Archivio di ottobre 1991

Psicoanalisi contro n. 76 – Silenzi

martedì, 1 ottobre 1991

Prima di iniziare un lavoro psicoanalitico presso il centro che dirigo è indispensabile fare un colloquio con me; io lo esigo per due ragioni fondamentali: innanzi tutto perché sono io che indico il terapeuta col quale ritengo sia opportuno intraprendere l’analisi in base ad un giudizio d’insieme sulla situazione psichica ed esistenziale di chi si rivolge a noi ed inoltre per la validissima ragione che a me compete il lavoro di supervisione su tutta l’attività psicoterapeutica del centro medesimo, per cui ritengo utile aver avuto un contatto personale anche coi pazienti. L’incontro viene da me quasi sempre concluso con una sorta di «predicozzo» col quale ribadisco che il rapporto analitico, proprio perché è una relazione tra due persone, non ammette il ruolo passivo di una delle due parti, per cui anche il paziente deve affrontare gli incontri con l’impegno di voler aiutare il terapeuta e non limitarsi a subire l’analisi. Sottolineo poi l’importanza di mantenere un ritmo minimamente assiduo agli incontri, malgrado le resistenze e i desideri di fuga che possono insorgere; l’efficacia della cura richiede questa minima regolarità e frequenza, senza le quali non è pensabile alcun risultato. Spesso il paziente sente gravemente il peso delle sedute, lo affatica l’idea di un incontro al quale gli pare di presentarsi con la mente vuota, senza nulla da dire che non sembri sciocco o inutile. Proprio qui si nasconde il pericolo più grande: nella tentazione di approfittare del proprio disagio per rinunciare, per interrompere l’analisi. Ci si giustifica anche ventilando a se stessi la prospettiva di altri possibili analisti con cui riprendere, più simpatici, più comprensivi, più capaci di stimolare chissà quale fiduciosa facondia discorsiva. lo esorto sempre a non aver paura del silenzio che si può verificare nella seduta; riconosco che è una situazione pesante anche per l’analista il quale soffre nel vedere il paziente, rigido, che gli sta di fronte, muto e contratto; nell’accorgersi che le dita torcono i bottoni degli abiti, che le unghie si conficcano nell’imbottitura del divano della sedia, nell’assistere a conflitti interni che così evidentemente squassano l’intera persona. Spesso mi sento dire da chi mi sta di fronte: «Ho l’impressione di essere stupido, di non saper dire niente di interessante. Vorrei, ma la mia vita è così triste e squallida, i miei pensieri così inessenziali che mi vergogno a manifestarli». Inutilmente mi affanno a ribadire che tutto quello che viene detto in analisi è interessante: non è compito del paziente decidere se quello che egli viene dicendo sia o non sia utile; più importante è che continui a parlare. Talvolta si riesce a sciogliere in tempi brevi il blocco del silenzio, altre volte l’attesa può essere molto lunga, col rischio che il paziente, vittima di se stesso, non regga e abbandoni.
Una persona che, molti anni orsono, faceva analisi con me, la interruppe per ben quattro volte. Ogni volta ripeteva: «Non so che dire, il silenzio mi pesa troppo; e quando mi sforzo di dire qualcosa mi sento assolutamente un idiota». Allora io avevo anche la disponibilità di tempo che mi permetteva di compiacere in parte i capricci suscitati dalla sofferenza e avevo assecondato il suo andare e venire con molta pazienza, prima di trovare il momento giusto in cui affrontare di petto la situazione mettendolo con chiarezza davanti alle sue responsabilità. Dopo, non tentò più di fuggire, anche se furono molte le sedute burrascose o di nero mutismo.
Ricordo la cupezza di quei silenzi, con la rabbia che saliva in lui e che contagiava alla lunga anche me; ricordo le poche frasi irritanti ripetute caparbiamente: «Non so che dire, non mi viene niente, sono solo stupidaggini quelle che direi, che non possono servire a niente». Ho ben presente l’aggressività di richieste del tipo: «Oggi parli lei, perché io non so cosa dire». Allora ero giovane, forse più entusiasta, senz’altro più debole di oggi. Una volta caddi nell’inganno del mio tirannico paziente e incominciai a parlare.
Ben presto mi accorsi che non mi stava a sentire: continuava a contorcersi, pensando a ciò che non mi voleva dire, o forse sforzandosi di non pensare le cose che non riusciva però a scacciare dalla mente. Adesso io sono più calmo e determinato, forse anche più spietato e riesco a tacere implacabile, se lo ritengo utile.

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Quale era il motivo di quell’intoppo? Cosa aveva rischiato di far fallire quell’analisi? Quale pensiero veniva costantemente respinto? La risposta si rivelò addirittura banale, tanto che penso lo abbiano già intuito i lettori di queste righe. Nel corso della seduta burrascosa alla quale ho prima accennato ci fu un punto in cui il mio paziente mi disse: «Ho fatto un sogno, ma non ho il coraggio di raccontarlo». Era tanto tempo che non mi portava sogni in seduta ed ora mi diceva con rabbia e con odio quella frase; ma io percepivo sotto quell’apparenza il suo essere spaurito e tremante. Iniziò una vera e propria lite; giungemmo quasi agli insulti reciproci: mi accusava di essere sadico ed io lo accusavo di essere vigliacco. Alla fine cedette, spossato. Allentò tutti i muscoli e balbettando come un bambino troppo timido mi raccontò che aveva sognato che lui ed io ci trovavamo al centro di una grande piazza e ci baciavamo sulla bocca. Dopo quella confessione tornò ad irrigidirsi, si alzò in piedi, mi prese la mano e mi disse: «Debbo andare». E uscì, senza che fosse finito il tempo della seduta. lo rimasi sulla mia poltrona turbato, ma soddisfatto, con la certezza che sarebbe tornato.

