Psicoanalisi contro n. 76 – Silenzi

ottobre , 1991

Prima di iniziare un lavoro psicoanalitico presso il centro che dirigo è indispensabile fare un colloquio con me; io lo esigo per due ragioni fondamentali: innanzi tutto perché sono io che indico il terapeuta col quale ritengo sia opportuno intraprendere l’analisi in base ad un giudizio d’insieme sulla situazione psichica ed esistenziale di chi si rivolge a noi ed inoltre per la validissima ragione che a me compete il lavoro di supervisione su tutta l’attività psicoterapeutica del centro medesimo, per cui ritengo utile aver avuto un contatto personale anche coi pazienti. L’incontro viene da me quasi sempre concluso con una sorta di «predicozzo» col quale ribadisco che il rapporto analitico, proprio perché è una relazione tra due persone, non ammette il ruolo passivo di una delle due parti, per cui anche il paziente deve affrontare gli incontri con l’impegno di voler aiutare il terapeuta e non limitarsi a subire l’analisi. Sottolineo poi l’importanza di mantenere un ritmo minimamente assiduo agli incontri, malgrado le resistenze e i desideri di fuga che possono insorgere; l’efficacia della cura richiede questa minima regolarità e frequenza, senza le quali non è pensabile alcun risultato. Spesso il paziente sente gravemente il peso delle sedute, lo affatica l’idea di un incontro al quale gli pare di presentarsi con la mente vuota, senza nulla da dire che non sembri sciocco o inutile. Proprio qui si nasconde il pericolo più grande: nella tentazione di approfittare del proprio disagio per rinunciare, per interrompere l’analisi. Ci si giustifica anche ventilando a se stessi la prospettiva di altri possibili analisti con cui riprendere, più simpatici, più comprensivi, più capaci di stimolare chissà quale fiduciosa facondia discorsiva. lo esorto sempre a non aver paura del silenzio che si può verificare nella seduta; riconosco che è una situazione pesante anche per l’analista il quale soffre nel vedere il paziente, rigido, che gli sta di fronte, muto e contratto; nell’accorgersi che le dita torcono i bottoni degli abiti, che le unghie si conficcano nell’imbottitura del divano della sedia, nell’assistere a conflitti interni che così evidentemente squassano l’intera persona. Spesso mi sento dire da chi mi sta di fronte: «Ho l’impressione di essere stupido, di non saper dire niente di interessante. Vorrei, ma la mia vita è così triste e squallida, i miei pensieri così inessenziali che mi vergogno a manifestarli». Inutilmente mi affanno a ribadire che tutto quello che viene detto in analisi è interessante: non è compito del paziente decidere se quello che egli viene dicendo sia o non sia utile; più importante è che continui a parlare. Talvolta si riesce a sciogliere in tempi brevi il blocco del silenzio, altre volte l’attesa può essere molto lunga, col rischio che il paziente, vittima di se stesso, non regga e abbandoni.
Una persona che, molti anni orsono, faceva analisi con me, la interruppe per ben quattro volte. Ogni volta ripeteva: «Non so che dire, il silenzio mi pesa troppo; e quando mi sforzo di dire qualcosa mi sento assolutamente un idiota». Allora io avevo anche la disponibilità di tempo che mi permetteva di compiacere in parte i capricci suscitati dalla sofferenza e avevo assecondato il suo andare e venire con molta pazienza, prima di trovare il momento giusto in cui affrontare di petto la situazione mettendolo con chiarezza davanti alle sue responsabilità. Dopo, non tentò più di fuggire, anche se furono molte le sedute burrascose o di nero mutismo.
Ricordo la cupezza di quei silenzi, con la rabbia che saliva in lui e che contagiava alla lunga anche me; ricordo le poche frasi irritanti ripetute caparbiamente: «Non so che dire, non mi viene niente, sono solo stupidaggini quelle che direi, che non possono servire a niente». Ho ben presente l’aggressività di richieste del tipo: «Oggi parli lei, perché io non so cosa dire». Allora ero giovane, forse più entusiasta, senz’altro più debole di oggi. Una volta caddi nell’inganno del mio tirannico paziente e incominciai a parlare.
Ben presto mi accorsi che non mi stava a sentire: continuava a contorcersi, pensando a ciò che non mi voleva dire, o forse sforzandosi di non pensare le cose che non riusciva però a scacciare dalla mente. Adesso io sono più calmo e determinato, forse anche più spietato e riesco a tacere implacabile, se lo ritengo utile.

