Archivio di marzo 1992

83 – Marzo ‘92

domenica, 1 marzo 1992

Ha suscitato grande emozione – come era giusto che fosse – l’esecuzione di Robert Alton Harris, avvenuta martedì 21 aprile alle ore 6.21, nella camera a gas del carcere di San Quintino nello Stato del Texas. Un ‘indignazione generale che si è espressa in mille forme, anche con cortei di protesta e sit-in contro una forma legalizzata di omicidio. Tutte queste manifestazioni sono considerate – come è giusto che sia – espressioni di sensibilità umana e progredita coscienza civile, legittimamente in atteggiamento di obiezione a leggi sancite dai governi e volute dal popolo, pur tuttavia considerate ingiuste. Altre manifestazioni di protesta contro un ‘altra forma di omicidio legalizzato si sono avute di fronte alle cliniche d’Europa e d’America in cui si pratica l’aborto, in osservanza a norme di legge sancite da governi e parlamenti e volute dal popolo. Queste ultime proteste sono però state giudicate reazionarie ed oscurantiste dalla parte «più progredita» dell’opinione pubblica, che ha anche insistito sulla necessità che venga garantito il diritto all’aborto, nel pieno rispetto delle leggi dello Stato.

Così non è giusto che sia: la vita umana e la legge sono due valori che vanno difesi o combattuti con maggiore coerenza, anche da chi si considera civicamente tanto avanzato da saper scegliere quali vite difendere e a quali leggi opporsi.

Prima di essere ancora una volta accusati di cripto cattolicesimo integralista, vorremmo citare, a chi distingue tra «vita umana» e «vita embrionale», o tra «vita 1» e «vita 2», l’opinione di uno tra i più lucidi, coerenti ed anticonformisti pensatori «laici» che il nostro secolo abbia conosciuto: «sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente.» (P.p. Pasolini, Corriere della sera, 19 gennaio 1975).

Pasolini era ben consapevole che quella dell’aborto è una scelta politica operata invece di un ‘altra scelta altrettanto politica e che otterrebbe gli stessi risultati di ecologia sociale e di prevenzione eugenetica: «tutti, dico, quando parlano dell’aborto omettono di parlare di ciò che logicamente lo precede, cioè il coito (…). Infatti il coito è politico.(…) Non si possono vedere i segni di una condizione sociale e politica nell’aborto (o nella nascita di nuovi figli) senza vedere gli stessi segni anche nel suo immediato precedente, anzi, “nella sua causa”: cioè nel coito.» (ib.).

Ecco che permissività falsamente libertaria e repressione bigotta rifiutano allo stesso modo di discutere il vero problema della sessualità distinta dalla procreazione, creando la falsa alternativa obbligata tra il rispetto per la vita e il progresso sociale, agitando lo spauracchio a due teste della morte e della miseria da cui non si potrebbe sfuggire. Ma sfuggire si sarebbe potuto già allora: «Il contesto in cui va inserito l’aborto è quello appunto ecologico: è la tragedia demografica che, in un orizzonte ecologico, si presenta come la più grave minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. In tale contesto la figura – etica e legale – dell’aborto cambia forma e natura: e in un certo senso, può anche essere giustificata una forma di legalizzazione.

Se i legislatori non arrivassero sempre in ritardo, e non fossero cupamente sordi all’immaginazione per restare fedeli alloro buon senso e alla propria astrazione pragmatica, potrebbero risolvere tutto rubricando il reato dell’aborto in quello più vasto dell’eutanasia, privilegiandolo di una particolare serie di “attenuanti” di carattere appunto ecologico. Non per questo esso cesserebbe di essere formalmente un reato e di apparire tale alla coscienza» (ib.).

82 – Marzo ‘92

domenica, 1 marzo 1992

Nonostante lo sforzo di molti, riesce difficile credere che la scadenza elettorale di aprile sia di quelle che possono segnare un momento decisivo per le sorti del nostro Paese.