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L’ipotesi che quella persona si fosse innamorata di me e ne fosse diventata consapevole mi era certo balenata in mente, ma mi era sembrata una spiegazione persino troppo semplicistica, addirittura sciocca ed ingenua. Eppure la rabbia che egli esprimeva non poteva avere altra giustificazione; l’odio che mi manifestava era con troppa evidenza la copertura di un altro sentimento, addirittura opposto; tanto che io tardavo a rendermene conto Il anche perché inconsapevolmente mi dava fa fastidio accettare l’idea di trovarmi di fronte per l’ennesima volta al solito gioco che la psicoanalisi ha da sempre praticato, del capovolgimento di quello che appare per trovare quello che c’è. Si dice bianco quando si pensa nero; si dice: «Ti odio», quando invece si vorrebbe dire: «Ti amo». Eppure quei silenzi che talvolta si scioglievano in lacrime; le mani aggrappate al bracciolo della poltrona che sembravano faticare per non compiere un gesto intensamente voluto; quel silenzio ostinato ed apparentemente cattivo stavano a dire che le parole erano inutili quando si sarebbe voluto fare altro: fare l’amore. Anche io forse mi stavo difendendo, avevo paura del suo, ma anche del mio innamoramento, per questo rifiutavo di capire, col pretesto di respingere una spiegazione troppo ovvia. I Il racconto di quel sogno liberò entrambi: I potemmo riprendere a parlare, dapprima con fatica, poi sempre più liberamente, mettendo in causa anche questo amore impossibile, moralmente condannato. Mi parlò dei suoi amori passati, dei rifiuti che lo avevano umiliato, del timore di essere rifiutato ancora.
Lentamente riuscii a fargli capire che non c’era nulla di impossibile nel suo innamoramento per me, anche se forse non si sarebbe mai tradotto in un rapporto fisico. Gli dissi che la via della guarigione per lui poteva passare anche attraverso la consapevolezza di quel desiderio. Entrambi arrivammo a capire che l’amore non deve fare paura.

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Nel corso del colloquio preliminare con coloro che mi chiedono un’analisi dovrei dunque dire subito qualcosa che metta in guardia contro il grande pericolo rappresentato dalla tentazione del silenzio, ma non lo faccio, non dico a nessuno che il silenzio è un implicito invito a fare altro che non sia l’analisi, che è una proposta sessuale. Sto anzi piuttosto in guardia, attento a non esplicitare tutto questo. Al contrario, sono molto chiaro a questo proposito con gli allievi durante le lezioni, nei seminari pubblici, quando scrivo, perché lo ritengo molto utile. Quando invece lo stesso argomento venisse trattato al primo incontro, allora si rischierebbe di compromettere tutto il lavoro successivo. È preferibile che il discorso sull’innamoramento resti sottinteso, impalpabile, con la possibilità di essere negato fino al momento giusto. Ricordo una persona che si affrettò a dirmi: «Non creda che io mi innamori con tanta facilità del mio terapeuta». Era un ragazzo molto orgoglioso della propria virilità, soddisfatto della sua reputazione di dongiovanni.
«Poi se mi affiderà ad un analista maschio sarà proprio impossibile che io me ne innamori». Sorridevo dentro di me, colpito dalla simpatia che mi ispirava quel giovanottello così prevedibile, così banale.
Lo affidai alle cure di un terapeuta di cui ovviamente si innamorò senza ritegno. Un giorno mi telefonò pretendendo con urgenza un colloquio. Entrò nel mio studio, visibilmente turbato, mi disse: «Mi sono innamorato di lui. Ero sincero quando le dissi che non credevo che mi sarebbe mai potuto accadere, perché è successo?» Non lo aveva ancora confessato all’analista, non ne aveva il coraggio, passava le sedute in faticoso silenzio; ma egli era pienamente consapevole. Si tormentava notte e giorno, faticava a sopportare quel peso, mi chiese di poter cambiare terapeuta. Non acconsentii né rifiutati esplicitamente, gli consigliai solo di attendere ancora un poco. Un mese dopo non aveva ancora avuto il coraggio di dire nulla, mi pregò di assegnargli una terapeuta donna, così non lo avrebbe spaventato troppo l’idea di innamorarsene. Gli feci notare che non ci si innamora così meccanicamente, gli consigliai di procrastinare ancora qualche tempo ogni decisione. Uscì dallo studio con l’aria soddisfatta e spaventata: quell’analisi proseguì.
Il lavoro del supervisore è indubbiamente faticoso: ogni gesto ed ogni parola diventano compromettenti, influiscono sul lavoro di altri con seri rischi per tutti. lo so di rischiare ogni volta che intervengo, ma lo debbo fare. Talvolta vorrei fuggire anch’io, o restare in silenzio. Mi chiedo allora: «Di chi sono innamorato io? A chi non oso esplicitare il mio innamoramento?»

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Non vorrei con gli esempi che ho portato p sopra aver indotto nei lettori una conclusione errata. Non vorrei che avessero dedotto che il paziente che con il silenzio si difende dalla consapevolezza dell’innamoramento sia necessariamente colui che s prova un sentimento di attrazione
omo-sessuale; ciò non è assolutamente vero: l ci si difende dall’innamoramento comunque. La storia individuale può indurre in qualcuno un terrore particolare per l’innamoramento omosessuale; ecco, allora, le fughe, i silenzi per tacere ciò che si vorrebbe dire. Nell’inconscio sociale della nostra cultura, ma io credo di tutte le culture, si cela una grande paura dell’amore; apparentemente potrebbe sembrare che l’amore omosessuale spaventi di più per la condanna morale che comporta. Nella particolare situazione del rapporto psicoanalitico, rendersi conto di essere innamorati del proprio terapeuta dello stesso sesso, può anzi, spaventare un po’ meno, perché si è ormai diffusa la convinzione, non solo inconscia, che la bizzarria dell’essere umano è imprevedibile, che le pulsioni omosessuali esistono per cui, in fondo, l’analisi finisce per costituire un alibi di copertura morale a sentimenti che così si esprimono senza troppe soggezioni, rassicurati dal fatto che l’analista ci proteggerà dal rischio della realizzazione pratica del desiderio. Più grande è lo spavento se l’amore omosessuale si manifesta per qualcuno che è estraneo all’analisi; ma in ogni caso si ha più paura quando si scopre un sentimento d’amore per una persona di sesso diverso, con la quale magari da tempo esiste un rapporto consolidato di amicizia, di collaborazione professionale, di militanza politica, di impegno culturale; fa paura perché viene visto come più facilmente realizzabile, senza che nessun giudizio morale possa frapporsi. Insomma non è la modalità più o meno anomala dell’amore, ma è l’amore in sé che terrorizza gli esseri umani.