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Quale era il motivo di quell’intoppo? Cosa aveva rischiato di far fallire quell’analisi? Quale pensiero veniva costantemente respinto? La risposta si rivelò addirittura banale, tanto che penso lo abbiano già intuito i lettori di queste righe. Nel corso della seduta burrascosa alla quale ho prima accennato ci fu un punto in cui il mio paziente mi disse: «Ho fatto un sogno, ma non ho il coraggio di raccontarlo». Era tanto tempo che non mi portava sogni in seduta ed ora mi diceva con rabbia e con odio quella frase; ma io percepivo sotto quell’apparenza il suo essere spaurito e tremante. Iniziò una vera e propria lite; giungemmo quasi agli insulti reciproci: mi accusava di essere sadico ed io lo accusavo di essere vigliacco. Alla fine cedette, spossato. Allentò tutti i muscoli e balbettando come un bambino troppo timido mi raccontò che aveva sognato che lui ed io ci trovavamo al centro di una grande piazza e ci baciavamo sulla bocca. Dopo quella confessione tornò ad irrigidirsi, si alzò in piedi, mi prese la mano e mi disse: «Debbo andare». E uscì, senza che fosse finito il tempo della seduta. lo rimasi sulla mia poltrona turbato, ma soddisfatto, con la certezza che sarebbe tornato.

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L’ipotesi che quella persona si fosse innamorata di me e ne fosse diventata consapevole mi era certo balenata in mente, ma mi era sembrata una spiegazione persino troppo semplicistica, addirittura sciocca ed ingenua. Eppure la rabbia che egli esprimeva non poteva avere altra giustificazione; l’odio che mi manifestava era con troppa evidenza la copertura di un altro sentimento, addirittura opposto; tanto che io tardavo a rendermene conto Il anche perché inconsapevolmente mi dava fa fastidio accettare l’idea di trovarmi di fronte per l’ennesima volta al solito gioco che la psicoanalisi ha da sempre praticato, del capovolgimento di quello che appare per trovare quello che c’è. Si dice bianco quando si pensa nero; si dice: «Ti odio», quando invece si vorrebbe dire: «Ti amo». Eppure quei silenzi che talvolta si scioglievano in lacrime; le mani aggrappate al bracciolo della poltrona che sembravano faticare per non compiere un gesto intensamente voluto; quel silenzio ostinato ed apparentemente cattivo stavano a dire che le parole erano inutili quando si sarebbe voluto fare altro: fare l’amore. Anche io forse mi stavo difendendo, avevo paura del suo, ma anche del mio innamoramento, per questo rifiutavo di capire, col pretesto di respingere una spiegazione troppo ovvia. I Il racconto di quel sogno liberò entrambi: I potemmo riprendere a parlare, dapprima con fatica, poi sempre più liberamente, mettendo in causa anche questo amore impossibile, moralmente condannato. Mi parlò dei suoi amori passati, dei rifiuti che lo avevano umiliato, del timore di essere rifiutato ancora.
Lentamente riuscii a fargli capire che non c’era nulla di impossibile nel suo innamoramento per me, anche se forse non si sarebbe mai tradotto in un rapporto fisico. Gli dissi che la via della guarigione per lui poteva passare anche attraverso la consapevolezza di quel desiderio. Entrambi arrivammo a capire che l’amore non deve fare paura.