Pur percependo sintomi diffusi che creano un quadro clinico abbastanza inedito, non pare che ci siano elementi sufficienti ad una trasformazione della realtà politica che da troppi anni perpetua una sindrome tra le più incurabili.

Forse la verità, quasi lapalissiana, è che gli italiani si meritano appieno la classe politica e la realtà sociale che da loro stessi vengono reiteratamente espresse. Basta a rendersi conto di questa banale constatazione non solo il perdurare degli schieramenti partitici tradizionali in posizione di potere rispetto a tutte le proposte alternative; ma proprio le caratteristiche più intrinseche delle liste elettorali che pretenderebbero di chiamarsi fuori dai vecchi raggruppamenti di governo o di maggioranza, di opposizione o di minoranza. Schieramenti trasversali, proclami liberazionisti, leghe geopolitiche, associazioni corporativistiche, tutti rivelano, in ultima analisi, una incapacità costitutiva di fare politica in modo nuovo, ed una impossibilità quasi assoluta di sfuggire ai giochi di interesse che favoriscono uno o l’altro di quei poli finanziari, pubblici o privati, che già così totalitariamente hanno fino ad oggi determinato le scelte politiche dei partiti tradizionali.

Questo fallimento è tanto evidente da riguardare (ove fosse possibile distinguere) oltre che la sostanza, addirittura la forma del gioco politico:

sempre volgare e violento, clamorosamente sleale, in tutte le sue multicolori ed illusionistiche versioni.

Non potrebbe essere diverso se è vero come è vero che la cultura (quando c’è) è quella televisiva e la socializzazione è quella degli stadi calcistici.

Se ancora una volta volgiamo gli occhi al «Grande Modello Americano», ci possiamo solo rendere conto della assoluta apparenza di una lotta politica che si pretenda basata sulle idee e che si ponga obiettivi di trasformazione in nome di questo o quel principio morale.

Proprio allo stesso modo in cui ce lo insegna il crollo dell’ultima cortina o l’abbattimento dei muri che hanno fatto piazza pulita del/’ipocrisia ideologica ereditata dalla Rivoluzione d’Ottobre.

Del resto non sarebbe auspicabile sfuggire a tanto cinismo pragmatistico attraverso una di quelle forme di fondamentalismo violento e razzistico che si costruisce sulla pelle dei più diseredati, mischiando miseria ed ignoranza per garantire un fanatismo disperato e criminale.

Forse c’è qualche margine di manovra tra questi totalitarismi negativi e la meschinità della politica infingarda da cui non sappiamo liberarci; ma ci manca ancora troppa cultura ed onestà per inserirvi una nuova pratica politica.

Accettiamo quindi di vedere ancora una volta noi stessi riflessi in un risultato elettorale: noi mafiosi, noi razzisti, noi prevaricatori, noi ignoranti, noi servitori del potere che ci hanno imposto e che ci siamo imposti.

81 – Marzo ‘92

domenica, 1 marzo 1992

Il libretto della Bohème che Illica e Giacosa trassero dal romanzo di Murger, Scènes de la vie de bohème, nel suo neo-barocchismo liberty non è del tutto privo di qualità letterarie. Il linguaggio oscilla continuamente tra verismo e similitudini da canzonetta; ma non è privo di efficacia drammatica e le situazioni, pur zuccherose, sono costruite con sapienza teatrale. Noi non sappiamo se sia meglio un libretto con un suo discreto valore che addirittura si insinua tra le maglie della musica fino a distoglierne l’attenzione dello spettatore, oppure sia più utile alla bisogna dell’opera un libretto sicuramente mediocre o pessimo come molti di quelli che hanno costruito le fragilissime impalcature letterarie dei capolavori musicati da Verdi, le cui parole hanno significato solo grazie alle note di cui sono rivestite e dietro cui arrivano a nascondersi. Ovviamente l’ideale sarebbe quello dell’unione perfetta dei valori letterari e musicali in una costruzione completa in tutti gli aspetti; ma ciò si è dato molto di rado nella storia del teatro in musica. A parte queste considerazioni da presuntuose algide zitelle, possiamo però affermare che Bohème è un’opera stupenda.