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Il fondamento della mia teoria è che Eros, il principio originario d’amore, costituisce tutti gli esseri umani e forse tutti gli esseri viventi. Cosa spiega allora questa paura generalizzata di amare? Non è in contraddizione con la mia teoria? Perché si dovrebbe avere così paura dell’esigenza costituiva, del bisogno più profondo dell’uomo? La risposta è proprio in questo: Eros è una necessità imprescindibile, proprio perciò fa paura. Si percepisce che senza l’amore sarebbe messa a repentaglio la stessa esistenza, senza l’amore forse nulla sarebbe esistito e nulla potrebbe sopravvivere; ma poi ciascuno si ritrova scagliato in un mondo in cui è tanto difficile amare. Questa è la condanna dell’uomo; forse il Paradiso è proprio la possibilità di amare senza condizioni, senza ostacoli. Così io penso, così vorrei che fosse.
La prima frustrazione di questo bisogno d’amore ha messo in moto le difese originarie, e tutte quelle successive. L’uomo vorrebbe amare ed invece è costretto perennemente a difendersi. Non so dire perché tutto questo è avvenuto, però sono convinto di questa realtà: ci si difende quando ci si sente attaccati, perché si è in guerra. Non so chi abbia scagliato la prima freccia, ma qualcuno lo ha fatto, forse perché non possa realizzarsi il Paradiso qui in terra; anche se vale la pena di andarne continuamente alla ricerca. Solo Eros riesce a mediare la contraddittorietà dei sentimenti umani, solo l’amore può efficacemente combattere contro l’inevitabilità della guerra tra gli uomini.

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Mi pare di non aver chiarito quale deve esser il comportamento dell’analista che percepisce dietro al silenzio del paziente la richiesta di realizzare un desiderio sessuale. Non posso dare istruzioni generali, perché sarebbero anche generiche; però è possibile fornire qualche indicazione di massima. È molto rischioso rivelare al paziente le sue vere esigenze se egli ne è già consapevole: in tal caso il terapeuta si mette in una condizione di debolezza, il paziente, vistosi scoperto può difendersi non solo negando come è ovvio; ma beffando l’analista e rovesciando la situazione: «Cosa credi che il mondo stia aspettando te? Pensi che possedere due formulette ti dia il diritto di decidere cosa gli altri desiderano; è una tua ossessione che ti fa vedere sesso ed innamoramenti dappertutto. Non farti illusioni, di te non m’importa proprio niente. Anzi ti dirò che non mi piaci affatto, non mi piace nulla di quello che fai e che ti sta intorno.
Non vedo proprio perché dovrei continuare un lavoro di psicoanalisi con una persona che stimo così poco e che anche professionalmente non mi dà garanzie».
Un terapeuta che si è esposto ad una simile aggressione e che ha subito una così grande svalutazione, difficilmente riuscirà a recuperare e a condurre a buon fine il suo compito. Quando allora si debbono esplicitare al paziente i suoi desideri inconfessati? La cosa migliore è che questa pericolosa verità affiori lentamente alla coscienza e se egli ne è già consapevole bisogna aiutarlo, con cautela, a dire ciò che non riesce ad esprimere; poi si potrà proseguire con più sicurezza, sebbene sempre con trepidazione, sviscerando anche questo nuovo elemento del rapporto analitico.

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Se però si giunge al punto in cui le resistenze sono tanto forti da avere la meglio sull’innamoramento e se il terapeuta si rende conto che l’analisi potrebbe essere interrotta dal paziente che non regge più alla frustrazione, bisogna allora pretendere che racconti i suoi sogni. Se si riesce in quest’intento, senza dubbio attraverso i sogni sarà possibile isolare gli elementi che potranno essere interpretati come messaggi d’amore per il terapeuta. Servendosi del fragile schermo del sogno si potrà giungere a parlare del sentimento di amore. È come quando si stappa una bottiglia di spumante: non bisogna fare il «botto».
Prima va tolta con precauzione la gabbietta di fil di ferro, poi il tappo va guidato lentamente col pollice, lasciando fluire il gas poco a poco. Il paziente neppure deve fare il «botto», ma bisognerà poco a poco lasciargli scaricare la tensione. Bisogna ovviamente che l’analista sia molto a abile. Deve saper essere in accordo col paziente, saper intrecciare con lui un aro dito contrappunto, ricco anche di improvvisazioni. Se i sogni non arrivano, o il :e paziente si rifiuta di riferirli, allora bisogna correre il rischio di tirare troppo la sì corda, di perdere il paziente. Ogni analisi ha i suoi tempi imprevedibili dall’esterno, ogni momento dell’analisi ha i suoi ritmi interni. Solo l’orecchio del buon analista li sa cogliere. Anche in ciò sta l’entusiasmante aspetto del faticosissimo lavoro dell’analisi.

76 – Ottobre ‘91

martedì, 1 ottobre 1991

Chi non legge con troppa distrazione questa rivista e segue da almeno qualche tempo l’attività culturale e scientifica di Psicoanalisi Contro – e di Sandro Gindro in particolare – si è certamente stupito di scelte di campo che, progressivamente, hanno determinato uno schieramento filosofico-politico che fino a ieri sarebbe stato facile definire «reazionario». Lo spostamento dell’asse politico mondiale ha molto modificato i giudizi su ciò che può essere considerato sintomo di conservatorismo o di progressismo, ma resta, tuttavia, qualche motivo di perplessità.