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Nel corso del colloquio preliminare con coloro che mi chiedono un’analisi dovrei dunque dire subito qualcosa che metta in guardia contro il grande pericolo rappresentato dalla tentazione del silenzio, ma non lo faccio, non dico a nessuno che il silenzio è un implicito invito a fare altro che non sia l’analisi, che è una proposta sessuale. Sto anzi piuttosto in guardia, attento a non esplicitare tutto questo. Al contrario, sono molto chiaro a questo proposito con gli allievi durante le lezioni, nei seminari pubblici, quando scrivo, perché lo ritengo molto utile. Quando invece lo stesso argomento venisse trattato al primo incontro, allora si rischierebbe di compromettere tutto il lavoro successivo. È preferibile che il discorso sull’innamoramento resti sottinteso, impalpabile, con la possibilità di essere negato fino al momento giusto. Ricordo una persona che si affrettò a dirmi: «Non creda che io mi innamori con tanta facilità del mio terapeuta». Era un ragazzo molto orgoglioso della propria virilità, soddisfatto della sua reputazione di dongiovanni.
«Poi se mi affiderà ad un analista maschio sarà proprio impossibile che io me ne innamori». Sorridevo dentro di me, colpito dalla simpatia che mi ispirava quel giovanottello così prevedibile, così banale.
Lo affidai alle cure di un terapeuta di cui ovviamente si innamorò senza ritegno. Un giorno mi telefonò pretendendo con urgenza un colloquio. Entrò nel mio studio, visibilmente turbato, mi disse: «Mi sono innamorato di lui. Ero sincero quando le dissi che non credevo che mi sarebbe mai potuto accadere, perché è successo?» Non lo aveva ancora confessato all’analista, non ne aveva il coraggio, passava le sedute in faticoso silenzio; ma egli era pienamente consapevole. Si tormentava notte e giorno, faticava a sopportare quel peso, mi chiese di poter cambiare terapeuta. Non acconsentii né rifiutati esplicitamente, gli consigliai solo di attendere ancora un poco. Un mese dopo non aveva ancora avuto il coraggio di dire nulla, mi pregò di assegnargli una terapeuta donna, così non lo avrebbe spaventato troppo l’idea di innamorarsene. Gli feci notare che non ci si innamora così meccanicamente, gli consigliai di procrastinare ancora qualche tempo ogni decisione. Uscì dallo studio con l’aria soddisfatta e spaventata: quell’analisi proseguì.
Il lavoro del supervisore è indubbiamente faticoso: ogni gesto ed ogni parola diventano compromettenti, influiscono sul lavoro di altri con seri rischi per tutti. lo so di rischiare ogni volta che intervengo, ma lo debbo fare. Talvolta vorrei fuggire anch’io, o restare in silenzio. Mi chiedo allora: «Di chi sono innamorato io? A chi non oso esplicitare il mio innamoramento?»

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Non vorrei con gli esempi che ho portato p sopra aver indotto nei lettori una conclusione errata. Non vorrei che avessero dedotto che il paziente che con il silenzio si difende dalla consapevolezza dell’innamoramento sia necessariamente colui che s prova un sentimento di attrazione
omo-sessuale; ciò non è assolutamente vero: l ci si difende dall’innamoramento comunque. La storia individuale può indurre in qualcuno un terrore particolare per l’innamoramento omosessuale; ecco, allora, le fughe, i silenzi per tacere ciò che si vorrebbe dire. Nell’inconscio sociale della nostra cultura, ma io credo di tutte le culture, si cela una grande paura dell’amore; apparentemente potrebbe sembrare che l’amore omosessuale spaventi di più per la condanna morale che comporta. Nella particolare situazione del rapporto psicoanalitico, rendersi conto di essere innamorati del proprio terapeuta dello stesso sesso, può anzi, spaventare un po’ meno, perché si è ormai diffusa la convinzione, non solo inconscia, che la bizzarria dell’essere umano è imprevedibile, che le pulsioni omosessuali esistono per cui, in fondo, l’analisi finisce per costituire un alibi di copertura morale a sentimenti che così si esprimono senza troppe soggezioni, rassicurati dal fatto che l’analista ci proteggerà dal rischio della realizzazione pratica del desiderio. Più grande è lo spavento se l’amore omosessuale si manifesta per qualcuno che è estraneo all’analisi; ma in ogni caso si ha più paura quando si scopre un sentimento d’amore per una persona di sesso diverso, con la quale magari da tempo esiste un rapporto consolidato di amicizia, di collaborazione professionale, di militanza politica, di impegno culturale; fa paura perché viene visto come più facilmente realizzabile, senza che nessun giudizio morale possa frapporsi. Insomma non è la modalità più o meno anomala dell’amore, ma è l’amore in sé che terrorizza gli esseri umani.