Non vi si coglie mai un momento di stanchezza, per chi sia capace di abbandonarsi al meraviglioso fluire della melodie, all’orchestrazione sapiente e ricca di fascino. I temi che si rincorrono sottolineando le varie situazioni emotive e con imperversante efficacia si insinuano quelli di Rodolfo e di Mimì, enunciati nel prima atto. La musica pucciniana esprime tutte le gamme dei sentimenti umani: l’allegria, la malinconia, a disperazione. I compositori contemporanei hanno malta da imparare da quelle arditezze armoniche e da quelle sapienze strumentali; ma soprattutto hanno da imparare la lezione della spudoratezza. Il perbenismo narcisistico ed esibizionistico affligge trappa pesantemente la musica dei nostri giorni.

Al Teatro dell’Opera di Roma è stata ripreso un allestimento scaligero del melodramma pucciniano realizzato da Franco Zeffirelli con Mirella Freni ancora nelle vesti della protagonista e il giovane tenore Francisco Araiza. Il grande e venerabile Soprano è stata ancora in grado di proporre una Mimì musicalmente valida e teatralmente efficace; forse dilatava un po’ troppo i tempi e si sentiva che il Direttore mordeva il freno. La giovane e fresca voce di Araiza ci è parsa malto adatta ad esprimere la pienezza passionale e malinconica del personaggio di Rodolfo. Davvero eccezianalmente appropriata al ruola di Musetta abbiamo trovato la voce bella, limpida e pungente di Adelina Scarabelli, alla quale solo chiederemmo di .offrire al suo personaggio un briciola di sensualità in più.

Decisamente opaca, per quanto ben mascherata dalle astuzie del mestiere, la voce li Nicolai Ghiaurov nell’aria della «vecchia zimarra». La direzione di Daniel Oren stata malta equilibrata, con qualche momento di intensa partecipazione: attenta ai coloriti e al fraseggio. Purtroppo l’orchestra, claudicante, non sempre gli ha risposto in modo adeguato. Gli altri componenti del cast: Pietro Spagnoli, Alfredo Mariotti, Roberto Sérvile, Andrea Snarski, Carlo Napoletani, Angelo Nardinocchi, Mario Tocci e Alberto Della Venezia, paiono tutti li buon livello, capaci di disimpegnare i loro ruoli musicali e drammatici. I costumi di Piero Tosi giustamente raffinati e apprezzabili non riescono però ad annullare il fastidio di una scena sempre troppo affollata e rumorosa anche per il cigalare continuo di macchine teatrali in azione. Il coro diretto da Paolo Vero ha lavorato onestamente.

81 – Marzo ‘92

domenica, 1 marzo 1992

Federico ed Isabella hanno problemi di coppia, per questo cadono nelle grinfie di Vittorio Gassman, sessuologo sporcaccione, che non li aiuta certo a risolvere alcunché. Non resta loro, in seconda battuta, che rispondere all’inserzione di Massimiliano e Petra, i quali propongono un’ammucchiata a quattro in una locanda sperduta nella Maremma, nella vastità di praterie affollate di ironici bufali. La cosa un po’ riesce e un po’ non riesce: le due ragazze scoprono che già si conoscevano, i due maschietti si trovano alle prese con omosessualità più o meno rimosse e gelosie incrociate, qualcuno somatizza ad ampie bolle. Le due coppie si sfasciano, ma solo temporaneamente, alla fine di divergenti percorsi verso l’ascesi si ritroveranno infatti in un laghetto della stessa Maremma, circondati dagli stessi bufali, riuniti romanticamente due a due, come era in principio. Pino Quartullo, autore già di una fortunata versione teatrale ha pensato di fare un film del suo Quando eravamo repressi e il risultato nella sua pochezza ci pare positivo. Le situazioni sono trattate con bel senso dell’umorismo; i quattro attori: Alessandro Gassman, Lucrezia Lante della Rovere, Francesca d’Aloia e lo stesso Quartullo hanno il fisico giustamente grazioso e adattissimo alle rispettive parti, è molto piacevole quindi vederli, quasi sempre nudi, rotolarsi in simpatiche scene stuzzicanti; inoltre sono quattro giovani che sanno recitare e riescono a superare con questa loro bravura anche i limiti della sceneggiatura dello stesso autore, come l’eccellente regia, ritmica e senza sbavature di sorta, ma che ha respiri poco più televisivi. Divertimento a parte, bisogna dire che il «messaggio» che passa dallo schermo allo spettatore non è molto nobile: siamo nella solita tradizione pecoreccia, velata di moralismo, che però si concede tutte le licenze possibili, salvo far trionfare alla fine la buona sana eterosessualità di coppia. La colonna sonora degli Stress è molto variegata ed appropriata e la fotografia diretta da Roberto Meddi svolge un ruolo certo importante nel catturare la benevolenza del pubblico.