È bene quindi cercare di eliminare i possibili equivoci. La psicoanalisi gindriana si è fin da subito proposta come una visione del mondo, in funzione della quale trovava fondamento l’applicazione di una tecnica terapeutica. Orbene, la psicoanalisi venne proposta come strumento preferibile ad ogni altro, proprio perché garantiva al massimo grado relativo il rispetto della persona, sana o malata, e prevedeva il recupero della consapevolezza delle dinamiche inconsce individuali e sociali. Fin da subito, a fianco della scelta interventista nei confronti delle patologie dei singoli  come dei gruppi, ci fu un’altra scelta, considerata come assolutamente primaria, della vita ad ogni costo. Essere antiabortisti ha significato così essere «contro» un malinteso concetto di libertà che sinistra e femminismo avevano fatto proprio, e che persiste oggi in omaggio allo stesso fraintendimento. Pochi mostrarono allora interesse per il nostro discorso complessivo, che spostava sulla educazione sessuale l’esercizio di una più radicale libertà di scelta. L’equivoco è oggi diventato programma politico di tutti i partiti riferibili più o meno all’area cosiddetta social-liberale, mentre la difesa della vita come valore assoluto è rimasta patrimonio programmatico di un centrismo clericale che la ha fatta propria, rimuovendo però, ancora una volta, ogni considerazione etica o politica sul significato che deve essere attribuito ad ogni scelta sessuale. Considerazione che non può essere confusa con alcun messaggio liberazionista, ma che può solo rifarsi ad un nuovo umanesimo che riconosca il dovere di combattere in ogni loro aspetto perversioni come il narcisismo e il sadomasochismo che, umiliando la dignità umana, ne negano ogni possibile libertà, sessuale ed esistenziale. Ovvio che, in questa prospettiva l’atteggiamento fondamentale dei gindriani risulti anche ora un po’ contro tutti e tutto. L’altra scelta importantissima è stata quella dell’arte intesa come esercizio di salute e restituita all’autonomia che le è propria, affrancandola anche dall’interpretazionismo psicoanalitico che la vorrebbe troppo compromessa con una pretesa irrazionalità dell’inconscio. Anche qui l’impostazione del gruppo risultò inaccettabile per quegli pseudo-illuministi che fanno del senso comune il loro credo e che nella stupidità dei mass-media ripongono evangelica fede; ciò soprattutto quando in modo esplicito Gindro sostenne l’essenzialità dell’arte come rapporto di comunicazione con il Divino. Eppure sono proprio i limiti di un laicismo squallido come quello che oggi impera ad imporre punti di riferimento che trascendano il quotidiano quel tanto che basti per legittimare la speranza, per stimolare una carità che si esprima come amore per l’altro da sé. Così accadde che, stando fermo su pochi principi, il gindrianesimo si sia visto venir contro gli uni e gli altri; confortato soltanto dalla scomodità di una posizione che è una specie di certificato di garanzia contro ogni tentazione di opportunismo. Se è difficile tenere il piede in due scarpe, è un virtuosismo bello e buono imporsi di tenerli entrambi in una soltanto!

76 – Ottobre ‘91

martedì, 1 ottobre 1991

L’anno prossimo ricorrerà il bicentenario della nascita di Gioacchino Rossini. Pensiamo che quindi rientri nel progetto celebrativo la produzione che la RAI ha deciso insieme con tre coproduttori, francese, tedesco e spagnolo del film Rossini! Rossini! Il grande compositore di Pesaro ha rappresentato una delle vette musicali della cultura dell’occidente ed è da noi profondamente amato. La sua musica è elegante e raffinata, ma nel contempo, immediata, coinvolgente e fruibilissima da tutti. Grandissimo nel teatro, raggiunse i vertici anche nella musica da camera e religiosa. Arguta fino all’inverosimile, la sua musica pure è capace di esprimersi in momenti di grande profondità e malinconia. Non si può certo ridurre Rossini ad un paio di cabalette ed una tarantella; la sua arte è ricca, completa e significativa. È quindi possibile che di tutto questo non resti nulla nel personaggio che Mario Monicelli ha disegnato nel suo film? Senza dubbio Rossini non era quel tipo di compositore romantico che si svenava sulle tastiere dei pianoforti e tutti sanno, lo racconta persino l’aneddotica popolare, che era amante del buon cibo, delle donne, della mondanità, del fasto e dell’allegria; ma quella che viene raccontata sullo schermo è soltanto la banale vita di un ometto insignificante. Sembra persino che non gli interessi un gran che la stessa musica. Scodinzola attorno al contralto Marcolini e al soprano Colbran, intrattiene banali rapporti con alcuni amici e da vecchio, circondato da idioti e ridotto all’idiozia egli pure, racconta un po’ depresso aneddoti sulla sua vita, scontati e di sapore scolastico. In tutto il film due personaggi soltanto ci sembrano sufficientemente riusciti: un vecchio cane San Bernardo intrigante e nostalgico e l’impresario Barbaja che Giorgio Gaber riesce a rendere con estrema umanità ed efficacia nella sua sciacallesca bonomia. Tutti gli altri non esistono: sono involucri più o meno fastosi che, tra crinoline rasi e salotti si aggirano e si affannano senza mai acquistare una psicologia che li caratterizzi come esseri credibili.
Il protagonista stesso, Rossini, è addirittura spaccato in tre: del bambinetto petulante e canterino non si ritrova nulla nel giovanotto vacuo ed insulso cui dà corpo Sergio Castellitto, del quale non rimane nulla a sua volta nella figura del vecchio obeso ed ipocondriaco che con rassegnata pazienza interpreta Philippe Noiret. Per coprire tanta inconsistenza si fa un grande spreco di contorni: scene di battaglia, lussuosi interni, costumi sfarzosi, preziosismi viscontiani nei dettagli, senza che tutto questo si coaguli in un clima vero e proprio e neppure si trasformi in un’epopea; di tanto sforzo sono meritevoli artefici la fotografia di Franco Di Giacomo, le ambientazioni di Franco Ve1chi, gli arredi di Bruno Cesari ed Ezio Di Monte e lo scaltrito montaggio di Ruggero Mastroianni. Il commento musicale, «quasi» tutto di Rossini, come è ovvio che sia, è stato scelto con gusto sicuro e grande perizia da Bruno Cagli e rende con la sua intrinseca bellezza sopportabili le lungaggini del polpettone. Ciò che procura un leggero senso di disorientamento viene dalla sovrapposizione di due livelli così diversi: da un lato si gode l’emozione di una musica di grande bellezza, a volte raffinata e persino sublime; mentre dall’altro canto si vedono scorrere immagini di nessun interesse che non sono neppure capaci di ricostruire una qualunque storia. Se questi vogliono essere gli intenti della divulgazione culturale ed artistica, dobbiamo dire che ancora una volta si sbaglia, proponendo solo un seguito di banalità che ottundono le possibilità critiche di chiunque.

