezze, non è baci, non è penetrazione, non è neppure abnegazione; ma è tutto questo insieme, dopo che si è deciso comunque e sempre di rispettare la vita. Mi rendo conto della problematicità che si nasconde anche in una posizione apparentemente così chiara. Fin qui ho descritto i padri e soprattutto le madri esclusivamente come individui orribili, furiosamente egoisti e pacificati nella tranquillità legalitaria dei loro omicidi. Re Erode, nell’antica storia ha proprio fatto lo stesso: assassinando per legge bambini innocenti. Ma io so che non tutte le donne che hanno abortito e gli uomini che si sono resi complici hanno accettato a cuor leggero di compiere un delitto: non solo in seguito è sopraggiunta la sofferenza della consapevolezza, ma so che immediatamente hanno percepito tutta la enorme gravità di un simile gesto, preceduto e seguito dallo smarrimento, da notti insonni, da incubi veri e propri. Io rispetto quel dolore e quell’angoscia, ma non al punto da giustificare perciò il delitto di spezzare sul nascere una vita. Mi si controbatte che la vita esiste fin da sempre, già nello spermatozoo e nell’ovulo; so che è vero, ma io ho tentato di dare una definizione di uomo verso il quale concentrare il rispetto per la vita, e in questa accezione l’uomo è tale fin dal concepimento. Mi fanno per contro orrore coloro che si affannano a trovare un momento nella vita intrauterina a partire dal quale accettare l’esistenza in atto di un essere definito uomo; e che si sentono in diritto di disprezzare quello che non rientra nella loro definizione. Mi fa paura l’ansia di definizione del valore della vita, perché non so dove si potrebbe arrivare. È meglio fermarsi subito, prima del concepimento, anche ricorrendo a tutte quelle tecniche contraccettive che oggi ben conosciamo. Non serve rinvangare il passato delle mammane, del prezzemolo e del ferro da calza: sono stati strumenti terribili ed io ancora oggi nel mio presente di uomo e di maschio ne provo terrore per ragioni che forse come psicoanalista potrei anche scoprire.

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Eppure ribadisco che è importante che tutte le forze di liberazione si uniscano per imporre la cultura della contraccezione e opporsi a quella dell’omicidio. Io non sono neppure d’accordo sui cosiddetti casi limite. Se un figlio deve essere la conseguenza di uno stupro bisogna che la comunità si faccia carico di quell’impegno, deve essere pronta ad accoglierlo con amore anche se la madre lo ha giustamente rifiutato. I due genitori non sono necessariamente le sole persone capaci di garantire tutto il necessario ad un cucciolo di uomo. Certo una società rabbiosa e cattiva non sa dare il calore sufficiente, ma in questo caso è anche difficile che lo stesso calore si trovi all’interno di troppe famiglie inquinate dall’odio. Solo l’accettazione incondizionata della vita in ogni sua forma può costituire una premessa per una possibilità di amore universale, del padre, della madre e del figlio. Le donne debbono capire che non hanno diritti assoluti nei confronti delle forme di vita che si costituiscono nel loro grembo, ma già in quella sede valgono i diritti di tutti e anche della natura. Bisogna avere il coraggio di accettarlo.
Per questo è importante una cultura che proponga la sessualità come una forma di piacere, unito magari anche all’amore. Un gioco che può entusiasmare, ma che non deve mai contemplare neppure per ipotesi, l’eliminazione di quelle che potrebbero essere le conseguenze di un «incidente». Dobbiamo conoscere il nostro corpo, la nostra fisiologia e anche la nostra natura. Soprattutto ci deve essere la possibilità del piacere e della felicità.
Come dobbiamo difendere questi nostri diritti dalle insidie del contagio che porta alla malattia e alla morte, così dobbiamo proibirci l’eventualità di procurare la morte di un altro essere umano, sempre.