81 – Marzo ‘92

domenica, 1 marzo 1992

Mercoledl 19 febbraio, nella sala Mississippi dell’Alpheus, in via del Commercio 36, si è tenuto un concerto della coppia Steve Lacy (sax) e Mal Waldron (pianoforte). I due hanno presentato un jazz di ottima fattura, con grosse risonanze degli anni cinquanta, ricche di impasti e sonorità alla Charlie Mingus e una bella capacità di sensuale piacevolezza sonora. Il sax soprano ha eseguito tutti i brani del programma con estrema maestria ed il pianoforte robusto ed espressivo costruiva armonie tradizionali e bizzarre allo stesso tempo. Si è cominciato con un piacevole brano simile ad un ricercare barocco, con chiazze atonali e lunghi periodi tonalissimi; sono seguiti un pezzo di gusto provocatorio, dallo splendido fraseggio, poi una pagina forse più ovvia, ma molto sensuale, quindi un ritmo quasi sudamericano, una bella ed esasperata melodia, un successivo . brano stravinskjiano, ancora poi una disarmante pagina melodica, cui hanno fatto seguito un brano oscillante tra Chopin e Coltrane e un blues beffardo ed ironico. Il concerto si è concluso con due pezzi di carattere molto diverso l’uno dall’altro nel primo dei quali il sax si è lanciato in arditezze sostenuto dal bordone del pianoforte, nel secondo momenti di pianismo schumanniano si alternavano ad altri di gusto orientaleggiante. L’ottima esecuzione dei due ha goduto del favore di un pubblico molto attento, concentrato e silenzioso, come raramente avviene di incontrare in una session jazzistica. L’Alpheus è un centro a molte sale, variopinto e ben aerato, dove ogni sera si possono seguire diversi programmi. Il servizio del bar offre molte possibilità; noi abbiamo apprezzato la scelta di buone birre e un po’ meno l’approssimazione con cui vengono miscelati e serviti i cocktail più noti: ad esempio, il Bronx ha troppo succo d’arancia, il Rusty nail eccede nel drambuie, il Negroni, squilibratissmo nelle sue parti, non solo ostenta un’incongrua fetta di limone, ma è contaminato da un’orrenda ciliegina assolutamente fuori luogo.