76 – Ottobre ‘91

martedì, 1 ottobre 1991

Alwin Nikolais è senza dubbio un furbacchione: approfittando del fatto che, per lo più, la critica, il pubblico e gli stessi danzatori non ascoltano la musica di accompagnamento nel balletto, finge di essere anche un compositore e firma oltre alle coreografie anche la base sonora dei suoi spettacoli, pur non avendo nessuna nozione (lo speriamo per lui) della composizione musicale. Così ci guadagna anche i diritti d’autore che andrebbero al musicista. L’oscenità delle sue colonne sonore raggiungerebbe il delirio se non fosse superata dalla loro monotonia: orrendi suoni elettronici si sovrappongono ad arpeggi o melodiuzze, sempre stonate ed artificiali, in una ripetitività ossessiva.
Anche le coreografie di questo applauditissimo balletto andato in scena al Teatro Olimpico non sono un gran che. Allievo della Graham e della Holm, ha preferito rivendicare come ascendente quest’ultima insieme ad un astrattismo di derivazione pittorica. Il risultato è un grande assommarsi di luci che complicano i fondalini dipinti davanti ai quali i suoi ballerini si muovono in un moltiplicarsi di disegni che sembrano movimento, ma non lo sono. Il movimento vero e proprio è piuttosto schematico, si evolve in simmetrie e caleidoscopie, c’è un compiacimento che è tutto mimico ed un moralismo di fondo: automi, insetti, astronauti, pupazzi e marionette, spesso legati ai fili con un’aggiunta quindi ancora una volta di un’impressione dinamica che poco ha da spartire con la danza. Anche le evoluzioni cronologiche sono minime. Da «Tensile Involvement» del 1953, a «Tempie» del 1974, fino a «Mechanical Organ» del 1980 e «Liturgies» del 1983 le ispirazioni restano le stesse e caso mai si inaridiscono se è vero che solo nella prima coreografia la dinamica grafica non esaurisce un progetto che spinge uomini e donne ad esprimere una danza che cerca ritmi, slanci e accattivanti momenti di ingenua sensualità, non ancora ridotta alla caricaturalità erotico-mistica di Liturgies.

76 – Ottobre ‘91

martedì, 1 ottobre 1991

La mostra di Carlo Cattaneo a Palazzo Braschi si raccomanda per l’articolata intelligenza dell’allestimento: della copiosissima produzione del pittore di Alassio viene presentata una scelta che nella sua essenzialità ha però il requisita della completezza.
Tanto che la sensazione che se ne trae è quella di aver visto «il quadro» di Cattaneo.. Le atmosfere delle tele, degli oli, delle matite e degli acquerelli si ritmano: luci, ambre, amore per la vita e inquietudine per la morte si intrecciano, accompagnando il visitatore nel mistero di un monda ricco e talvolta annebbiato. La scena che si rappresenta è vita, ma è soprattutto teatro e le figure si lasciano sorprendere lascive e celate alla stesso tempo; non c’è naturalismo o verismo, ma sempre rappresentazione, sia quella collettiva del1e locande affollate, sia quella più circoscritta dei gruppetti o delle coppie, infine addirittura quella individuale delle figure alle prese con loro stesse: bambine, modelle, autoritratti, solo apparentemente colti di sorpresa, ma in realtà già disposti ad una recita per compiacere l’osservatore e forse anche il pittore. La rappresentazione poi si intrica vieppiù, si affolla di oggetti e di animali, si affolla anche di quadri che si espongono a loro volta. L’esibizionismo è in certi particolari espliciti delle anatomie, soprattutto femminili, ma è anche nel raddoppiarsi del soggetto in un doppio ritratto negli amplessi paralleli alla scena principale, come in Salomé o nel Violinista, dove il titolare del quadro è quasi spodestato dalla prepotente scena di sensualità che lo relega in un angolo della tela. Inoltre ovunque è un brulicare di animali: insetti, a volte decorativamente significativi come le farfalle, ma anche uccelli e soprattutto cani: che giocano, che siedono in grembo, che osservano, che partecipano. Cattaneo ha sfiorato la psicoanalisi, se ne è rapidamente allontanato, senza puerilmente contestarla, ma senza accettarla, l’incontro lo ha però segnato, anche se il rispetto e la stima, oltre che l’amicizia rendono illegittimo il gioco spesso crudele delle «interpretazioni».

Alla Galleria l’Isola, di via Gregoriana, c’è stata la ripresa di una mostra nata nell’ambito del festival di Todi, curata da Vittoria Zileri Dal Verme. Si tratta di un gruppo di sculture che sono rappresentative di una tendenza che accomuna gli autori, pur nella diversità del loro operare. La caratteristica principale di questa Scultura in atto è l’assoluta banalità di concezione: non c’è neppure una sufficiente capacità di giocare con i materiali, caratteristica che si può talvolta riscontrare nelle cosiddette «opere informali». Non vi si trova altro che la ripetizione ennesima del qualunquismo pseudo-culturale. In catalogo si prodigano a giustificare teoreticamente la validità di questi tentativi firme importanti: da Briganti a Trucchi, da Tosi ad Argan, ma leggendo e rileggendo. non ci pare che neppure questi autorevoli maestri del pensiero critico trovino argomenti sufficienti: dire «strutture primarie» a proposito del cubo di Nicola Carrino; parlare di «stratificazioni di energie» davanti alla scultura stratosferica di Eliseo Mattiacci; sostenere che la forma delle terre cotte di Nedda Guidi stia nel «nascondere l’ansia del cuore» ci sembra un modo di offrire alibi culturali ad un operare che non sa riflettere sui propri mezzi e sui propri fini. Cercando di non sembrare totalmente privi di umorismo diciamo che abbiamo gradita la lepidezza del giochino in bronzo brunito di Giuseppe Maraniello, vivacizzato da un buffo diavoletta pensosa (da cui, forse il titola «Riflettere») così stigmatizzato da Lea Vergine: «Lo spazio non si sa mai se sia qualcosa di pieno a di vuoto, se sia materia o niente, se il vuoto è pieno ostentato o se il pieno è un vuoto orientato».