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Il fondamento della mia teoria è che Eros, il principio originario d’amore, costituisce tutti gli esseri umani e forse tutti gli esseri viventi. Cosa spiega allora questa paura generalizzata di amare? Non è in contraddizione con la mia teoria? Perché si dovrebbe avere così paura dell’esigenza costituiva, del bisogno più profondo dell’uomo? La risposta è proprio in questo: Eros è una necessità imprescindibile, proprio perciò fa paura. Si percepisce che senza l’amore sarebbe messa a repentaglio la stessa esistenza, senza l’amore forse nulla sarebbe esistito e nulla potrebbe sopravvivere; ma poi ciascuno si ritrova scagliato in un mondo in cui è tanto difficile amare. Questa è la condanna dell’uomo; forse il Paradiso è proprio la possibilità di amare senza condizioni, senza ostacoli. Così io penso, così vorrei che fosse.
La prima frustrazione di questo bisogno d’amore ha messo in moto le difese originarie, e tutte quelle successive. L’uomo vorrebbe amare ed invece è costretto perennemente a difendersi. Non so dire perché tutto questo è avvenuto, però sono convinto di questa realtà: ci si difende quando ci si sente attaccati, perché si è in guerra. Non so chi abbia scagliato la prima freccia, ma qualcuno lo ha fatto, forse perché non possa realizzarsi il Paradiso qui in terra; anche se vale la pena di andarne continuamente alla ricerca. Solo Eros riesce a mediare la contraddittorietà dei sentimenti umani, solo l’amore può efficacemente combattere contro l’inevitabilità della guerra tra gli uomini.

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Mi pare di non aver chiarito quale deve esser il comportamento dell’analista che percepisce dietro al silenzio del paziente la richiesta di realizzare un desiderio sessuale. Non posso dare istruzioni generali, perché sarebbero anche generiche; però è possibile fornire qualche indicazione di massima. È molto rischioso rivelare al paziente le sue vere esigenze se egli ne è già consapevole: in tal caso il terapeuta si mette in una condizione di debolezza, il paziente, vistosi scoperto può difendersi non solo negando come è ovvio; ma beffando l’analista e rovesciando la situazione: «Cosa credi che il mondo stia aspettando te? Pensi che possedere due formulette ti dia il diritto di decidere cosa gli altri desiderano; è una tua ossessione che ti fa vedere sesso ed innamoramenti dappertutto. Non farti illusioni, di te non m’importa proprio niente. Anzi ti dirò che non mi piaci affatto, non mi piace nulla di quello che fai e che ti sta intorno.
Non vedo proprio perché dovrei continuare un lavoro di psicoanalisi con una persona che stimo così poco e che anche professionalmente non mi dà garanzie».
Un terapeuta che si è esposto ad una simile aggressione e che ha subito una così grande svalutazione, difficilmente riuscirà a recuperare e a condurre a buon fine il suo compito. Quando allora si debbono esplicitare al paziente i suoi desideri inconfessati? La cosa migliore è che questa pericolosa verità affiori lentamente alla coscienza e se egli ne è già consapevole bisogna aiutarlo, con cautela, a dire ciò che non riesce ad esprimere; poi si potrà proseguire con più sicurezza, sebbene sempre con trepidazione, sviscerando anche questo nuovo elemento del rapporto analitico.

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Se però si giunge al punto in cui le resistenze sono tanto forti da avere la meglio sull’innamoramento e se il terapeuta si rende conto che l’analisi potrebbe essere interrotta dal paziente che non regge più alla frustrazione, bisogna allora pretendere che racconti i suoi sogni. Se si riesce in quest’intento, senza dubbio attraverso i sogni sarà possibile isolare gli elementi che potranno essere interpretati come messaggi d’amore per il terapeuta. Servendosi del fragile schermo del sogno si potrà giungere a parlare del sentimento di amore. È come quando si stappa una bottiglia di spumante: non bisogna fare il «botto».
Prima va tolta con precauzione la gabbietta di fil di ferro, poi il tappo va guidato lentamente col pollice, lasciando fluire il gas poco a poco. Il paziente neppure deve fare il «botto», ma bisognerà poco a poco lasciargli scaricare la tensione. Bisogna ovviamente che l’analista sia molto a abile. Deve saper essere in accordo col paziente, saper intrecciare con lui un aro dito contrappunto, ricco anche di improvvisazioni. Se i sogni non arrivano, o il :e paziente si rifiuta di riferirli, allora bisogna correre il rischio di tirare troppo la sì corda, di perdere il paziente. Ogni analisi ha i suoi tempi imprevedibili dall’esterno, ogni momento dell’analisi ha i suoi ritmi interni. Solo l’orecchio del buon analista li sa cogliere. Anche in ciò sta l’entusiasmante aspetto del faticosissimo lavoro dell’analisi.