81 – Marzo ‘92

domenica, 1 marzo 1992

Gli imbrattatele al mondo sono tanti; ed è anche giusta permettere loro in qualche modo di esprimersi. Certo che vedere che si spendano tanti saldi e per di più scoprire che è stato scempiato (per fortuna salo momentaneamente) uno spazio cinquecentesco, come quello del Chiostra di S. Maria sopra Minerva, spezzando i suoi ritmi architettonici e rovinandone l’atmosfera, fa veramente dispiacere. Non una delle tantissime opere esposte alla mostra organizzata per il Fiar International Prize, realizzate da artisti under 30 provenienti dai più diversi paesi del mondo è degna di essere vista. Perché allora parliamo di quest’operazione pseudo-culturale?
Semplicemente per denunciare come si sprechino somme ingenti che potrebbero senz’altro essere meglio impiegate, per esempio nella tutela del patrimonio artistico. Le opere, premiate e non, poco si differenziano le une dalle altre. Pastrocchi di pseudo-arte figurativa, formale, astratta, concettuale e via dicendo si affollano, senza rivelare neppure una qualunque velleità di ricerca, ma piuttosto adagiate in un qualunquismo tradizionalista. Non riusciamo neppure a capire perché i padri domenicani che reggono questo splendido complesso monumentale abbiano accettato di prostituirsi fino a questo punto: noi speriamo che non sia stato per danaro, ma soprattutto per distrazione. Una operazione demenziale, così delirante come questa patrocinata dal Gruppo IRI Finmeccanica, può solo essere stigmatizzata e non se ne può dire di più.

Il Neo-classicismo è un’espressione artistica molto coerente ed inscritta in un’epoca precisa; in effetti coincide con il trionfo di Napoleone. Però ogni epoca della storia occidentale, per qualche aspetto, si è voluta richiamare alla c1assicità: sgangheratamente lo fece l’epoca degli Ottoni; un po’ rozzamente l’Umanesimo e il Rinascimento; con bizzarra stravaganza il Barocco; in modo piuttosto volgare la nascente repubblica statunitense; con infantile protervia lo fecero il nazismo e il fascismo. Chissà ancora per quanto colonne corinzie e frontoni biancastri imperverseranno al mondo. Noi detestiamo quella orribile cosetta, dalle proporzioni sgangherate che fingono un’euritmia inverosimile, che è il tempietto del Bramante nel cortile di S. Pietro in Montorio, il quale se pure è un’aberrazione è splendido in confronto di quanto altro i neo-classici hanno fatto. Seconda noi soltanto il Barocco ha potuto legittimare l’estetismo per cui ha voluto richiamarsi all’antica Ellade, tradendola ed imitandola, con allegria, sensualità e disperazione. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona pur ce l’avevano nell’anima un frammento di quell’antica bellezza, e forse proprio per questo nel loro tempo il coloratissimo Partenone esplose. Una fra le tante fantasie sull’antichità classica è quella che in epoca imperiale animò l’opera di Antonia Canova, artista di indubbie, straordinarie capacità tecniche, ma abissalmente lontana dall’Ellade. Le statue degli antichi greci erano variopinte come le statuine del presepio napoletano, perciò diversissime dai biancastri monumenti da cimitero borghese realizzati dal Canova. Noi ci siamo avventurati un mattino nelle sale di Palazzo Ruspali, dove la Fondazione Memmo ha allestito, meritoriamente, questa significativa mostra di Canova all’Ermitage, raccogliendo gran parte di quanto le vicende storiche hanno racchiuso per secoli in quel Museo russo e lì siamo stati travolti da orde di ragazzetti delle scuole medie superiori ed inferiori, giovani totalmente disinteressati a qualunque casa che non fosse l’opportunità di comportarsi in moda becero schiamazzando scioccamente e toccandosi reciprocamente il sedere, mentre professorini con la voce in falsetto e professoresse arrochite parlavano agli inevitabili due secchioni, ornamento di .ogni classe, di «tensioni ascensionali» e «ricerca della purezza classica». In quella raccapricciante bolgia però Canova ci ha per l’ennesima volta vinto. La sua è un’arte che ha comunque un significato: produce opere cimiteriali, di esasperata sensualità un po’ troppo effeminata, ma ricca di intense esplosioni drammatiche. Il marmo acquista una consistenza di cera; è quasi unto; i gesti talvolta eccessivi, sono in altri momenti profondamente tragici. La fisicità femminile viene stravolta in una stilizzazione quasi astratta, liquida e fredda.
Il corpo maschile esplode invece in una sensualità ricca di toni caldi, profondamente concreti in una carnalità eroticamente emozionante. Quello che vogliamo dire è che il Canova più sincero e più riuscito non è quello decantato dalla critica romantica e novecentesca, sintetizzabile in un’aulica esaltazione di una bellezza tanto idealizzata da non corrispondere più ad alcun canone e meno che mai a quelli classici; ma è a nostro avviso ravvisabile nel coinvolgimento drammatico che lo prende e ci prende davanti alle figure maschili, alle prese con tutta la gamma dei sentimenti umani: il dolore di Orfeo, la sensualità maliziosa dell’Amorino alato, l’abbandono di Amore sulle spalle di Psiche, la sicumera seduttoria di Paride e persino la volitiva forza dei tratti del volto nel Ritratto di Napoleone, in cui neppure l’intento celebrativo riesce a sopraffare il bisogno di verità. Chiediamo scusa se non sproloquiamo anche sulle Tre Grazie, sulla Maddalena, sulla Danzatrice, su Elena e su Ebe, ma l’abbiamo appena detto, su queste pur bellissime sculture già troppo fiato è stato sprecato e non sempre a proposito. A complemento della mostra strettamente canoviana è esposta nelle sale del museo anche la Collezione Farsetti, ampia raccolta di terrecotte di piccole o medie dimensioni, spesso lavori preparatori di opere successivamente realizzate in scala monumentale, rintracciabili oggi in chiese e musei, firmate da autori quali Gian Lorenzo Bernini, Alessandro Algardi, Stefano Maderno ed altri maestri italiani del XVII e XVIII secolo.