La mostra della calcografia nazionale dedicata alla grafica cecoslovacca, presenta una grande quantità di opere e di artisti contemporanei dalle tendenze estetiche e dalle poetiche più disparate. Un filo conduttore ci sembra però accomuni sia i cechi sia gli slovacchi presenti alla rassegna: la figura di Franz Kafka. Dappertutto l’immagine si fa metafisica, religiosa, angosciata, depressa e pervasa da un’ironia acre ed un poco imbelle. Come se tutti dicessero: «il mondo è una disperazione e così è destino che sia in eterno». Un grande artista influenza i suoi conterranei, però a sua volta è frutto dell’inconscio sociale da cui anche la sua opera scaturisce.
Questa è una mostra di grande interesse per chi abbia voglia di abbandonarsi alla filosofia; si esce con l’amaro in bocca e l’impressione di aver vissuto un’avventura inutile, proprio come dopo aver letto le vicende dello scarafaggio dell’autore praghese. Dal grottesco al magico si intitola la mostra allestita in via della Stamperia e noi abbiamo apprezzato la favolistica del ceco Adolf Born fatta di turchi e pifferai e le inquietanti farfalle di Ladislav Cepelak, l’esoterismo degli oggetti luminosi di Ondrei Michalek, l’impegno di Oldrich Kulhanek e il simbolismo narrativo di Karel Demel. Tra gli slovacchi ci ha interessato molto la grafica ricca di allegorie permeata di surrealismi di Albin Brunovsky e di Vladimir Gazovic, quest’ultimo più irridente, a tratti osceno, ma arguto nell’evidenziare piccoli sordidi particolari che conferiscono al suo disegno una connotazione moralistica e beffarda allo stesso tempo.
Meno convincenti i tentativi modernizzanti che paiono sudditanze non critiche agli schemi di un occidentalismo di maniera, anche se sempre le tecniche sono padroneggiate con bella sicurezza.

76 – Ottobre ‘91

martedì, 1 ottobre 1991

Il volume di Anatoli Sobciak, Leningrado. San Pietroburgo (Mondadori, 1991, pagg. 347, Lit. 32.000) va assolutamente letto. È scritto da una persona che ha lottato con sincerità e schiettezza per il miglioramento della vita nel suo paese. Per fortuna non ci sono irritanti giochi psicoanalitici, come ormai tutti fanno, da queste parti, e talvolta facciamo anche noi, raccontando gli accadimenti e ipotizzando che significhino il contrario di ciò che appaiono, riferendosi a dinamiche più o meno edipiche. Qui il racconto si dipana essenziale, l’autore non è certo un romanziere scaltro, rivela spesso la sua non voluta natura di burocrate, però riesce a far comprendere in modo abbastanza chiaro sia la storia politica e sociale della grande «madre Russia», sia le complicate strutture giuridico-politiche di quelle regioni che a noi occidentali sono sempre state piuttosto oscure. È molto piacevole ed istruttivo sentir parlare di personaggi che televisioni e giornali hanno portato in casa nostra in ottiche confuse ed improprie. I problemi giuridici e quelli socio-economici si intrecciano, ma il sindaco di San Pietroburgo cerca di esporle con onestà anche se da una precisa posizione politica. Il libro serve ad orientare nella lettura quel guazzabuglio che pare essere la situazione della nuova Unione Sovietica. Le ultime pagine si chiudono con considerazioni piuttosto amare, mentre l’inizio era trionfalistico e quasi esaltato. Ciò che più ci ha convinto ed anche un po’ turbato è stata l’illusione della possibilità di costituire uno stato di diritto. Il teorico Smith e il politico Washington hanno tentato di teorizzarlo e di realizzarlo in Europa e in America. Gli insulti alla vita democratica che mafia e multinazionali infliggono alla società civile, il disastro socio economico che abbiamo appena sperimentato direttamente negli Stati Uniti ci convincono che anche la democrazia capitalistica non è che un’illusione: ingiustizia e totalitarismo corrodono l’Europa, l’America e l’Asia. Lo stato di diritto non esiste, esiste solo la sopraffazione clientelare. Vogliamo concludere citando un discorso dell’amico, non più «compagno» per fortuna, Anatoli Sobciak, che esprime le sue illusioni e le nostre speranze: «A questo punto mi torna alla mente un famoso discorso di Martin Luther King, in cui ogni periodo iniziava immutabilmente con le parole: ‘Io sogno…’ E così, col soccorso del grande difensore americano dei diritti civili, ho parlato di ciò che sogno. Sogno un’epoca in cui non ci saranno più assemblee circoscrizionali e designazioni preliminari dei candidati, un’epoca in cui gli elettori potranno scegliere liberamente i loro candidati, senza far ressa alle porte di sale chiuse e isolate da militi volontari e pattuglie di polizia, sogno un’epoca in cui ministri incompetenti e corrotti cesseranno di rendere assurda la nostra vita; sogno un’epoca in cui…
sogno l’epoca in cui il nostro stato diventerà uno stato di diritto…».

