76 – Ottobre ‘91

ottobre , 1991

Tutta l’opera di Victor Hugo non è adatta per gli spiriti mediocri: i mezzi tartufi e gli impiegati della cultura non riusciranno mai a capirlo; egli parla direttamente ai semplici e agli ingenui, come ai raffinati. La sua comunicativa è straordinaria;
l’intensità poetica è molto forte nelle sue opere, un’ironia che ha qualcosa in comune con gli aspetti meno ignobili di quella cultura che oggi è rappresentata dai mass-media. Gli inizi dei suoi romanzi, dei suoi lavori teatrali e delle sue poesie si leggono con un po’ di diffidenza: si ha paura di trovarsi coinvolti nel troppo facile; ma poi dalle pagine e dalle scene si sprigiona una strana magia e, se non si è frigidi, lentamente si è coinvolti, accalappiati. Noi diciamo sempre che il teatro è quello che si rappresenta sulla scena; mentre il testo appartiene alla storia della letteratura; se però il copione non ha un suo intrinseco valore ed una profonda consistenza teatrale, per bravi che siano regista e attori si potrà assistere solo al dimenarsi di un involucro. Mille franchi di ricompensa, scritto da Hugo nel 1866, considerata una sua opera minore, nella grande semplicità di feuilleton, racchiude in sé un intenso vitalismo, fornendo a coloro che lo mettono in scena infinite possibilità. È un grande affresco, in cui nobili, militari, magistrati, ladri, servi, impiegati, donne abbandonate e fanciulle insidiate si muovono secondo un meccanismo di grande precisione e perfezione. La storia è dovutamente sempliciotta, quasi banale, ma riesce ad affascinare pur nella sua ingenuissima previdibilità, anzi proprio per questo, poiché lo spettatore si sente ad ogni istante sfidato ad immaginare come potrà plausibilmente svolgersi la scena che è già così apparentemente predisposta, così scontata. Benno Besson vince la sfida rinunciando ad ogni pudore, non c’è effetto che venga omesso, malgrado le beffarde virgolette che egli sembra anteporre ogni volta; finge di far commuovere per scherzo, ma commuove, suscita l’indignazione, ma le offre l’alibi della risata e tutti gli attori lo assecondano, ciascuno nei suoi propri registri. Primo fra tutti Ugo Maria Morosi che sostiene uno sforzo erculeo nel manovrare il suo personaggio di ladro dal buon cuore sempre fuori da ogni tentazione di credibilità, facendone una marionetta di insuperabile calda umanità. Ferruccio De Ceresa crea quasi un cammeo nel suo lungo delirante monologo del vecchio rivoluzionario malato e deluso. Eros Pagni gioca ad impedire che il suo personaggio sembri capace di qualunque sentimento e quasi di ragione, lasciandone la ribollente emotività tutta circoscritta ad una elettrica tensione sempre ricacciata prima che affiori. Vittorio Franceschi è quasi perfetto nello scolpire a tutto tondo il personaggio del cattivo che più di così non si può, saltellando funambolico sulle corde più infami della crudeltà, della lascivia, dell’ipocrisia, della vigliaccheria. Dorotea Aslanidis, la madre, e Sara Bertelà, la figlia, sono una coppia femminile che marcia in perfetta intesa e che assolve il dovere di rappresentare come meglio difficilmente si potrebbe tutto il quadro sociale di una condizione femminile umiliata e potentissima ad un tempo. Anche tutti gli altri personaggi sono sostenuti da attori la cui appartenenza alla scuola prestigiosa del Teatro Stabile di Genova ha dato caratteristiche professionali di prima qualità. Li citiamo per applaudirli: Gianluigi Fogacci, Paolo Serra, Adolfo Fenoglio, Graziano Piazza, Nicola Scorza, Roberto Serpi, Nicola Pannelli, Andrea Panzini, Carola Ovazza e Antonella Caron. La traduzione italiana di Cesare Garboli è convincente. Le scene e i costumi di Jean Marc Stehlé ironizzano le illustrazioni dei romanzi d’appendice e le adeguate musiche sono firmate da Stèfan Weber. Una nota di compiacimento ci è suggerita dalla bella reazione del pubblico del Teatro Quirino di Roma che ha raccolto la provocazione con gusto.

Al Teatro «La Cometa» si sono esibite, in apertura di stagione, Rosalia Maggio e Dalia Frediani, in uno spettacolo dal titolo nostalgico e rutilante: Milleluci del varietà.
La non più giovane signora Maggio è indubbiamente molto brava: ha alle spalle un mestiere rodato e sicuro, una vèrve irresistibile e sulla scena si sa muovere con grande disinvoltura. Il testo è purtroppo costituito da un collage raffazzonato di sketches e canzonette, bellissimi, belli e meno belli. Non ci sarebbe perciò molto da aggiungere su questo spettacolino, compromesso forse dal clima di pre-stagione e dal caldo ancora imperversante; cionondimeno vorremmo permetterci alcune annotazioni. Rosalia e la sua rigidissima e molto meno brava partner Dalia, che è anche ideatrice del mal cucito copione, si sono scatenate in comportamenti volgari e maleducati e la giovane ha fatto e osato molto peggio e più della veterana, aggredendo il pubblico in modo violento, con gesti osceni, con vere aggressioni fisiche.
Noi ci esaltiamo quando un attore sa «coinvolgere» il pubblico; saperlo fare, cogliendo una battuta, lanciando provocazioni che, se raccolte, permettono. di ricamare vivide improvvisazioni è segno di maestria professionale; però scagliarsi in platea can gesti scomposti e forsennati, costringere i malcapitati spettatori a comportamenti indecorosi e mortificanti, facendoli poi ululare tutti insieme come ubriachi è il contraria del buon teatro. Vogliamo salo aggiungere che al pianoforte era il Maestro Ciro Cascino, le musiche erano curate da Zeno Craig, le scene di Stefania Vecchione, i costumi di Imma Simonetti e la sciagurata regia era firmata da Antonio Casagrande.