81 – Marzo ‘92

domenica, 1 marzo 1992

Gli storici sono come il sofista platonico: non si sa bene di che cosa si interessino e non si sa neppure dove si annidino; forse è vero che si nascondono nel «non essere» poiché essendo la materia di cui parlano tutto, in realtà è un nulla. Parlano di scienza senza essere scienziati, di religione senza essere teologi, di arte senza essere critici d’arte, di usi e costumi senza essere antropologi e così via, mettono insieme una serie di date, senza essere neppure calendari. A ben pensare, tutto sommato, quanto sopra vale per qualunque tipo di speculazione teoretica: lo stesso Platone è un filosofo, un politico o un mistico? Forse è un matematico, ma la matematica che cosa è? Il discorso si proietta verso l’infinito. Arthur M. Schlesinger Jr. «docente di storia moderna a Harvard dal 1961 al 1964, è stato consigliere speciale del presidente degli Stati Uniti. Ha ricevuto per due volte il premio Pulitzer…» è considerato uno storico fra i più illustri del mondo d’oggi. Nonostante quanto abbiamo finora detto degli storici possiamo affermare che I cicli della storia americana, (Edizioni Studio Tesi 1991, pagg. 662, Lit. 60.000) è un bel libro di storia, che racconta le vicende degli Stati Uniti d’America, dalla fine del Settecento, e anche prima, ad oggi, con molto buon senso. e buon gusto. L’opera è ricca di notizie, faziosa quanto è giusto perché non sembri acritica, esalta in modo forse un po’ spinto il mito della democrazia americana. L’autore è abbastanza spiritoso da saper prendere in giro se stesso e i suoi connazionali, racconta un’America un po’ vera e un po’ inventata (ma tutti gli storici inventano la storia di cui si occupano, come già ben sapeva Erodoto). Da buon imperialista Sch1esinger ha soprattutto orrore dell’imperialismo, e, come tutti i metafisici ha paura della religione. Parla con competenza di economia, ma ignora tutto riguardo il sesso. È la sua una esposizione prolissa, la cui lettura permette però di acquisire un utile bagaglio di informazioni. Un clamoroso scandalo getta inoltre su tutto il volume il fatto che sia stato scritto prima degli avvenimenti che negli ultimi tre anni hanno sconvolto l’ordine mondiale e che hanno dimostrato inoppugnabilmente l’infondatezza di gran parte delle analisi fatte dal buono storico americano, che si dimostra così meno attendibile della Madonna di Fatima, la quale però, si sa, le informazioni le ha sicure e sempre di prima mano.