76 – Ottobre ‘91

martedì, 1 ottobre 1991

In questi giorni i due farfalloni sono molto depressi: hanno rivisitato per dovere professionale alcuni ristoranti di cui avevano parlato bene, ma hanno avuto la sgraditissima sorpresa di un’involuzione ed un degrado generali. Perciò vogliamo subito mettere in guardia i nostri lettori: non fate assolutamente riferimento a nostre affermazioni di un anno fa; nella Roma dei papi e della mafia-camorra c’è solo possibilità di regressione. Ci siamo però messi con impegno, persino a scapito della nostra già fin troppo tondeggiante linea, a visitare molti locali di vario genere della cui ristorazione dire qualcosa di positivo. Infine ne abbiamo trovato almeno uno sulla cucina del quale non avanziamo riserve.
Speriamo regga a lungo e non ci faccia sfigurare lo chef Giuseppe Todisco che cura il ristorante dell’Hotel Majestic di via Veneto, il quale ci ha dato una dimostrazione di autentica professionalità. Abbiamo trascorso nel grande salone al primo piano una serata veramente gradevole, a cominciare dall’aperitivo servito al bar, arredato con gusto e pezzi di ottimo antiquariato.
Accompagnati dalle note discrete di un giovane pianista ci siamo poi spostati al tavolo, in un’atmosfera forse un po’ eccessivamente caricata da tendaggi e cristalli in un miscuglio di vero e falso, leggermente ridicolo, ma non sgradevole, dove ha avuto inizio un’avventura gastronomica dall’esito positivissimo.
Tutti i piatti, sia quelli tradizionali, sia quelli che si affidavano ad una fertile e discreta creatività, consistevano in generose porzioni che nulla toglievano all’eleganza della presentazione e alla digeribilità, contrariamente a quanto ha cercato di far credere uno snobismo importato a casa nostra degli emuli della nouvelle cuisine d’oltralpe, che offriva al commensale affamato un francobollo di branzino decorato da un paio di rosse fragole. Squisite le cosce di coniglio al/a salsa al/o champagne, morbidissime, perfette nella loro classicità; gradevole il tonnetto affumicato dove l’equilibrio aromatico non era pregiudicato da nessuno degli ingredienti.
Di rustica sapidità, raffinati, i rigatoni al tonno fresco e fiori di capperi, e i maltagliati ai funghi porcini estivi. Tra i secondi piatti segnaliamo l’eccezionalità della costoletta milanese alle mandorle, autentica e saporitissima, a cui le mandorle aggiungevano una nota di frizzante novità, senza minimamente disturbare; la Chateaubriand ai funghi porcini impeccabile e tenerissima e la sella d’agnello alle erbe si raccomandavano per la rigorosità dell’esecuzione e per l’eccellenza degli Ingredienti; una scoperta l’anatra arrosto alle amarene squisita, delicata, originale ed armoniosa nelle sue componenti.
Meno esaltante forse il discorso sui dessert, risolto però con abbondanza di sorbetti, gelati, creme fresche e fragranti frutti di bosco, preferibili alla crostatina calda di mele e pere dalla pasta duretta e dal ripieno gommoso. Anche la carta dei vini va rivista perché è troppo scarna e piatta; noi abbiamo risolto con un Pinot grigio e uno Schiopettino, ma ci siamo sentiti a disagio. Il discorso sul prezzo questa volta si impone: è vero che si va piuttosto verso cifre elevate, ma il confronto va fatto in tutta la sua globalità: la ristorazione andante offre ambienti, servizio e qualità delle materie prime decisamente al di sotto ed in genere la ristorazione alberghiera agli stessi prezzi è di una noiosità e scipitezza oltraggiose. Ci daremo da fare per appurare se a Roma sia davvero impossibile conciliare la dignità gastronomica con la gradevolezza degli ambienti e l’accessibilità dei costi!

Il Cul de sac n.2 nel trasteverino vicolo dell’Atleta, segue una corrente che si sta diffondendo un poco anche a Roma: accanto alle osteriacce luride che però sbocciano in luoghi di paradisiaca bellezza, quali sono certi angoli delle vecchie città, in alternativa alle pizzerie disadorne e fumose o a certi ristoranti e ristorantini pseudo-eleganti, che in realtà appagano solo le voglie di falsa argenteria di antiche e meno antiche matrone, fio-riscono ora – dicevamo – localini strategicamente situati, accoglienti e puliti, persino un po’ asettici, ma dalle intenzioni rassicuranti. Nella fattispecie il locale in questione persegue l’obiettivo del bianco a tutti i costi. Bianchi sono le tende di tela che coprono le poche finestre, bianche le fodere delle sedie, immacolato il candore delle tovaglie. Bianche e tersi i piatti di buona ceramica, scintillanti posate e bicchieri; ma bisogna dire che tanto splendore non infastidisce e la cordialità del servizio cancella l’impressione clinica.
La cucina ci sembra stia ancora cercando una strada propria e si barcamena tra piatti moderatamente creativi ed altri di ispirazione «internazional-franciosa». Anche il livello di esecuzione risulta discontinuo: la crosta dello sformato di faraona è troppo spessa ed il ripieno leggermente più acidulo del dovuto; le ostriche alla crema rivelano uno squilibrio tra il sentore eccessivamente marino dei molluschi e la salsa dolciastra, e sono sommerse da troppi crostini grossolani. Molto buono per contro il tournedos, uno splendido taglio di filetto cotto alla perfezione, come a Roma di rado avviene, accompagnato da due ottime salse e da due discutibili spiedini di verdure; la coda caciuccata è invece un piatto infelice, appiccicoso e senza gusto; ottima la riuscita dei rotolini di coniglio alle erbe. Nei dessert manca un senso vero della pasticceria:
sono quasi tutti miscuglietti più o meno compromessi dai frutti di bosco, o creme gelate o semifredde, senza personalità.
Persino troppo ricca e documentata la carta dei vini: il cliente rischia di perdersi nella lettura, senza riuscire a scegliere; per di più c’è anche un eccesso di segnalazioni «esaurito» che aumentano la confusione.
Chi riesce però a venirne a capo è ricompensato da ottimi vini, ben conservati e serviti con proprietà e garbo.
Il conto, in un posto dove tutto è curato fino allo scrupolo, non può, ovviamente, essere irrisorio, ma resta adeguato, sui livelli medio alti che caratterizzano il tutto.

76 – Ottobre ‘91

martedì, 1 ottobre 1991

Tutta l’opera di Victor Hugo non è adatta per gli spiriti mediocri: i mezzi tartufi e gli impiegati della cultura non riusciranno mai a capirlo; egli parla direttamente ai semplici e agli ingenui, come ai raffinati. La sua comunicativa è straordinaria;
l’intensità poetica è molto forte nelle sue opere, un’ironia che ha qualcosa in comune con gli aspetti meno ignobili di quella cultura che oggi è rappresentata dai mass-media. Gli inizi dei suoi romanzi, dei suoi lavori teatrali e delle sue poesie si leggono con un po’ di diffidenza: si ha paura di trovarsi coinvolti nel troppo facile; ma poi dalle pagine e dalle scene si sprigiona una strana magia e, se non si è frigidi, lentamente si è coinvolti, accalappiati. Noi diciamo sempre che il teatro è quello che si rappresenta sulla scena; mentre il testo appartiene alla storia della letteratura; se però il copione non ha un suo intrinseco valore ed una profonda consistenza teatrale, per bravi che siano regista e attori si potrà assistere solo al dimenarsi di un involucro. Mille franchi di ricompensa, scritto da Hugo nel 1866, considerata una sua opera minore, nella grande semplicità di feuilleton, racchiude in sé un intenso vitalismo, fornendo a coloro che lo mettono in scena infinite possibilità. È un grande affresco, in cui nobili, militari, magistrati, ladri, servi, impiegati, donne abbandonate e fanciulle insidiate si muovono secondo un meccanismo di grande precisione e perfezione. La storia è dovutamente sempliciotta, quasi banale, ma riesce ad affascinare pur nella sua ingenuissima previdibilità, anzi proprio per questo, poiché lo spettatore si sente ad ogni istante sfidato ad immaginare come potrà plausibilmente svolgersi la scena che è già così apparentemente predisposta, così scontata. Benno Besson vince la sfida rinunciando ad ogni pudore, non c’è effetto che venga omesso, malgrado le beffarde virgolette che egli sembra anteporre ogni volta; finge di far commuovere per scherzo, ma commuove, suscita l’indignazione, ma le offre l’alibi della risata e tutti gli attori lo assecondano, ciascuno nei suoi propri registri. Primo fra tutti Ugo Maria Morosi che sostiene uno sforzo erculeo nel manovrare il suo personaggio di ladro dal buon cuore sempre fuori da ogni tentazione di credibilità, facendone una marionetta di insuperabile calda umanità. Ferruccio De Ceresa crea quasi un cammeo nel suo lungo delirante monologo del vecchio rivoluzionario malato e deluso. Eros Pagni gioca ad impedire che il suo personaggio sembri capace di qualunque sentimento e quasi di ragione, lasciandone la ribollente emotività tutta circoscritta ad una elettrica tensione sempre ricacciata prima che affiori. Vittorio Franceschi è quasi perfetto nello scolpire a tutto tondo il personaggio del cattivo che più di così non si può, saltellando funambolico sulle corde più infami della crudeltà, della lascivia, dell’ipocrisia, della vigliaccheria. Dorotea Aslanidis, la madre, e Sara Bertelà, la figlia, sono una coppia femminile che marcia in perfetta intesa e che assolve il dovere di rappresentare come meglio difficilmente si potrebbe tutto il quadro sociale di una condizione femminile umiliata e potentissima ad un tempo. Anche tutti gli altri personaggi sono sostenuti da attori la cui appartenenza alla scuola prestigiosa del Teatro Stabile di Genova ha dato caratteristiche professionali di prima qualità. Li citiamo per applaudirli: Gianluigi Fogacci, Paolo Serra, Adolfo Fenoglio, Graziano Piazza, Nicola Scorza, Roberto Serpi, Nicola Pannelli, Andrea Panzini, Carola Ovazza e Antonella Caron. La traduzione italiana di Cesare Garboli è convincente. Le scene e i costumi di Jean Marc Stehlé ironizzano le illustrazioni dei romanzi d’appendice e le adeguate musiche sono firmate da Stèfan Weber. Una nota di compiacimento ci è suggerita dalla bella reazione del pubblico del Teatro Quirino di Roma che ha raccolto la provocazione con gusto.

Al Teatro «La Cometa» si sono esibite, in apertura di stagione, Rosalia Maggio e Dalia Frediani, in uno spettacolo dal titolo nostalgico e rutilante: Milleluci del varietà.
La non più giovane signora Maggio è indubbiamente molto brava: ha alle spalle un mestiere rodato e sicuro, una vèrve irresistibile e sulla scena si sa muovere con grande disinvoltura. Il testo è purtroppo costituito da un collage raffazzonato di sketches e canzonette, bellissimi, belli e meno belli. Non ci sarebbe perciò molto da aggiungere su questo spettacolino, compromesso forse dal clima di pre-stagione e dal caldo ancora imperversante; cionondimeno vorremmo permetterci alcune annotazioni. Rosalia e la sua rigidissima e molto meno brava partner Dalia, che è anche ideatrice del mal cucito copione, si sono scatenate in comportamenti volgari e maleducati e la giovane ha fatto e osato molto peggio e più della veterana, aggredendo il pubblico in modo violento, con gesti osceni, con vere aggressioni fisiche.
Noi ci esaltiamo quando un attore sa «coinvolgere» il pubblico; saperlo fare, cogliendo una battuta, lanciando provocazioni che, se raccolte, permettono. di ricamare vivide improvvisazioni è segno di maestria professionale; però scagliarsi in platea can gesti scomposti e forsennati, costringere i malcapitati spettatori a comportamenti indecorosi e mortificanti, facendoli poi ululare tutti insieme come ubriachi è il contraria del buon teatro. Vogliamo salo aggiungere che al pianoforte era il Maestro Ciro Cascino, le musiche erano curate da Zeno Craig, le scene di Stefania Vecchione, i costumi di Imma Simonetti e la sciagurata regia era firmata da Antonio Casagrande.