81 – Marzo ‘92

domenica, 1 marzo 1992

Forse un ristorante aperto da pochissimo tempo non dovrebbe essere giudicato, in attesa che la situazione si stabilizzi e la cucina, la sala e la cantina si assestino sui possibili livelli di una gestione collaudata e continuativa. Però l’altra sera, uscendo dall’Antica enoteca Capranica, nell’omonima piazza, eravamo talmente soddisfatti e gratificati che abbiamo deciso di sbilanciarci. Ormai si sa che i Farfalloni non hanno molta stima della ristorazione della capitale: in genere la cucina è distratta, i vini sono mal tenuti, il servizio è impreciso, i tavoli sono addossati gli uni agli altri; così che quando va bene può accadere di gustare qualche rustica preparazione, offerta con bonarietà rozza e casareccia. Il grave è che lo stesso avviene ai massimi livelli di prezzo e di pretese mondane, in posti affollati di divi del cinema e della televisione e politici e industriali di prima grandezza. Le due grandi sale in cui si articola il ristorante diretto da Antonio Gulani, sono immediatamente accoglienti, i tavoli ben distanziati e apparecchiati con cura, le sedie sono comode e il servizio di sala, tenuto da giovanissimi camerieri è sufficientemente corretto, con un tocco di gentilezza e non disturba più di tanto la bizzarra idea dell’architetto che ha voluto esaltare con inusitate policromie le articolate antiche volte. Quello che però è soprattutto apprezzabile è la cucina di Francesco Zani, brillante chef che tiene alta l’insegna del suo Maestro, Angelo Paracucchi che è il nume e l’ispiratore della nuova impresa. Innanzi tutto le materie prime sono eccellenti e vengono trattate con il massimo rispetto delle loro caratteristiche, cotture per lo più rapide, senza essere affrettate, sughi leggeri, ma sapidi, senza la minima traccia di panna (Dio sia lodato!), un buon olio là dove serve ad esaltare il piatto. La scelta è piuttosto ampia senza essere sterminata, rivelando senso di responsabilità e consapevolezza. Noi possiamo dire del foie gras alle mele che era dolcissimo e profumato (abbiamo spregiudicatamente osato abbinarlo ad un ottimo e vellutato Porto e ne siamo stati soddisfatti); l’astaco e sogliole con salsa ai peperoni si traduceva in una sapiente armonia di sapori; la cernia al piatto era un saggio di cucina semplice che esaltava il pesce, il pomodoro e l’olio che lo componevano. Il risotto al piccione e tartufo nero, superbo, non faceva rimpiangere quello del Maestro, il riso era perfettamente cotto, il piatto generoso e ben condito; splendide le tagliatelle nere ai calamaretti e seppie, per l’equilibrio dei sapori e il giustamente «grintoso» profumo dell’aglio; le trenettine al pesto erano la versione sapiente e rispettosa di una cucina di tradizione con il tocco per noi nuovo delle zucchine. Il filetto di bue al tartufo nero era un «classico» senza imperfezioni; forse un po’ banale e al di sotto del livello complessivo la battuta di vitello ripiena di provolone e spinaci; una vetta di sapienza gastronomica la raggiungeva il lombo di agnello in crosta di erbe: morbidissimo, avvolto da una morbidissima crosta croccante, in una delicatissima e armoniosa salsa. Reggevano il confronto con il resto anche i dessert: crèpes alla mela, mantecato di caffé e crema di pistacchio, alcune squisite torte gelato e prelibatissima piccola pasticceria. Nonostante sia in via di assestamento, dalla cantina sono uscite alcune buone bottiglie, ricordiamo per tutte un fresco, scattante e fruttato Mueller Thurgau del Maso castel Warth del 1990 bianco, e un rosso Ghemme Collis Breclemae degli Antichi Vigneti di Cantalupo del 1985 armonioso, ed equilibrato, profumato di buona marasca. Abbiamo concluso con una scelta di ottime grappe. Il prezzo non è certo basso, ma è una delle volte in cui pensiamo valga veramente la pena di fare uno sforzo e magari un sacrificio. .